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parigi candeledi Sara Donatelli
Ci sono luoghi in cui il tempo non è una linea retta, non si muove sempre in avanti, da una cosa alla successiva. Esso si muove in circolo, come il tempo delle lancette dell’orologio, le quali non procedono in avanti, ma ruotano intorno ad un quadrante, un giorno dopo l’altro, lungo lo stesso percorso. Ed è proprio lì, in quel tempo eternamente circolare, che è sempre guerra. E non c’è alcuna differenza tra il giorno precedente ed il giorno successivo. Non si procede in avanti, ma circolarmente. Tutto come ieri, tutto come domani. Perché ogni istante è guerra. E perché è proibito guardare il cielo. Perché dal cielo precipitano vertiginosamente delle bombe mandate da un paese tanto lontano, ma vicino abbastanza da distruggere ogni cosa. E la parola “pace” rimane solo un accumulo di lettere, lasciate scritte all’interno di un vocabolario mai letto, sepolto anch’esso dalle macerie.  Viene in mente Simone Weil, scrittrice e attivista parigina negli anni 40, la quale basò la sua vita su una lotta estenuante contro i miti bugiardi, il nazionalismo bieco ed ogni genere di fanatismo ideologico. “Si mettano le maiuscole a parole vuote di significato e gli uomini verseranno fiumi di sangue, accumuleranno rovine su rovine, ripetendo queste parole, senza poter mai ottenere effettivamente qualche cosa che a queste parole corrisponda. Rivoluzione, Terra, Patria, Onore, Destino, Sangue, Forza. Tutte le espressioni principali di questo vocabolario politico sono destinate e rivelarsi formule magiche oscene e screditate. Le parole che hanno un contenuto e un senso non sono omicide. Se talvolta una di esse è mescolata al sangue versato, è più per accidente che per fatalità”. La storia dell’umanità è costellata da guerre fatte in nome della Pace e della Democrazia. Parole con le lettere maiuscole (“e gli uomini verseranno fiumi di sangue, accumuleranno rovine su rovine”). Da anni veniamo bombardati dai mass-media che ci parlano di guerre di religione. I libri di storia ci parlano di guerre di religione. Ma non esistono, né mai sono esistite, guerre basate su motivazioni religiose o ideologiche. Le guerre scoppiano per motivi economici e politici. Ma la cosa più semplice da fare (e più comoda) rimane quella di riempire le parole con un nuovo significato, scriverle con la lettera maiuscola e lasciare che gli uomini si uccidano per esse. Ogni volta che scoppia una guerra, dall’altra parte c’è sempre il demonio. E se invece valesse la regola contraria? Se non si facesse la guerra perché l’altro è il demonio, ma si demonizzasse l’altro per fargli la guerra? Ma si sa, i pensieri più complessi non sono mediaticamente accettabili. E così, quasi senza accorgercene, ci troviamo ad essere non più uno di fronte all’altro, a guardarci in faccia e riconoscerci l’un con l’altro come esseri umani. Ci ritroviamo uno accanto all’altro, singoli atomi messi insieme da un’industria socio-culturale brevettata: ciò che ci viene detto, costantemente ed insistentemente, ha un effetto omologante su di noi. La vera minaccia alla libertà, oggi, è rappresentata da un potere che non ha bisogno di usare il pugno di ferro, ma un guanto di velluto, pronto a sedurci e a stimolare i nostri istinti più bassi. Questa minaccia, questo pericolo, non si presenta minaccioso ma conforme all’aspetto democratico di una società. Le persone omologate non eleggeranno mai tiranni sanguinari, ma tutori, ovvero qualcuno che li accompagni per mano, proprio come un pastore fa con le pecore. Il potere sugli uomini diventa quindi tutelare ma intrusivo, mite ma regolare. Un potere che vuole essere l’unico agente regolatore dei pensieri e delle azioni degli uomini. Un po’ come un padre fa con un figlio. Ma si tratta di un padre che non vuole l’emancipazione del figlio, quanto piuttosto mantenerlo eternamente nella fanciullezza, in modo tale da esserne sempre e costantemente il tutore. Sottoposti agli stessi stimoli, avremo dunque gli stessi bisogni, ed esigeremo le stesse risposte. Risposte già pronte, confezionate da chi, quegli stimoli, li aveva creati appositamente per mostrarsi, in un secondo momento, risolutore di un problema da lui stesso creato. Non vi è traccia di  un dibattito spontaneo, tutto viene pilotato. Ed è proprio in questo eterno e vuoto dibattito, che entrano in scena i trionfanti professionisti della parola, pronti a manipolare le coscienze di chi è disposto a lasciarsi guidare, piuttosto che correre il rischio di perdersi in strade sconosciute ma con la meravigliosa possibilità di potersi