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pistola pallottole sanguedi Pippo Giordano
“..eravamo tutti soli!” questa sintetica frase, pronunciata dal mio amico e collega Vincenzo Ragusa, nel documentario RAI Ninni Cassarà, un bravo poliziotto, rappresenta di fatto la sospensione della Democrazia a Palermo. Una frase amara e drammatica, pronunciata non da un vinto - nessuno della Squadra mobile di Palermo lo era -, ma da chi consapevole, di mettere la propria vita al servizio del proprio Paese, faceva il proprio dovere. Ma nella città della Zagara, c'era in atto un “gioco” al massacro col beneplacito di un imbelle Stato. Eravamo tutti soli, non è uno slogan, piuttosto è una forte denuncia postuma verso chi aveva l'obbligo di aiutarci a sconfiggere Cosa nostra e, ahimè, invero preferì indicibili accordi. Le sentenze emesse dai giudici, parlano chiaro. Uno Stato a cui va iscritta la responsabilità oggettiva di tutti i massacri avvenuti i terra di Sicilia e non. Vorrei essere smentito. Eravamo tutti soli, lo era anche il magistrato Rocco Chinnici verso il quale ci fu una macroscopica “disattenzione” che gli costò la vita nonostante fosse giunta una telefonata che preannunciava un imminente attentato con autobomba a Palermo. Io c'ero! Eravamo tutti soli, anche il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, accerchiato dai mafiosi e spinto verso la solitudine da chi gli aveva promesso i poteri per contrastare la mafia e invece fece di tutto per isolarlo: nemmeno gli espliciti messaggi di morte a lui diretti, convinsero lo Stato a regalargli la vita. Si preferì la morte. Io c'ero! Eravamo tutti soli alla Mobile di Palermo. Il primo a cadere sotto il fuoco di Cosa nostra, della mia V° sezione investigativa, fu Lillo Zucchetto, poi toccò a Beppe Montana, poi ancora a Ninni Cassarà e Roberto Antiochia e infine a Natale mondo. Una Sezione decimata, una Sezione che ha pagato il più alto tributo di sangue. La Sezione di Nini Cassarà era la sede “Universitaria” delle investigazioni contro Cosa nostra: una quarantina di persone che sapevano bene di morire piuttosto che vivere da vigliacchi. Se io fossi il Capo della Mobile palermitana, farei dipingere sul soffitto e sulle pareti fiumi di sangue versato da chi per amore di questo Paese, perse la vita, rimarcando la latitanza dello Stato. Eravamo tutti soli, lo era pure il magistrato Giovanni Falcone il cui annuncio di morte era ben scritto a carattere cubitali in ogni via e piazza di Palermo. Lo sapevano anche gli inquilini degli ambulacri del potere romano. Tutti sapevano, ma tutti tacerono. Tutti lo odiavano, tutti lo derisero, tutti l'abbandonarono per poi osannarlo da morto. Indegni individui che l'improvviso divennero “amici” di Giovanni Falcone. Eravamo tutti soli, quando per compiere la quadratura del cerchio, si isolò e si ghettizzò per ben 57 giorni dopo la morte del suo più caro amico, Giovanni Falcone, il magistrato Paolo Borsellino. Eravamo tutti soli, se un ministro dell'Interno in carica, tale Nicola Mancino, negò di conoscere Paolo Borsellino. E che dire di quegli individui che rubarono l'Agenda rossa di Paolo Borsellino facendo slalom sui corpi martoriati dall'esplosione in via D'Amelio? Più sangue che Stato, mio caro Vincenzo Ragusa! Fu il nostro amaro destino. Diventare nostro malgrado Notai di morti. Ma non rimanemmo soli, avevamo nei cuori e nella mente, i nostri colleghi caduti per quell'onore e rispetto verso la Costituzione. E sapevamo bene, che mai e poi mai li avremmo lasciati soli.

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