Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

di Ga.Si.
Quaranta anni dopo, ricordare la strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980 ha senso solo se sappiamo dare a questo assassinio di nostri innocenti concittadini un significato per l’Italia: ma dargli un significato è possibile solo se arriviamo a comprendere perché esso è avvenuto.

Verità e memoria

Il mero esercizio della memoria, di cui ci si riempie la bocca in ogni occasione, non basta e non serve, se è disgiunto dalla verità: parliamo per prima cosa di una verità storica, poiché quella giudiziaria non potrà mai più essere sufficiente, dato il tempo trascorso. Il fatto che non si sia arrivati per tempo ad una completa verità giudiziaria fa parte di questa verità storica, che anche per questo è l’obiettivo primario da raggiungere.

Altrimenti l’esercizio della memoria diventa sterile rituale, del quale col tempo non sarà più possibile far comprendere il valore a chi non ha vissuto le ore di quei giorni, e le menzogne raccontate in tutti questi anni.

Senza verità la memoria diventa ipocrisia, soprattutto quando a celebrare questa memoria sono gli uomini di una classe dirigente interrottamente al potere da ben prima di allora fino ad oggi, al di là dei cambiamenti di nomi e di sigle di partito: la stessa classe dirigente che non ha mai aperto i cassetti in cui si sarebbero potuto trovare almeno spezzoni di quella verità.

Quanto hanno detto in proposito i familiari delle vittime nelle ultime ore è assai istruttivo: le grandi promesse del premier Renzi di aprire gli archivi nel 2014 si sono dimostrate l’ennesimo bluff, poiché i documenti venuti fuori si sono oramai dimostrati ben poco utili.

In realtà se lavoriamo seriamente, alla maniera di un Vincenzo Vinciguerra, di un Guido Salvini, di un Aldo Giannuli, su quanto sappiamo, ricostruire una verità storica è possibile: a condizione che non ci siano partiti da difendere, scheletri negli armadi da nascondere, comodi slogan da riaffermare.

Il primo inganno purtroppo è scritto nella lapide eretta a Bologna, dove si parla di “strage fascista”. Cioè si adopra, come etichetta che copre tutto, l’utile fantasma di una storia tragicamente conclusasi nell’aprile del ’45. Poiché oramai gli studi più seri sulla strategia della tensione confermano, con dovizia di documenti e di accurate ricostruzioni, che l’estremismo di destra italiano non è nato per ridestare né il fascismo regime né il fascismo repubblichino.

Si è trattato, fatta salva doverosamente la buona fede di quei tanti giovani che vi hanno lealmente militato, di uno strumento utilizzato dal mondo atlantico con due obiettivi primari: primo, fermare la diffusione del comunismo in occidente; secondo, impedire che si affermassero tendenza neutraliste nei Paesi inseriti in uno dei blocchi.

Questo è il senso storico di quanto per primo Vincenzo Vinciguerra nel 1989 illustrò con dovizia di riferimenti, accresciutisi e mai smentiti nel tempo, in Ergastolo per la libertà, il concetto del “destabilizzare per stabilizzare”: che potremmo anche tradurre, con un’espressione ben nota ai circoli che contano del potere internazionale mondiale, ex Chaos Ordo, dal caos l’ordine.

Federico Umberto D’Amato, servitore atlantico

Continuare a parlare di “stragi fasciste” è dunque il primo attacco alla verità.

Il coraggio di cambiare questo aggettivo spetta oggi ai familiari delle vittime, soprattutto ora che emerge dalle carte processuali un nome che è sufficiente a confermare nella maniera più flagrante possibile l’esattezza dell’interpretazione “dal caos l’ordine” della strategia stragista: quello di Federico Umberto D’Amato.

Ci soffermeremo quindi un poco su questo personaggio. Questo super-poliziotto nasce il 4 giugno 1919 a Marsiglia, da genitori socialisti.