ritrovare incredibilmente nuovo, cambiato, migliorato, arricchito. Certi viaggi spaventano, e spaventa ancor di più compierli da soli. Per questo ci si fonde l’un con l’altro, per questo si avverte il bisogno di sentirsi parte di un qualcosa che ci dia forza e che possa, perché no, nascondere in qualche modo la nostra vigliaccheria, la volontà celata di non assumersi le proprie responsabilità come cittadino del mondo. Uno dei punti cardine della psicologia sociale è, non a caso, l’appartenenza ad un gruppo sociale, che è la cosa più naturale che possa esistere. L’essere umano è un animale sociale, diceva Aristotele, e si troverà sempre a contatto con gli altri esseri umani, e con essi, formerà un determinato gruppo sociale. Il senso di appartenenza ad un gruppo, però, influisce notevolmente sull’individuo e ne modula il comportamento. L’uomo infatti, non conoscendo tutta la realtà che lo circonda, tenderà a categorizzarla, creare dei piccoli cassetti, spazi chiusi dove inserire ciò che vede, sente o vive. Questa categorizzazione, però, porta l’uomo ad un grave errore: vedere un individuo appartenente ad un altro gruppo sociale, non come individuo a sé stante, ma come parte di quel gruppo. Dunque non riesce a vederne le caratteristiche proprie, ma lo riconduce al gruppo di appartenenza, aggrappandosi con tutte le proprie forze ad un prototipo. L’uomo ha bisogno di fare tutto questo, ha bisogno di aggrapparsi a qualcosa che conosce (o crede di conoscere) per interpretare la realtà che lo circonda. L’effetto di tutto questo può essere però devastante. Più le cose sono lontane da noi, più siamo preda di stereotipi. Ma quello che possiamo pensare su ciò che è lontano da noi, nasce da ciò che leggiamo, vediamo, ascoltiamo. Da ciò che ci viene proposto, o imposto, dai mass-media. Questi ultimi però, spesso fortemente collusi con il potere, tendono a manipolare una notizia, spinti dalla volontà di orientare l’opinione pubblica.  Così facendo, l’individuo non viene privato della facoltà di pensiero. L’individuo viene privato degli strumenti che possono generare un pensiero libero. E come fanno i mass media a orientare l’opinione pubblica? Possono farlo attraverso l’agenda setting (stabilire quali argomenti trattare e come proporli) o tramite il framing (posizionare la notizia all’interno di una determinata cornice, selezionando gli elementi da presentare in modo tale da suggerire, più o meno velatamente, un’interpretazione dalla notizia stessa). Accendendo la tv, ascoltando la radio, navigando su internet siamo sommersi da notizie. Tutto viene fagocitato dalla nostra mente, che diventa a sua volta bulimica: pronta ad ingoiare tutto per poi rigettarlo. Ma qualche traccia di ciò che ci viene proposto resta. Anche senza accorgercene, un qualcosa si sedimenta nella nostra mente. E se questo “qualcosa”, lasciato in un angolo remoto del nostro io, viene quotidianamente alimentato, ci ritroveremo ad essere (anche senza volerlo) l’atomo perfetto in quell’organismo malato chiamato razzismo. Partiamo dalle basi. Partiamo dal linguaggio. Quel linguaggio quotidiano che ci porta a parlare di un “noi” e di un “loro”. Noi, occidentali, in un modo. Loro, orientali, in un altro. E ritorna prepotente quella categorizzazione di cui parlavamo prima. Fare di una parte il tutto. Non sappiamo (o non vogliamo sapere) chi sia quel kamikaze, o quel terrorista. Ma sappiamo, ad esempio, che professa la religione musulmana. Ce lo dicono i giornali, ce lo dicono ogni giorno. E dunque tutti i musulmani sono terroristi. Sappiamo che questi terroristi provengono da terre lontane. E dunque tutti coloro che provengono da terre lontane sono pericolosi. Loro sono terroristi, loro sono pericolosi. Noi siamo vittime, noi siamo indifesi. Rendiamoci conto che aggiungere un verbo ad sostantivo plurale, esso è già razzismo. La prima forma di razzismo è linguaggio. E’ innegabile, il processo di dissoluzione tra un “noi” e un “loro” è lungo, in salita. E non passa di certo attraverso l’assimilazione, che si basa sulla convinzione, più o meno esplicita, che lo straniero, in quanto ospite del nostro territorio, debba adeguarsi completamente alle nostre leggi, al nostro insieme di credenze e comportamenti condivisi. Dimentichiamo che gli stranieri sono individui portatori di una cultura interiorizzata che non può essere cancellata, né tantomeno sostituita con un’altra. Si intravede una malcelata convinzione che sia meglio per l’”altro” diventare come “noi”. L’abbattimento di questi confini potrebbe passare, invece, attraverso l’integrazione, processo all’interno del