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franciosi-gianfranco2di Sara Donatelli - 16 agosto 2015
Dal profondo della notte che mi avvolge,

buia come un pozzo che va da un polo all'altro,

ringrazio qualunque dio esista

per l'indomabile anima mia.

Nella feroce stretta delle circostanze

non mi sono tirato indietro né ho gridato.

Sotto i colpi d’ascia della sorte

il mio capo è sanguinante, ma indomito.

Oltre questo luogo di collera e di lacrime

incombe solo l'Orrore delle ombre,

Eppure la minaccia degli anni

mi trova,e mi troverà, senza paura.

Non importa quanto stretto sia il passaggio,

quanto piena di castighi la vita,

Io sono il padrone del mio destino

Io sono il capitano della mia anima.

Invictus, William Ernest Henley.

22 gennaio 2005. Roma, quartiere San Giovanni. Un uomo viene ucciso davanti ad un bar. Si tratta di Giuseppe Valentini, detto “Tortellino”.

Pochi anni prima, nel 2002, “Tortellino” è in Liguria. La sua vita si intreccia con quella di un semplice cittadino, un semplice lavoratore, un semplice marito e padre di famiglia. Il suo nome è Gianfranco Franciosi, meccanico nautico. E’ proprio nel 2002 che Valentini si reca da Gianfranco per commissionargli un lavoro: costruire gommoni. Nulla di strano. Viene pagato per questo, vengono rilasciate le fatture. Nulla di strano, dicevamo. Se non fosse che, proprio il 22 gennaio 2005, “Tortellino” viene ucciso. Se non fosse che l’uomo è considerato da varie procure il “collettore” tra la mafia romana e i siciliani. Un boss di quelli veri, insomma.  Gianfranco entra nel panico. Ma poi, riflettendoci, non ha nulla di cui temere. Lui ha semplicemente svolto il suo lavoro. Tutto in regola. Nulla di strano. La sua vita prosegue. E prosegue tranquillamente fino al 15 febbraio 2007. Due ragazzi si recano da lui, dicendogli: “ci manda Tortellino”. Secondi lunghi come vite. Tortellino è stato ucciso. Tortellino è il “collettore” tra la mafia romana e i siciliani”. Tortellino è un boss. E loro cosa vogliono?  Chi sono? “Ci serve un lavoro come quelli che ti commissionava Tortellino. Stessa grandezza, stessi motori. Intanto faccene uno, così per cominciare. Ti bastano questi?”. Fascette di banconote da 500 euro vengono poggiate sulla scrivania di Gianfranco. “ Questi sono 50.000 euro, ti bastano come anticipo?”. Gianfranco non capisce. O forse capisce tutto. Si prende ventiquattro ore per pensarci. Tre ore più tardi parlerà con gli agenti dallo SCO. “Vai”, gli dicono, “noi ti seguiremo passo dopo passo”. Cambia così, per sempre, la vita di Gianfranco Franciosi.

Chi sono i due uomini che piombano nella vita di Gianfranco? Uno, napoletano, fa parte del clan dei Di Lauro. L’altro ha un accento spagnolo. Si tratta di Elias Pineiro Fernandèz, boss del narcotraffico internazionale.

Gianfranco collabora con la polizia. Sul nuovo gommone installa una sistema GPS in modo tale che proprio la polizia possa seguirlo sempre e ovunque. Non ha paura Gianfranco. Sa di avere le spalle coperte. I narcotrafficanti, però, riconoscendo in Gianfranco non solo un bravo meccanico nautico, ma anche un ottimo pilota, gli commissionano un altro lavoro: guidare il gommone fino in Spagna. Non sarà solo durante il tragitto. Con lui ci sarà un uomo di fiducia di Elias Pineiro Fernandèz. Gianfranco accetta. Non ha paura. Sa di avere le spalle coperte. E così accetta. Ha inizio la traversata. Giunti a Marsiglia, però, Gianfranco si rende conto che il piattello satellitare “è penzolante”: il gommone non è localizzabile. Gianfranco, adesso, ha paura.  Non ha più le spalle coperte. Crea dunque un guasto al motore, che va così in avaria. Dopo più di dodici ore alla deriva, lui e l’uomo che lo sta accompagnando vengono intercettati dalla polizia francese. Arrestati e processati per direttissima. Gianfranco prova in tutti i modi a spiegare che sta collaborando con la polizia italiana, ma invano. Quest’ultima, infatti, non ha mai informato le autorità francesi dell’operazione in corso. Gianfranco viene condannato a undici mesi di reclusione. Resterà in cella per 7 mesi e 22 giorni. Gianfranco sta  zitto e, così facendo, si conquista il rispetto del boss che gli commissiona un altro lavoro, questa volta molto più grande. Stiamo parlando di un’operazione che tutte le polizie d’Europa sognano di portare a termine da anni: caricare una nave di chili e chili di cocaina che, partendo dal Sudamerica, dovrà arrivare fino alle coste spagnole. I narcotrafficanti offrono a Gianfranco 4 milioni di euro. L’uomo va dalla polizia. La polizia lo nomina “agente interposto”.