Entrato in polizia, l’8 settembre ‘43 è vice-questore aggiunto a Roma: “riuscii a penetrare la più vasta rete di spionaggio militare dei tedeschi in Italia in modo che già nelle prime ore del 4 giugno [1944, data di entrata degli Alleati a Roma] e nei giorni successivi fui in grado di arrestare decine di spie dei tedeschi” – racconta lui stesso.

Nell’aprile 1944, aveva infatti reclutato Luigi Danese, un italiano entrato a far parte di un’organizzazione spionistica tedesca in Italia, il quale diventerà un suo fedele collaboratore anche nel dopoguerra.

Luglio 1944, D’Amato dirige in Campania e in Puglia una nuova operazione di controspionaggio, che porta all’arresto di Arturo Cembi, che a Napoli operava a favore della Rsi: il maresciallo Cembi decide di collaborare, e rilascia così a D’Amato un elenco di trecento nomi di collaboratori dell’Abwehr, ciò che permette a D’Amato di eliminare la rete filo-tedesca nel Sud Italia.

D’Amato, forte di questo eccellente risultato spionistico, entra in contatto con Jesus James Angleton, figura di spicco dell’OSS in Italia, probabilmente nel novembre 1944:

«Jesus James Angleton [su ordine dell’ammiraglio Usa Stone, responsabile militare dell’Italia occupata], incaricò un nucleo dei suoi fidati agenti (italiani e statunitensi) di recarsi segretamente nei territori di Salò per prendere contatto con Guido Leto, ormai divenuto il maggiore dirigente Ovra nella Rsi. (…) Tra gli uomini che vennero scelti da Angleton per questa missione si trovava [oltre al capitano di vascello Carlo Resio, dei servizi segreti della Marina italiana del Sud] anche il giovane commissario di nome Federico Umberto D’Amato, fin da allora in strettissimo contatto con i servizi americani. (…) Leto, dopo il 25 luglio 1943, avvicinò segretamente alcuni ufficiali statunitensi (tra cui il colonnello Bay e il capitano Baker), facendo loro sapere di essere disposto a fornire all’Oss l’intero archivio dell’Ovra, composto da oltre seimila documenti che teneva gelosamente custoditi in quel di Valdagno (sede del Dipartimento di pubblica sicurezza della Repubblica di Salò), nonché a Venezia e Vobarno. Il 26 aprile 1945, poi, si pose ufficialmente a disposizione del Cln con il quale, leggiamo, collaborava clandestinamente da alcuni mesi» (G. Pacini, Il cuore occulto del potere, Nutrimenti, Roma, 2010, p. 31.)

Non si tratta solo del già goloso boccone dei seimila documenti, mai resi pubblici dalla Repubblica democratica e anti-fascista: si tratta del ben più articolato e complesso Plan Ivy, un’operazione politico-spionistica di fondamentale importanza per comprendere quello che sarebbe poi accaduto in Italia nell’immediato dopoguerra.

È l’attiva partecipazione ad essa che giustifica e fonda la brillante carriera di Federico Umberto D’Amato, la base del suo potere, in quanto D’Amato, come attestano alcuni documenti d’archivio americani, coinvolge nell’operazione, grazie ai suoi contatti, numerosi dirigenti della polizia che stanno al Nord, pur non essendo affatto di sentimenti repubblichini.

I meriti così acquisiti lo collocano in una posizione chiave proprio nel pieno della riorganizzazione dei servizi segreti italiani, che si verifica in totale dipendenza dai desiderata alleati:

«In un messaggio segreto inviato il 10 febbraio 1949 dall’ambasciatore americano in Italia al Dipartimento di Stato Usa, si legge che «l’Italia sta istituendo un’organizzazione di polizia segreta anticomunista sotto il ministro dell’Interno con elementi dell’ex polizia segreta fascista». Uno dei primi agenti di questa organizzazione sarà Costantino Digilio» (G. Ferraro, Enciclopedia dello spionaggio, voce James Jesus Angleton, p. 37). Capiamo meglio ora quanto fossero fascisti questi funzionari di polizia, messisi a disposizione per il doppio gioco richiesto dal Plan Ivy.

