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buscetta-tommasodi Domenico Ferlita - 26 dicembre 2013
È morto a New York il 2 aprile del 2000 ed ha lasciato dietro di se tanti ricordi, talvolta molto dolorosi: fatti di sangue, tradimenti e morti. Questo è quanto ricorda la gente di lui. Si tratta del boss mafioso, Tommaso Buscetta o Don Masino come lo chiamavano “i picciotti”, legato a Cosa Nostra e specializzato nel traffico internazionale di stupefacenti. Era definito il boss dei due mondi, perché nel gestire il traffico di droga, si spostò fino in Brasile, ove si nascose nei lontani anni ’80 per sfuggire alla ferocia dei “corleonesi” durante la seconda guerra di mafia.
“Non sono un infame. Non sono un pentito. Sono stato mafioso e mi sono macchiato di delitti per i quali sono pronto a pagare il mio debito con la giustizia”. Queste, le parole che Buscetta pronunciò durante il primo interrogatorio del giudice Falcone. Frase che il magistrato stesso interpretò come segno di paura da parte del boss. Non paura di morire assassinato dai suoi nemici, ma paura di perdere l’onore.

Gli avevano sterminato l’intera famiglia, prima uccisa e poi sciolta nell’acido, eppure il suo timore era perdere l’onore che aveva iniziato a conquistare già negli anni ’50, quando si alleò con Angelo La Barbera, Salvatore Greco detto “Cicchiteddu” e Gaetano Badalamenti di Cinisi, occupandosi assieme agli altri capimafia di contrabbando di sigarette e stupefacenti.
La sua carriera criminale durò circa 30 anni, conclusa con il suo arresto e la conseguente estradizione dal Brasile nel 1983, ove era andato a consumare la sua latitanza.
Ha subìto lo sterminio di tutta la sua famiglia. È questo il motivo che lo spinge a collaborare con la giustizia, anzi con il giudice Falcone, perché è solo lui l’uomo con cui vuole parlare Don Masino. Le rivelazioni del boss, sono state un duro colpo per Cosa Nostra. Egli, infatti, aveva spiegato al giudice l’intera struttura della cupola, portando alla sbarra circa 475 imputati e dando così il via al maxiprocesso di Palermo, tenutosi presso l’aula bunker del tribunale costruita appositamente.
"Ero entrato e rimango con lo spirito di quando io ero entrato. Ma dagli anni '70 in poi questa associazione, cosiddetta Cosa Nostra, ha sovvertito l'ideale, poco pulito per la gente che vive dentro alla legge, ma tanto bello per noi che vivevamo in questa associazione, cominciando con delle cose che non erano più consoni all'ideale della Cosa Nostra; con delle violenze che non appartenevano più a quegli ideali. Io non condivido più quella struttura a cui io appartenevo. Quindi non sono un pentito". È ciò che Buscetta ha ripetuto più volte al giudice Falcone durante il famigerato interrogatorio.
Egli descrisse Cosa Nostra come una struttura piramidale, mettendo alla luce i grandi segreti delle famiglie che ne facevano parte. Secondo quanto raccontato, i membri dell’organizzazione non parlano mai di mafia ma di Cosa Nostra la quale, viene disciplinata da un duro regolamento che deve essere categoricamente rispettato. Il centro del potere di Cosa Nostra, è Palermo anche se è dotata di una suddivisione territoriale assai vasta. Cosa Nostra, è governata da una Commissione. È lei, infatti che gestisce e governa gli affari delle famiglie. È altrettanto importante per la Commissione assicurarsi che le regole siano rispettate e risolvere le controversie tra le famiglie. Ogni famiglia, è formata da una base costituita dai soldati che a sua volta sono organizzati in decine.
Le decine sono comandate dai capidicina che, come afferma Buscetta sono le colonne che reggono la cupola. Questo è quanto emerso dalle dichiarazioni del pentito che in seguito furono confermate dai riscontri.  