Da questo momento, Gianfranco Franciosi diventa ufficialmente un infiltrato.

Un semplice meccanico nautico ligure si trova, improvvisamente, al centro di una colossale operazione di narcotraffico internazionale. E’ l’unico caso di un civile usato come infiltrato in Europa.

Parte con dieci tonnellate di cocaina, dal Sudamerica, la “nave madre”. Gianfranco, con il gommone, deve portare cinque tonnellate di cocaina dall’Isola di Madera in  Italia. Scatta così l’operazione “Albatros”. La prima “nave madre” nella storia del narcotraffico viene fermata. Il primo grande sequestro di cocaina della storia d’Europa viene messo in atto. I narcotrafficanti vengono arrestati. Elias Pineiro Fernandèz, però, resta libero. Per proteggere Gianfranco, la polizia fa uscire la notizia che lui è riuscito a scappare e, confermando così la fiducia in lui riposta da Elias Pineiro, gli viene commissionato l’ennesimo lavoro. Questa volta lo smercio si svolge al largo delle coste italiane. Scatta l’operazione “Freeway”. In Spagna, contemporaneamente, vengono sequestrati 180 chili di cocaina. Elias Pineiro Fernandèz viene arrestato e condannato a 19 anni di reclusione.

Inizia, adesso, il vero calvario di Gianfranco Franciosi.

Gianfranco vive quattro anni da infiltrato. Lo Stato, a questo punto, dovrebbe liquidargli una cifra che servirà a lui e alla sua famiglia per rifarsi una vita. Gianfranco però potrà avere questi soldi solamente dopo aver vissuto due anni all’interno di un programma di protezione. L’uomo accetta. Ma dopo un anno e sette mesi lui e la sua famiglia decidono di uscirne in quanto esasperati dal trattamento ricevuto. Un trattamento fatto di non curanza, di sottovalutazione del pericolo che lui e la sua famiglia stanno correndo, un trattamento che ignora totalmente la condanna a morte che pende sulla sua testa come una spada di Damocle. Chiede 437 mila euro per riprendere la sua attività, una somma ridicola se raffrontata a quelle elargite a molti pentiti. Gliene vengono dati solo 63 mila, perché ha scelto lui, volontariamente, di uscire dal programma. Lo Stato avrebbe dovuto garantire il suo lavoro, ma al ritorno al cantiere di Bocca di Magra trova tutto sommerso dal fango. Barche, gommoni, attrezzi. Tutto.  La legge stabilisce che debba essere garantita la sua incolumità fino alla cessazione di ogni pericolo e per questo nel suo cantiere vengono installate delle telecamere. Ma un giorno Gianfranco trova  due proiettili sul cancello. Impossibile sapere chi li ha messi lì: le telecamere non sono mai state attivate. L’uomo fa installare un impianto di videosorveglianza. A sue spese. Si compra un’auto blindata. A sue spese.

Proteggere uno Stato che non ti protegge. E’ questa l’amara verità sulla vita di Gianfranco Franciosi. Una vita racchiusa in un libro, “ “Gli orologi del diavolo”, scritto con il giornalista di Presa Diretta Federico Ruffo. «Attualmente in Italia esistono 88 testimoni di giustizia, sparsi in tutto il Paese. Di questi soltanto 32 sono ancora sottoposti al programma speciale di protezione, gli altri 56 hanno rinunciato di loro volontà o hanno visto ritirato il loro programma» afferma Ruffo.

Gianfranco ha portato in tribunale il Ministero dell’Interno chiedendo i danni. C’è un solo precedente. Quello di Lea Garofalo.

Uno Stato che chiede ma non da. Che promette ma non mantiene. Che pretende ma non ringrazia. Uno Stato che utilizza i testimoni di giustizia e poi li abbandona a loro stessi. Tante, troppe le storie come quelle di Gianfranco. O forse no, dato che come detto prima, il suo è l’unico caso in Europa di un civile utilizzato come infiltrato. L’unico caso.

Gianfranco ha molti tatuaggi. Uno in particolare raffigura i numeri 610 e occupa tutta la parte destra del collo. “Me l’hanno fatto loro. E’ un segno di riconoscimento per aver partecipato a un’operazione. La mia vita è legata a loro per sempre”.

Su facebook è stato aperto un “evento”, in cui trovare il testo della lettera da inviare al prefetto di La Spezia e per conoscenza alla responsabile della protezione dei testimoni di giustizia. L’obiettivo è quello di sollecitare le autorità ad un’azione concreta e veloce per risolvere la paradossale situazione di Gianfranco Franciosi. Il primo passo da fare, per noi società civile, è condividere, invitare quanta più gente possibile a farlo, ed inviare la mail.

Tratto da: saradonatelli0920.wix.com

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