Nel 1952 un altro passo importante: D’Amato è collocato alla guida dell’Ufficio Politico della Questura di Roma, dunque della capitale d’Italia, nel cuore del potere democratico e antifascista.

Nel 1957, a seguito di un contrasto con Tambroni, si noti, di cui sono ad oggi ignote le ragioni, viene trasferito a Firenze, alla squadra buon costume. Un capitolo da approfondire, ma che denota una caratteristica fondamentale di D’Amato: sapere scegliere il cavallo vincente. Tambroni non lo era, come si vide ben presto.

Non a caso, nel novembre 1960, si noti, dopo i fatti di Genova, che segnano la fine politica di Tambroni, il balzo decisivo: passa all’Ufficio Affari Riservati del Viminale. Qui, dopo che il 22 febbraio 1962 Paolo Emilio Taviani è diventato Ministro degli Interni, è sempre D’Amato che, nel settembre 1962, gestisce una delicatissima missione segreta in relazione al fermo dell’ex premier francese Georges Bidault, uno dei capi dell’OAS, fermato in Italia e poi fatto uscire in Svizzera, ovviamente senza informare la magistratura italiana.

Chi conosce il quadro internazionale di quel momento, i delicati rapporti con la Francia impegnata nella guerra d’Algeria e poi nella lotta contro il terrorismo dell’OAS, e il rilievo che quest’ultima ha avuto nell’influenzare l’estrema destra italiana, capirà bene che anche in questa occasione è D’Amato il master mind, non certo la vittima di una strumentalizzazione!

Dicembre 1963, governo di centro-sinistra, primo ministro Aldo Moro: D’Amato diventa capo della sesta sezione dell’Ufficio Affari Riservati, con il compito di coordinamento delle squadre periferiche e con il centro intercettazioni di Monterotondo, all’avanguardia per quei tempi. Stiamo parlando del controllo di tutte le comunicazioni che interessavano al Ministro degli Interni. Siamo nel pieno della formazione del nuovo centro-sinistra, passaggio delicatissimo per la conservazione del sistema, per “cambiare tutto in modo che non cambi nulla”.

1965, su indicazione di Taviani, pilastro dell’antifascismo democristiano e atlantico, D’Amato diviene il rappresentante italiano, unico civile, nel cosiddetto Ufficio sicurezza interna del Patto Atlantico (Uspa), abilitato alla concessione dei Nulla Osta Sicurezza (Nos) in Italia. In seguito, in data da individuare, divenne anche capo della delegazione italiana presso il Comitato di Sicurezza della Nato. Ecco D’Amato diventare niente meno che il fiduciario della Nato per la sicurezza in Italia.

Dato il livello di questo incarico, dato il passato bellico di D’Amato, dato il suo ruolo nell’Uar, dobbiamo considerarlo se non l’effettivo numero uno, almeno il numero due di questo servizio, ma solo perché nel settembre 1968, Elvio Catenacci, ex questore di Venezia, diventa direttore dello Uar, con D’Amato suo vice.

Fine anni Sessanta: D’Amato è il promotore, promotore si noti, della creazione del cosiddetto Club di Berna, organismo di coordinamento di tutte le polizie europee. È lui che parla quindi di intelligence non solo con la Nato ma anche con i servizi segreti civili di tutta l’Europa occidentale, e con quelli nordamericani.

Meriterebbe capire come, con quali motivazioni, intese, supporti politici, D’Amato riesca brillantemente in questa fondamentale operazione, che è politica prima che poliziesca, e coinvolge un Paese di cui si parla poco, ma che è fondamentale per capire le dinamiche della sicurezza in Europa, la Svizzera, cuore pulsante del capitalismo finanziario internazionale, centro spionistico fondamentale durante le due guerre mondiali.

Da recenti acquisizioni di una brillante studiosa elvetica (Aviva Guttmann), sappiamo che il Club di Berna, operando dietro determinante impulso tecnico e politico dei servizi segreti dello Stato di Israele, ha di fatto dettato la linea, tuttora vigente, dell’anti-terrorismo europeo. D’Amato era lì, nei furenti anni Settanta, e oltre.

