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02Letizia Battaglia: “Quel 1992 che mi rubò la voglia di fotografare”
di Letizia Battaglia - 5 dicembre 2014
Quel 23 maggio del 1992, era un bel pomeriggio di primavera, Giovanni Falcone stava tornando da Roma con la moglie Francesca e gli agenti di scorta Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo, mentre io tenevo, tra le mie, la bianca e morbida mano di mia madre; guardavamo un documentario in Tv.
Ingenere, andavo a trovarla la domenica pomeriggio, ma quella volta avevo cambiato giorno. A un certo punto, il programma s’interruppe per comunicare che era successo qualcosa a Falcone, in autostrada. Rimanemmo immobili per qualche secondo, mi prese il panico, non capii veramente più niente. L’unica cosa che seppi fare fu telefonare in studio e avvertire Franco e Shobha. Io no, io non sarei andata in autostrada, mai più sarei andata a fotografare i morti e tutto il resto.

Diedi un bacio a mia madre, era inquieta, le sussurrai di non preoccuparsi. Chiamai un taxi e mi feci portare all’ospedale. In Tv avevano detto che, forse, sia lui che la moglie erano rimasti feriti. Salvo un agente di scorta, morti gli altri. Rimasi tre ore davanti al pronto soccorso ad aspettare l’ambulanza, le gambe tremanti, inchiodate per terra, la solita nausea, lo sguardo fisso verso il fondo del viale. Ma non fotografai vivi né Falcone né la moglie Francesca, né li vidi per l’ultima volta. Chissà da dove li fecero entrare. Rimasi con la mia inutile macchina fotografica al collo sino a buio inoltrato. Forse escogitai questa attesa per non vedere né sentire, per evitarmi ulteriori dolori. Così delle stragi non ho una foto. Una sola, anche brutta, non ce l’ho. Né della strage di Falcone né di quella di Paolo Borsellino.
Mi mette a disagio, da fotografa, dover ammettere che anche davanti all’orrore di via D’Amelio, io non sollevai la mia camera e non feci un fottuto click. La mia testa, il mio corpo non volevano più documentare un bel niente. Ripenso a quei lunghi diciotto anni in cui fotografai tutto il fotografabile di Palermo, per il quotidiano “L’Ora”. Tutto, pure le partite di calcio. Ma soprattutto la miseria, i morti ammazzati, gli arrestati, le bombe, i processi, la spazzatura, i feriti, i fascisti, le bambine, le donne, le manifestazioni, gli umiliati. Fotografavo, incamerando tutto il dolore civile possibile, tutta la rabbia accumulata in testa, nel cuore e non so dove ancora. Fino a quel pomeriggio, quando, mentre tenevo la bianca e morbida mano di mia madre fra le mie, qualcosa mi morì dentro e decisi che non avrei più fotografato né morti ammazzati né dolore né tantomeno mafiosi.
Oggi, dopo vent’anni, non posso che deplorare la debolezza, l’ignavia, che bloccò il mio coraggio. Sì, certo, altri fotografi hanno documentato quello che io non ho documentato, ma questo non mi rende più tranquilla. Era mio preciso dovere di fotografa resistere, fotografare e consegnare a futura memoria. Le foto che non ho fatto oggi mi fanno male, molto più male delle altre. Perché sono tutte qua, dentro la mia testa, e non le posso dividere con nessuno.


Ho sognato spesso di bruciare i miei negativi di cronaca nera degli anni Settanta, Ottanta e Novanta. Per disgusto, forse per disperazione. Per annullare dalla mia vista lo schifo che aveva vissuto Palermo, che vive ancora la mia Palermo. Foto di morti ammazzati, di miseria, di boss, di povertà. Un giorno, nel 2004, stavo guardando con rabbia e tristezza una grande foto di una madre e tre figli poveri, coricati perennemente a letto per ripararsi dal freddo e per la fame, così mi venne un guizzo. Io queste foto, quelle che girano per il mondo, potevo distruggerle. Potevo farle diventare altro. Una vita, un corpo nudo, un sorriso, posti dinanzi alla foto di cronaca avrebbero spostato il punctum.
Le morti per mano di mafia mi hanno segnato molto. Non so come resistessero i poliziotti, vedevano le stesse cose, sentivano gli stessi odori, le stesse urla, la stessa disperazione. Io non posso dimenticare, devo occuparmi di queste fotografie, ho il dovere di portarle in giro, perché la gente nel mondo deve sapere.
Il giudice Terranova esanime, lì dentro l’auto, un filo di sangue parte dalla testa e arriva alla camicia bianca, la mano appoggiata sul sedile accanto. E quell’altro uomo disteso a pancia in giù, nella notte profonda e buia, impossibile fotografare fino a quando la polizia non accese i fari della Giulietta e illuminò la scena per permettere al medico legale di ispezionare il corpo. Era estate, l’uomo indossava una maglietta leggera che gli venne sollevata lasciandolo a schiena nuda. Ricordo ancora l’emozione forte che sconvolse un po’ tutti. Un grande volto di Cristo era tatuato su quella schiena. Mi sembrò che ci fossero due cristi distesi per terra, nella notte. Nel silenzio buio le cicale frinivano e quell’uomo non si muoveva più, era lì, freddato. Solo. Con la macchina fotografica nella mano insicura sentivo l’impotenza del mio essere presente. Facevo le foto che mi chiedevano e cercavo di realizzarle con tutto il rispetto possibile, ma purtroppo la violenza era una realtà quotidiana così assillante da far dimenticare ogni altro significato di bellezza della vita. Ora queste foto entrano nei musei e questo mi sembra strano, surreale.
Le bambine, il sogno delle bambine mi emoziona, le cerco, le rincorro, le fotografo. Troppe foto di bambine nel mio archivio. Ho cercato in loro il mio sogno, quello di trovare amore, futuro fantastico, avventure, pace, libertà e bellezza. In loro ritrovo me stessa bambina. Viso pallido, occhiaie profonde, sguardo grave e soave. Io a dieci, undici anni… Solidale con il mondo dei deboli, portavo da mangiare alle vecchiette, alla vicina che era povera, rubacchiavo a casa per portare cibo a chi non aveva niente, ho incominciato a Trieste, avevo nove anni… Credo che il sogno importante e definitivo sia la ricerca della libertà, di poter scegliere, di poter essere rispettata, riconosciuta, libera di essere determinante nella vita, di essere parte di una società non ingiusta.

LA RECENSIONE DEL LIBRO: Diario

Tratto da: La Repubblica - Palermo del 5 dicembre 2014

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