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armeli iapichino lucianodi Luciano Armeli Iapichino
C’era la Sicilia, e continua a esserci, dei leader della mafia in colletto bianco, Calogero Vizzini, Genco Russo, Michele Navarra, per fare qualche esempio, campioni di delinquenza nel secondo dopoguerra, e c’è uno sterminato esercito di amministratori locali trucidato dalle cosche prevalentemente nel Sud d’Italia.
Centoquarantatré morti, dal 1974 a oggi, secondo la relazione della Commissione Parlamentare di Inchiesta sul Fenomeno delle intimidazioni nei confronti degli amministratori locali, (febbraio 2015, Lo Moro presidente, Cirinnà segretario). Tra questi, ricordiamo Marcello Torre, sindaco di Pagani (SA), ucciso per volontà di Raffaele Cutolo, 11 dicembre 1980, Angelo Vassallo sindaco di Pollica (SA), 5 settembre 2010, e Laura Prati, sindaco di Cardano al Campo (VA), 2 luglio 2013.

E poi c’è Calogero Palmiro Calaciura, docente di Lettere, già sindaco di Cesarò (Me) dal 1978 al 1988, consigliere comunale ricandidato a sindaco nelle elezioni del 7 giugno 1992. Esecutore materiale dell’attentato perpetrato la notte del 15 maggio di quell’anno? Sconosciuto. Mandanti? Sconosciuti. Scrive la Commissione Parlamentare d’Inchiesta: “Di molti di questi casi ancora oggi si sa poco, appena un lancio di agenzia. Anche giudiziariamente molte vicende sono state archiviate pur avendo gli inquirenti ricostruito lo scenario della vicenda”. E sul caso del Prof. Calaciura?
Procediamo con ordine.
È la notte del 15 maggio 1992. L’indomani, a Cesarò, scade il termine ultimo della presentazione delle liste. Il piccolo comune montano è feudo politico dell’on. Vincenzo Leanza (DC), Presidente della Regione, sindaco del contiguo comune di San Teodoro.
La corrente democristiana di Giuseppe Merlino, in quel tempo assessore regionale, inizia a minarne l’egemonia politica.
I potentati politici della Prima Repubblica controllano, dunque, il piccolo comune cesarese, in cui, pari grado, s’intravede anche l’embrione di quella mafia dei pascoli che, da lì a un ventennio, sarà artefice di una vera e propria mattanza legata al controllo del territorio, (una quindicina di vittime, di cui Calaciura è solo una delle prime) supportata da alleanze strategiche con le più organizzate consorterie mafiose zonali e interprovinciali.
Cesarò, un territorio mozzafiato dal punto di vista naturalistico, quanto “pauroso”, con ettari di bosco che lo rendono attraente e interessante per il benessere psicofisico dell’uomo e, forse, ingestibile per la sua sicurezza, e dall’organigramma mafioso, oggi, di tutto rispetto. Calogero Calaciura rientra da una riunione politica avvenuta nel centro studi di Palazzo Zito, a bordo della sua Fiat Panda. Il docente di Lettere ferma l’auto ed è raggiunto da cinque colpi di lupara calibro 12, uno dei quali lo raggiunge mortalmente perforandogli un polmone. Chi ha premuto il grilletto, per averlo scelto, sembra conoscere bene le vie di fuga di quel luogo circondato da boscaglia.
È l’inizio di un dramma per una famiglia cesarese, la moglie e tre bambini. La campagna elettorale finita: tutti i candidati si ritirano. Un omicidio eccellente, quello del professore, che alza, a quel tempo, la peculiarità della cosca zonale nebroidea, il cui status qualitativo è visibile adesso con riferimento al numero dei morti ammazzati in quel perimetro di terra e le inchieste sugli infiniti fondi comunitari.

Quello del politico, a oggi, rimane un omicidio irrisolto dal movente oscuro. Si parlò, allora, di origine politica del misfatto, pianificato, forse, da apparati in odor di mafia bramosi di avviare senza ostacoli, per l’appunto, salti di qualità, o di una ritorsione per un’inchiesta, “sollecitata anche dell’ex sindaco, sui contributi comunitari per l’allevamento del bestiame”. (Comm. Parl.); si parlò di moventi legati ad appalti pubblici e, inizialmente, con un maldestro e subdolo tentativo nella piena tradizione del mascariamento delle vittime di mafia, anche di delitto passionale (vedi attentato all’Addaura organizzato dallo stesso Falcone; vedi l’omicidio del giornalista Pippo Fava additato, dapprima, a questioni di fimmini, e tanti altri). Qualche interrogativo, a distanza di qualche decennio, sembra legittimo.

A che punto si “arenò” l’indagine sull’omicidio del già sindaco di Cesarò? Sono stati mai desecretati e/o consultati i rapporti dei carabinieri e dell’autorità investigativa?
Chi erano a quel tempo (e chi sono oggi), in primis a Cesarò, comune destabilizzato anche da qualche strano “suicidio, e nei comuni limitrofi (San Teodoro, Bronte, Maniace, Troina …), gli affiliati alla mafia dei pascoli dal casellario giudiziale poco affidabile escussi (se lo sono stati) dalle autorità per la verifica dei presunti alibi o di eventuali indizi?
Chi i giovani e meno giovani, di allora, dal pedigree di tutto rispetto?
È paventabile un insabbiamento dell’indagine pilotato da certi potentati politici dell’epoca, una voluta e pianificata inerzia istituzionale, finalizzata al mantenimento dello status quo e di certi equilibri, come se ne subodora oggi in alcuni omicidi clamorosi (dal caso Agostino a quello Manca) o semplicemente si configurò come una reale inconsistenza degli elementi riscontranti? E quella sera di maggio, tiepida e lunga, nessun testimone oculare, nessuna coppietta appartata non distante da quel luogo nefasto, o lungo la via di fuga del/dei killer, ha visto o sentito qualcosa, tanto da poterlo riferire, anche in forma anonima, dopo un quarto di secolo?

È un dato indiscutibile che l’esecutore materiale di questo vile omicidio è a piede libero, così come il fatto che Calogero Calaciura, di certo, “uomo pubblico con molti amici, ma anche con molti nemici” (Comm. Parl.), non meritasse la fine tragica cui è andato in contro, né verità e giustizia negate.
Forse, anche alla luce di tutta la mobilitazione mediatica scaturita dall’attentato al Presidente del Parco dei Nebrodi, un atto di coraggio e di forza contro il demone dell’omertà, da parte di qualcuno (magari presente in quelle pirotecniche riunioni politiche di quel maledetto maggio), appare doveroso e potrebbe rilanciare il riscatto civile di una comunità, abitata da tante persone perbene.
Così solo si può far luce su una delle pagine più tristi della sua storia e liberare, pari tempo, la coscienza di tutte quelle persone estranee al delitto, a vario titolo sospettate, e che pensano che la parabola esistenziale di Calaciura non avrebbe meritato quell’epilogo.

In foto: lo scrittore Luciano Armeli Iapichino

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