Febbraio 1969. D’Amato stila un appunto, interamente dedicato alla questione dei movimenti della sinistra extra-parlamentare in Europa, a margine di un incontro del Club di Berna nel quale i rappresentanti tedeschi hanno avanzato il sospetto che la loro origine sia in operazioni dei servizi segreti nordamericani (Pacini, cit., p. 86).

Questa è una prova regina, che conferma il ruolo di D’Amato nella ben nota operazione “manifesti cinesi”, la cui importanza è stata per la prima volta rilevata da Vincenzo Vinciguerra. Fondamentale: uno, per i rapporti con Mario Tedeschi, cui fanno adesso riferimento i magistrati di Bologna indicandolo tra i mandanti nell’ultima inchiesta sulla strage del 2 agosto; due, per i rapporti con l’estrema destra di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, che forniscono in questa operazione la manovalanza. Prova mai smentita del fatto che è D’Amato a dare carne e sangue al delicato, rischiosissimo ma fondamentale gioco delle stragi, da una parte; e, dall’altra, dell’extra-parlamentarismo di sinistra, poi evolutosi in “partito armato”, con tutto quello che ne è derivato.

Giugno 1969: decreto del Consiglio dei Ministri di riordino dello Uar, che, diviso, diventa Sigop (servizio informazioni generali e ordine pubblico), a sua volta ripartito in Siig (sicurezza interna e informazioni generali) guidato da D’Amato, e Dops (divisione ordine pubblico e ufficio stranieri), affidata a Antonio Troisi e Mauro Saviani. Siamo nel pieno della stagione della strategia della tensione, D’Amato mantiene la posizione chiave che gli permette un’operatività globale nel nostro Paese.

Agosto 1970, Elvio Catenacci diventa capo della Polizia: Sigop passa a Ariberto Vigevani, già capo dell’ufficio politico della questura di Milano.

Novembre 1971, Sigop viene sciolto e le due divisioni diventano autonome. La Dops cambia nome in Sops (Servizio Ordine pubblico e stranieri); la Siig diventa Sigsi (Servizio informazioni generali e sicurezza interna), dove, si noti, resta D’Amato.

Sorge spontanea la domanda: perché questi cambiamenti nel pieno del periodo delle stragi e dei “golpe”? Qualcuno ha approfondito questa dinamica? Ma intanto D’Amato resta al comando.

Il fatto che D’Amato lavori su tutte e due i fronti degli opposti estremismi, in funzione di provocazione, è confermato, nel 1975, dalla proposta che D’Amato fa, chissà perché, ad Adriano Sofri di uccidere membri dei Nap. Dell’incontro con D’Amato a casa di Sofri, quest’ultimo darà notizia in due articoli del 26 e del 28 maggio 2007, su Il Foglio!

A fine anni Settanta, al militante di Lotta Continua Alberto Capriotti viene trovato il numero di telefono diretto di D’Amato, compreso quello di casa: Capriotti era stato denunciato nel 1969 per avere dato rifugio a Marco Pisetta, infiltrato nelle Brigate Rosse.

Bene, perché annoiare il lettore con questo breve profilo biografico?

Perché non vi è persona dotata di semplice e puro buon senso che, letta una simile biografia, possa pensare che è il superpoliziotto D’Amato ad essere strumentalizzato da presunti neo-fascisti. Sembra evidente esattamente il contrario: un esercizio professionale cui tutti i poliziotti di un certo rilievo degli Stati moderni, a partire dall’Ochrana zarista, si sono dovuti dedicare: infiltrazione, provocazione, strumentalizzazione dei movimenti antagonisti rispetto allo Stato di cui è al servizio.