Il boss dei due mondi, non osò parlare di politica, perché era sin da subito consapevole che alte cariche dello Stato sarebbero andate a finire nel mirino della giustizia. Soltanto dopo, Buscetta inizia a svelare i più grandi segreti dell’accordo Stato-mafia, mettendo sulla buona strada il procuratore Giancarlo Caselli che nel frattempo stava istruendo assieme agli altri giudici il famoso maxiprocesso. “Giulio Andreotti è mafia perdente. Quella capeggiata da Stefano Bontade, il boss di Villagrazia dai corleonesi nell’81”. Queste, le famose rivelazioni di Don Masino che, assieme a Marino Mannoia, ha deciso di attaccare frontalmente la politica, mettendo in risalto i suoi rapporti con la mafia. Arriva il 10 febbraio 1986, giorno di apertura del maxiprocesso: le accuse contro i più grandi capi di Cosa Nostra, venivano rappresentate dai giudici Giuseppe Ayala e Domenico Segnorino, il presidente della Corte era Alfonso Giordano, mentre come giudice a latere vi era Pietro Grasso, ora Presidente del Senato. C’erano veramente tutti. Da Luciano Liggio, a Pippo Calò, a Michele Greco, Leoluca Bagarella e Salvatore Montalto. Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, invece, venivano processati in contumacia visto che erano ancora latitanti.
Per l’occasione, erano state costruite lunghe celle per ospitare circa 1000 persone imputate dei più grandi reati di mafia. Estorsioni, traffico di stupefacenti, associazione mafiosa, rapine, omicidi, ricatti. Sono questi i reati contestati nel maxiprocesso che riempivano più di 8000 pagine raccolte in 40 volumi.
Dopo essere stato chiamato a testimoniare dalla Corte, Buscetta entrò in aula accolto da un gran silenzio che mai nessuno si sarebbe aspettato. Il suo primo colloquio durò circa una settimana, dove descrisse tutte le famiglie mafiose, la struttura della cupola, gli omicidi, la seconda guerra di mafia e i rapporti tra mafia-politica.
Soltanto dopo, Buscetta ebbe l’occasione di confrontarsi con Pippo Calò, considerato il cassiere di Cosa Nostra che aveva tradito le famiglie palermitane alleandosi con i corleonesi. Da lì nasce l’ostilità di Buscetta contro il boss di Porta Nuova, per essersi seduto assieme alla Commissione e aver deciso con gli altri capi mandamento, la morte dei suoi familiari.
Dopo Calò, la Corte decise di ascoltare Luciano Liggio, capo dei corleonesi che, con la sua deposizione confermò indirettamente le dichiarazioni di Buscetta.
La scena più toccante del maxiprocesso, è stato “l’augurio” del boss Michele Greco, detto “u papa” descritto da Don Masino come il capo della cupola. “Io desidero farvi un augurio. Io vi auguro la pace signor Presidente, perché la pace è la tranquillità e la serenità dello spirito e della coscienza che per il compito che vi aspetta, la serenità è la base fondamentale per giudicare. Non sono parole mie, ma di nostro Signore che lo raccomandò a Mosè… che questa pace vi accompagni per tutta la vostra vita oltre questa occasione”- afferma Don Michele Greco. Molti magistrati presenti, lo interpretarono come una minaccia ma ancora nessuna certezza su cosa volesse veramente significare quella frase.
Il 16 dicembre 1987, dopo 22 lunghi mesi, si concluse il maxiprocesso con 346 persone condannate tra i quali, 19 ergastolani per un totale di 2665 anni di carcere, mentre altri 114 imputati furono prosciolti.
Nel 1989 si aprì il processo d’appello che portò alla riduzione delle pene causando non poche polemiche. Solo la sentenza emessa il 30 gennaio 1992, confermò tutte le condanne inflitte in primo grado annullando alcune delle precedenti assoluzioni. Fu un duro colpo per Cosa Nostra che, rivendicò l’azione dello Stato con l’omicidio del deputato Salvo Lima, il quale era stato ritenuto colpevole di non essere stato in grado di impedire le pesanti condanne del maxiprocesso.
Fu in quel periodo che per diversi anni non si sentì più parlare di Buscetta fino a quando nel 1995 il noto boss fu sorpreso dal settimanale Oggi a bordo di una crociera con moglie e figlio sotto falso nome. Come riportava il settimanale “Oggi”, Buscetta, aveva deciso di fare quel viaggio sulla nave da crociera “Monterey”, per amore della famiglia. Egli stesso, infatti, affermava: “ Una fuga d’amore, sì, proprio così… Mi rendo conto che difficile crederci, ma mi deve capire.
Avevo promesso questa crociera a mia moglie Cristina… I magistrati non sanno nulla”. Le sue dichiarazioni al settimanale, accesero numerose polemiche fino alla sua morte, avvenuta nel 2000.

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