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di Mattia Fossati
Addio a Francesco Saverio Pavone, ecco come ha sconfitto la prima mafia del Nord Italia

Un ligio servitore dello Stato. Non c’è fotografia più efficace per descrivere l’ex giudice istruttore Francesco Saverio Pavone, scomparso lunedì all’ospedale di Mestre. Ennesima vittima della terribile epidemia di coronavirus che da quasi un mese sta flagellando l’Italia. Da togato, Pavone ha fatto partire la più grande inchiesta sulla mafia nel Nord Italia: quella sulla mala del Brenta di Felice Maniero, conclusa nel 1994 con l’arresto e il pentimento di Faccia d’angelo. Un incredibile risultato ottenuto grazie alla caparbietà di un magistrato. Francesco Saverio Pavone.
Insediato all’ufficio istruzione del Tribunale di Venezia nel 1986, Pavone si trovò davanti ad un puzzle da 32 mila pezzi. Sul tavolo c’erano decine di rapine andate a segno, 17 omicidi irrisolti, misteriosi furti e altrettanti ritrovamenti di opere d’arte e svariati sequestri di persona compiuti tra le province di Padova e Venezia. Piste e mezzi indizi che riconducevano ad un ragazzo della bassa padovana con il viso pulito e la parlantina sciolta, Felice Maniero. Tutto riconduceva a lui e alla sua banda. Le prove per affermarlo in un’aula di giustizia però non c’erano. Ed è in quel momento che Pavone capisce che trovare un filo conduttore è l’unico modo per mettere tutte le caselle al proprio posto nel gigantesco mosaico che dovevano comporre gli investigatori. Il magistrato decise di seguire un ipotesi contenuta in un informativa dei Carabinieri di metà anni Ottanta. La mala di Felice Maniero non era una banda di ladri di polli ma una vera e propria mafia, come la ‘Ndrangheta in Calabria o Cosa Nostra in Sicilia.
La prima mafia autoctona del Nord Italia.
Il giudice istruttore Pavone riempie una stanza con faldoni di vecchie indagini e rapporti di Polizia riguardanti la banda Maniero. Milioni di pagine che raccontano la nascita e l’evoluzione di quella che poi sarebbe diventata la mala del Brenta. Di pari passo, Antonio Palmosi, all’epoca capo della Squadra mobile di Venezia, piazza due poliziotti alle calcagna di Felice Maniero. Non per catturarlo ma per studiare la banda. Ci vuole tempo per incastrarlo, l’indagine viene chiusa solo nell’aprile del 1993. La sentenza ordinanza firmata dal giudice Pavone è un libro di storia. Ogni capitolo ricostruisce con dovizia di particolari la rete di contatti che compone il sistema Maniero. Sarà proprio per questo che i malavitosi veneti e gli alleati siciliani di Faccia d’angelo pianificheranno per due volte un attentato contro il magistrato pugliese. Per Felice Maniero era un avversario ostico. Un giudice che continuava a fare il proprio lavoro nonostante la mancanza di ‘pentiti’ all’interno la banda oppure di fronte all’assoluta omertà degli abitanti di Campolongo Maggiore. La Corleone in salsa veneta di Faccia d’angelo.
Nessuno dei suoi colleghi credeva che in giudizio avrebbe retto l’accusa di 416-bis. Nessuno ipotizzava che la mafia potesse annidarsi anche su, al Nord. Nessuno metteva in dubbio questo assunto: i veneti non sono mafiosi, la mafia è solo al Sud. La logicità della ricostruzione offerta dall’indagine di Francesco Saverio Pavone resiste per tutti i gradi di giudizio. La Cassazione lo certifica: quella nata sulle rive del fiume Brenta è una vera e propria mafia, come Cosa Nostra, l’Ndrangheta e la Camorra. A riprova del buon lavoro svolto da Pavone c’è lo stesso Felice Maniero che, durante la collaborazione, conferma gran parte dei fatti emersi nel corso dell’indagine. In pratica, già prima del pentimento di Faccia d’angelo, sapevamo quasi tutto sulla storia della mala del Brenta.
I numeri sono quelli tipici dei maxiprocessi. 254 indagati, 134 arresti e un centinaio di condanne, di cui 79 solo a Venezia con Pavone, all’epoca con la toga di Procuratore generale a sostenere l’accusa contro la mafia di Felice Maniero. “Rimarrà nella storia perché è stata una cosa eccezionale - commentava Pavone a novembre dello scorso anno - vale a dire la creazione di un organizzazione di stampo mafioso riconosciuta in tre gradi di giudizio costituita da soggetti che non appartenevano alla mafia classica. Non c’era un solo componente di questa banda che provenisse dalla Sicilia, dalla Calabria o dalla Campania”.
Un dato che si riscontra invece nelle nuove mafie che si sono insediate a Nord Est, come i Casalesi di Eraclea o gli ‘ndranghetisti nel Veronese. Gruppi criminali che non affronteremo con l’aiuto di Pavone ma con la sua esperienza, tramandata a tutti coloro che hanno avuto il piacere di incontrarlo, di scambiarci quattro chiacchiere oppure semplicemente di stringergli la mano per dirgli 'grazie'.

Foto tratta da cavarzereinfiera.it

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