Questo è il lavoro, se vogliamo lo sporco lavoro, dei D’Amato, oggi come allora. Serve a questo, in età contemporanea: come avvenuto negli Usa con la strage di Haymarket (Chicago, 1° maggio 1886) o in Russia con l’uccisione del primo ministro Stolypin (Kiev, 18 settembre 1911), per consolidare un potere minacciato di cambiamento. Neutralizzando gli anarchici americani, nel caso di Haymarket; impedendo le radicali riforme al potere del latifondo nella Russia zarista, nel caso di Stolypin. In entrambi i casi, operazioni di difesa del sistema. Questo il lavoro demandato ai D’Amato, la base anche del loro potere, i veri pretoriani degli Stati moderni, compresi quelli democratici.

Licio Gelli, un “redento”

Anche su Licio Gelli pensiamo sia tempo di valorizzare acquisizioni storiografiche che forte e chiaro ci parlano di un fascista di quelli che, in molti casi per salvare la pelle, sono stati da taluno chiamati “i redenti”, vale a dire coloro che hanno opportunamente voltato gabbana: avvenne nel 1944, rendendo possibile con la sua presenza in divisa da repubblichino la liberazione dal carcere di un gruppo di partigiani arrestati a Pistoia.

Licio Gelli avrebbe dato più di una volta un concreto aiuto alle formazioni partigiane: per questa ragione, secondo alcuni, nell’estate del 1944 sarebbe stato costretto a nascondersi per paura di rappresaglie dei tedeschi o dei fascisti. Ma leggiamo.

«1. Licio Gelli, nel luglio del 1944, si era fatto partigiano nella “Gugliano”, una piccola formazione che operava tra la Torbecchia e il Vincio di Montagnana, a un tiro di schioppo dal luogo dove Scripilliti fu ucciso;

2. Gelli e la sua formazione erano in contatto con alcuni dirigenti comunisti. Infatti, Giuseppe Corsini (dirigente del Pci e, nel dopoguerra, sindaco di Pistoia e senatore) dichiarò:

“[Scoperto] del suo doppio gioco e taglionato, fu incaricato di reclutare e organizzare delle squadre Partigiane. Infatti il Gelli operava sotto la sigla G.U. [la formazione “Gugliano” -. N.d.A] nei pressi di Pian di Casale-Ponte S. Giuseppe (…)

Italo Carobbi (dirigente comunista e presidente del Comitato Pistoiese di Liberazione Nazionale), a sua volta, il 20 maggio 1946 concludeva una sua dichiarazione al PM presso la Sezione speciale di Corte d’Assise di Pistoia, Umberto Petrucci, riferendo che Gelli, dopo il 21 giugno 1944 (data dell’azione alle Ville Sbertoli compiuta dalla “Silvano Fedi” con l’aiuto di Gelli), scoperto e con sulla testa una taglia di 150.000 lire [sic]: […] dovette allontanarsi e da allora, verso la fine di luglio, andò ad assumere il comando di una formazione partigiana in montagna. Alla Questura di Pistoia e alle altre autorità tutto questo non risulta perché gli accordi intercorsi tra noi sono stati tenuti sempre segreti. (I. Aiardi, R. Aiardi, Agguato a MontechiaroConsiderazioni sulla morte del comandante partigiano Silvano Fedi, Centro Documentazione di Pistoia, 2014, passim).

Tutto questo gli avrebbe valso in prima battuta la copertura del Partito Comunista che, nell’ottobre del ’44 e poi nel febbraio ’45, rilascia a Gelli un’attestazione della sua attiva collaborazione con i partigiani, confermata anche dal giornale del Cln pistoiese nel ’45.

Riparato a Roma con mezzi forniti dal Cln, si sposta a la Maddalena in Sardegna presso la sorella ed il cognato, sottufficiale di marina, sotto sorveglianza dei carabinieri, il 24 gennaio 1945.

Arrestato dai carabinieri nel settembre ’45, su denuncia del figlio di un collaboratore dei partigiani, è detenuto prima a Sassari e poi a Cagliari, e qui, negli interrogatori a suo carico, avrebbe fatto i nomi dei collaborazionisti repubblichini da lui conosciuti, a suo dire per proteggerli dalla furia popolare.