quale le differenze non vengono viste come qualcosa da superare ma come un elemento di arricchimento reciproco. Ma  resta comunque intatto il presupposto di una maggiore responsabilità dell’ospite in termini di accettazione della nostra cultura. Deve valere la regola di reciprocità. Non esiste un noi, né un loro. Esistono esseri umani, collocati dal destino in diverse parti in questo pianeta. Nessuno ha meriti o colpe al riguardo. Esistono però delle colpe, gravi colpe, riguardo a ciò che avviene all’interno delle “diverse parti di questo pianeta”. La crisi è provocata all’uomo. La fame, la povertà, ogni tipo di disuguaglianza trova nell’uomo il suo unico artefice. Ne è artefice un capo di Stato che decide di bombardare un paese. Ma ne è artefice, al contempo, il cittadino che non dissente, che non si ribella a tutto questo. I paesi occidentali hanno basato la propria crescita sull’invasione e sullo sfruttamento di altri territori, hanno mantenuto le popolazioni di quelle terre nella disperazione assoluta. Esistono però delle realtà che travalicano i confini tra gli Stati, costruendo ponti di aiuti umanitari. Realtà scomode, pedine incontrollabili nel gioco di potere, pedine che vanno abbattute (vedi il bombardamento da parte della NATO dell’ospedale di Medici senza Frontiere). Sorge quindi una domanda: quanto è labile il confine tra questa guerra infinita contro il terrorismo ed il rinnovo di una strategia colonialista? L’Occidente ha utilizzato per anni la guerra, affinché determinate zone della terra divenissero un mattatoio. Ma ci sono stati popoli che negli anni hanno avuto la forza di ribellarsi, facendo così perdere all’Occidente stesso una enorme flusso di ricchezze. Tutto questo ha portato una profonda crisi, che stiamo tutt’ora vivendo ed attraversando. Bisogna dunque trovare una giustificazione per intervenire e riappropriarsi di ciò che si è perduto. Mascherare una nuova fase coloniale con il termine “lotta al terrorismo”. Il terrorismo jihadista usato come cavallo di battaglia per tornare in queste terre e riprendersi tutto. Non dimentichiamo che abbiamo come alleati dei regimi atroci tanto quanto l’ISIS, che uccidono uomini, lapidano donne e torturano gli oppositori. E facciamo finta di non sapere che questi nostri alleati finanziano il terrorismo in tutto il Medio Oriente e anche in Africa. Ed ecco che l’analisi di Noam Chomsky, nel libro “Terrorismo occidentale“, è più attuale che mai. “L’Occidente si proclama campione della libertà e dichiara improbabili «guerre al terrorismo», ma è in verità il più grande artefice del terrore globale. Ciechi, o accecati dalla propaganda, i cittadini europei e nordamericani sembrano ignorare completamente l’azione dei loro governi e delle loro multinazionali. Eppure, è sotto gli occhi di tutti: dai tempi del colonialismo le potenze occidentali si adoperano costantemente per destabilizzare il resto del mondo, provocando genocidi, disastri ecologici, esodi di massa di intere popolazioni”.

E così ci ritroviamo a tirar fuori dal cassetto le assurde idee di Oriana Fallaci, ad ascoltare le teorie xenofobe di un Matteo Salvini, costantemente invitato, intervistato, e chiamato ad esprimersi su temi quali integrazione, immigrazione e lotta al terrorismo. Ci ritroviamo a leggere nomi arabi su tutti i passaporti ritrovati in diversi luoghi di strage (stranamente indistruttibili e resistenti alle esplosioni dei kamikaze). Ci ritroviamo a sperare che stragi come quelle di Parigi non accadano a noi, poco importa se accadono ad altri. Non a me, non ora, non qui. Ci ritroviamo con la paura di vivere in luoghi in cui il tempo non è lineare, non è una linea retta, non si muove sempre in avanti, da una cosa alla successiva. Un tempo che si muove in circolo, come il tempo delle lancette dell’orologio, le quali non procedono in avanti, ma ruotano intorno ad un quadrante, un giorno dopo l’altro, lungo lo stesso percorso. In luoghi in cui è sempre guerra. In cui non c’è alcuna differenza tra il giorno precedente ed il giorno successivo. Non si procede in avanti, ma circolarmente. Tutto come ieri, tutto come domani. Perché ogni istante è guerra. E perché è proibito guardare il cielo. Quel cielo invisibile che copre la Siria e la Palestina, Aleppo ed Hebron. Quel cielo non visto da Aylan, che avrà  tre anni per sempre. Quel cielo buio che copre il Mediterraneo in una notte d'agosto. Quel cielo che guarda un barcone affondare e gli avvoltoi pronti a cibarsi di ciò che resta della dignità umana. Quel cielo lì, dove è sempre il 13 novembre.

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