Rilasciato in libertà provvisoria, nuovamente arrestato, su denuncia di un ufficiale dell’aviazione per aver organizzato rastrellamenti di prigionieri inglesi, durante la detenzione a Roma conosce il principe Junio Valerio Borghese.

Le accuse contro di lui si ridimensionano, e nel 1947 si trova libero da qualsiasi addebito penale e ottiene il passaporto.

Riprende l’attività politica con orientamento monarchico, in vista del referendum, e diventa segretario provinciale del Partito Nazionale del Lavoro. Da qui, seguendo la traiettoria di molti ex-fascisti, lo spostamento finale a favore della Democrazia Cristiana:

«Nel 1948, alla vigilia delle elezioni politiche, in un clima di acceso anticomunismo, iniziò a lavorare per Romolo Diecidue che era candidato per la circoscrizione Firenze-Pistoia, nelle liste della Democrazia cristiana, e aveva il suo bacino elettorale in Valdinievole. Diecidue, romano di origine e preside di scuola media superiore nella città termale, era stato presidente del Cln di Montecatini: dopo avere militato nella Dc, sarebbe passato ai demoliberali filo-monarchici. La collaborazione tra i due durò per circa un decennio» (M. Francini, “Il periodo pistoiese di Licio Gelli”, Quaderni di Farestoria, Anno XI, 1, Gennaio-Aprile 2009, p. 50 e ss.).

Perché dunque continuare a parlare di Gelli come di un nostalgico neo-fascista e non classificarlo, come si è fatto per intellettuali di chiara fama, come “redento”, oramai conquistato alla causa della democrazia, tanto da iniziare una brillante carriera come “faccendiere”, che, grazie al supporto massonico-cattolico, lo avrebbe portato a far parte di un centro di potere come la Loggia P2?

Ci limitiamo, per chi ancora non la conoscesse, a consigliare la lettura di quel Piano di Rinascita Democratica, ritrovato a Gelli nel 1981 quando scoppia l’affaire P2, ma sicuramente risalente alla fine degli anni Settanta. Lo si ponga poi accanto al celebre testo di M. Crozier, S.P. Huntington, J. Watanuki, The Crisis of Democracy, Report on the Governability of Democracies to the Trilateral Commission, New York University Press, 1975. Confrontando i due testi, chiunque può rendersi conto che il documento attribuito alla P2 non è altro che l’adattamento politico al contesto italiano di un progetto di ben più vaste dimensioni, in atto nell’Occidente capitalista a fine anni Settanta, in vista della riorganizzazione dei sistemi a democrazia parlamentare col vittorioso procedere della mondializzazione nel segno del liberismo economico-finanziario.

Fascisti questi? Neo-fascisti anche quelli della Trilateral? Fior di democratici, magari di una democrazia diversa da come la intendeva Mazzini: ma sono gli uomini e e le forze che hanno combattuto e vinto la guerra contro il fascismo. Gelli e la P2 stavano dalla loro parte.

E la strage di Bologna?

Probabilmente la strage di Bologna non è una strage come quelle degli anni Sessanta e Settanta. Non rientra nella sanguinosa routine del “destabilizzare per stabilizzare”, in quanto non si collega probabilmente ad un tentativo golpista, più o meno gestito strumentalmente, come nel caso dei vari golpe Borghese e dei golpe “bianchi”.

Crediamo che anche in questo caso, Vinciguerra stia in questi mesi fornendo sul suo blog I Volti di Giano la chiave di lettura più credibile, a sostegno della quale egli, come sempre, fornisce un’articolata analisi di elementi finora mai valorizzati in questo senso.

La strage del 2 agosto probabilmente nasce quindi come un’estrema operazione di copertura per impedire la verità sulla strage di Ustica. Su questa questione vedremo cosa accadrà nei prossimi mesi, visto che già qualcuno rispolvera palestinesi e libici, come già fecero i servizi israeliani subito dopo la strage, nell’agosto del 1980.

Se, come pensiamo, strage copre strage, il movente è sufficientemente chiaro e grave per spiegare l’eccezionalità di Bologna. Una verità che, se fosse stata conosciuta all’epoca, avrebbe portato alla luce la presenza di qualcosa come 21 velivoli da combattimento nei cieli estivi d’Italia, uno scenario di guerra non dichiarata di cui il nostro Paese fu e rimane all’oscuro – se tutto questo fosse venuto alla luce allora, nonostante il Pci avesse da poco aperto alla Nato, probabilmente l’indignazione popolare avrebbe travolto la classe dirigente italiana, avrebbe rimesso in discussione la presenza dell’Italia nella Nato, proprio in un momento critico per il confronto fra i blocchi, come fu quello che seguì ai molti eventi epocali del 1979, dall’invasione dell’Afghanistan alla rivoluzione khomeinista in Iran.

Ricordiamoci cosa avvenne a Milano e Roma all’inizio di Mani Pulite: Craxi in fuga fra lanci di monetine. Ricordiamoci cosa avvenne a Palermo ai funerali di Borsellino: un presidente della Repubblica in fuga, inseguito dalla folla inferocita.

Cosa sarebbe accaduto, nel mentre infuriavano ancora le uccisioni delle Br, se si fosse scoperto quello che nessuno ha ancora il coraggio di ammettere, vale a dire che l’Italia è stata ed è su di una linea di guerra, dopo la perdita della sua sovranità nazionale con lo sfascio dell’8 settembre? Non c’era antifascismo che potesse reggere: i politici di allora sarebbero stati cacciati a furor di popolo, come del resto meritavano.

Per questo D’Amato e altri con lui mettono in moto un meccanismo ben collaudato, che porta al massacro della stazione del 2 agosto: non per una strategia del terrore “fascista”, che non trova addentellati nella realtà, ma per la solita strategia di difesa dello Stato democratico e antifascista; ma usando manovalanza pescata nei vivaio tenuto in vita nell’estrema destra, a furia di infiltrazioni e di attacchi mirati a creare ragazzini pronti a tutto. Un domani sempre scaricabili, quindi, o eliminabili.

Ragazzini che, oggi diventati uomini, tacciono perché sanno di essere stati parte di un gioco troppo più grande di loro, come hanno taciuto i Freda, i Ventura, eccetera, eccetera. Pagano così il prezzo per la loro libertà e per la loro sopravvivenza fisica.

Guardiani della memoria

L’Italia non ha bisogno di guardiani della memoria, che vengano a ripetere i vecchi slogan a base di antifascismo e di un atlantismo che la caduta del Muro di Berlino avrebbe dovuto seppellire.

I segreti dietro le stragi, compresa quella di Ustica, di Bologna, e le altre che le hanno seguite, sono sempre stati noti ai vertici della classe politica, militare e poliziesca italiana, comprese le forze della cosiddetta opposizione, poi divenute anch’essa forze di governo, senza che nulla sia mutato in termini di verità sui “misteri” italiani.

Come giustamente ha sottolineato Vinciguerra, non ci sono “misteri”, ci sono “segreti”: di questi segreti è tuttora detentrice la classe dirigente del Paese.

Da loro è però oramai vano aspettarsi la verità, cosa questa che forse i familiari delle vittime non hanno ancora capito.

Eppure questa verità, grazie al sacrificio personale di qualcuno, al coraggio di pochi, all’onestà di altri, mai come ora è straordinariamente vicina.

I familiari delle vittime hanno compreso l’importanza del momento e comprensibilmente chiedono la vicinanza del Paese. Questa vicinanza noi la testimoniamo qui con queste poche righe, sperando di contribuire alla verità che le 81 vittime, i cui nomi sono incisi sulla lapide di Bologna, attendono da quarant’anni.

Tratto da: clarissa.it

Foto © Afp/Getty Images

ANTIMAFIADuemila
Associazione Culturale Falcone e Borsellino
Via Molino I°, 1824 - 63811 Sant'Elpidio a Mare (FM) - P. iva 01734340449
Testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Fermo n.032000 del 15/03/2000
Privacy e Cookie policy

Stock Photos provided by our partner Depositphotos