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insarda annalisa interna c luca coassindi Antonio Lufrano - Intervista
Essere donna, attrice e del sud in italia oggi. Cerchiamo di capirne di più con l’aiuto di Annalisa Insardà.

Annalisa perché fai l'attrice?
Tutto ciò che ha a che fare con la creazione ha un risvolto vocazionale. Fare l’attore è creare ciò che non c’è, storie che non esistono o che esistono e che vogliono essere raccontate, riproposte. Faccio l’attrice per vocazione. Per creare. Per vivere sulla mia pelle chi non sono (ma potrei essere in potenza), e far percepire empaticamente al pubblico come ci si sente.

Che cos'è il pubblico per l'attore?
È il giudice. Implacabile e imprescindibile. Se ha il pubblico un attore esiste, in caso contrario…

Che cosa significa nascere a sud e voler fare l'arte?
Nascere al Sud non è una condanna, ma una risorsa. Noi calabresi, per esempio, non siamo persone qualsiasi, ma uomini e donne che vivono in una terra compresa tra l’Etna (tremila metri di fuoco sopra il livello del mare) e il Marsili (tremila metri di fuoco sotto il livello del mare). Questo fuoco si sente tutto. È pneumatico. Una compressione tangibile che inevitabilmente tempra. Quindi nascere al Sud è una benedizione. Poi invece “venire” dal Sud è molto più articolato, ma questa è un’altra storia.

Hai avuto importanti riconoscimenti da parte degli addetti ai lavori e non ti sei mai montata la testa…. È così?
Questo lavoro è fatto di “sì” ricevuti. E i “sì” sono frutto di tante, forse troppe, contingenze: pareri personali, gusti, condizioni emotive, favori, opportunità, opportunismi, dirigenze che cambiano, simpatie che mutano. La totale soggettività con cui si fanno le scelte mette in dubbio tutto. Non ci sono certezze. Poi bisogna anche dire che i “sì” e i “no” vengono da essere umani, e un essere umano in un posto di potere può decidere se farti lavorare o no, ma non può stabilire universalmente l’entità delle tue qualità. Non montarsi la testa significa comprendere questo e non sentirsi indispensabili in caso di “sì” e non sentirsi inferiori in caso di “no”.

Che cos'è il talento per te?
Ho un’immagine molto precisa. Secondo me il talento è un suono emesso molto lontano te. Insieme a mille altri suoni. Ma il talento è quello che fa sentire le sue vibrazioni nella pancia che diventa la sua cassa di risonanza. Lui manda le sue coordinate, tu decidi se andargli incontro, rinunciando ad ogni altra malìa, o ignorarlo e accontentarti di suoni a te più prossimi e meno perniciosi da raggiungere

Cosa pensi dei talent show?
Io vengo da una formazione teatrale, di quelle classiche, di quelle da accademia, di quelle dove prima che a gestire il tuo talento, ti insegnano la necessità della disciplina. Mi sembra che la disciplina, chi percepisce come democratiche sia l’educazione che la formazione, non ce l’abbia a cuore. Educazione e formazione non sono democratiche, sono gerarchiche. E nei talent forse questo non c’è. Se fossero un concorso a premi in cui si esibiscono i partecipanti e vince il migliore, sarebbero un buon prodotto. Se sono invece il nuovo paradigma, il futuro della musica, del ballo, del canto, della recitazione, dell’arte in genere, mi sembra si debba parlare di un futuro non desiderabile. Tanto per i talent quanto per i reality, che consegnano a studi televisivi semplici persone e restituiscono al mondo, non si sa per quale motivo, navigati attori!

In una società in cui tutti possono fare tutto, soprattutto nel mondo dell'arte, come si fa a “rimanere” indispensabili?
No, nessuno è indispensabile. Tutti utili, nessuno indispensabile, altrimenti tutto si sarebbe esaurito con Euripide.

Cos'è la vergogna per un attore?
La vergogna passa attraverso la più grande forma di contegno che è la dignità. Chi non ha la dignità non può vergognarsi. Ma proprio perché gli mancano gli strumenti. Per me la vergogna è un atto pieno, di grande considerazione di sé e dei propri limiti. Per un attore, per l’attrice che sono, la vergogna sarebbe una gran bella storia da raccontare.

Cos'è la nostalgia per te?
Parafrasando Gozzano direi che la nostalgia è ciò che poteva essere e non è stato, oppure è stato ma adesso non è più! La nostalgia è un libro di Cechov, è l’assenza di un passato che quando era presente non era ambìto e che ora che è passato è divenuto accogliente e materno. È la perenne insoddisfazione di un oggi svuotato del suo significato di opportunità.

Ti sei mai fatta travolgere da un personaggio che hai interpretato?
Da tutti i personaggi nei cui panni mi sento a disagio. Quelli mi travolgono.

Cosa manca al cinema italiano, secondo te?
Il coraggio. Il coraggio di investire nelle storie forti e nella forza degli interpreti. Anche se Marco Tullio Giordana con “Lea” e Garrone con “Dogman” hanno dimostrato che con questa formula si può perfettamente vincere, cinema e TV continuano a credere che a fare ascolti sia un nome.

Raccontaci del tuo rapporto con il teatro.
Il teatro mi ha partorita. Il teatro mi svuota ogni volta che mi tiene su quelle tavole. Fa tutto quello che vuole. Io guardo e lascio fare. Anche quando fa male. Come un dottore che per sistemarti un osso ti provoca un indicibile dolore. Ma poi l’osso è a posto, e tu in piedi.

Sei un’attrice molto impegnata nel sociale. Il tuo monologo La Scorta dedicato ai poliziotti morti negli agguati di mafia è stato letto davanti a personaggi illustri del mondo della legalità… Cos'è la legalità per te?
Legalità è un termine che mi fa paura. Legale, in alcuni Paesi, è lapidare le adultere, impiccare gli omosessuali, fucilare i dissidenti. Preferisco dire giustizia sociale, preferisco riferirmi alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Le regole non precedono l’uomo, ma “normano” le esigenze delle comunità che non restano mai immutate nel tempo, e dunque anche la legge ha un carattere transeunte che deve essere recepito e metabolizzato da tutti. La più grande libertà è esattamente questo: rispettare le leggi che garantiscono la libertà. Una sintesi così semplice e definitiva mi sembra non sia stata ancora raggiunta. Non mi resta che continuare a lavorare perché sia così.

Oltre al mondo del sociale tu hai un'altra grande passione: lo sport, ma obbligatoriamente di squadra. Perché? Raccontaci...
Io vengo da una famiglia numerosa. Tra genitori, figli e nonna abbiamo sempre fatto di tutto gli uni per gli altri, abbiamo sempre speso parte del nostro tempo e delle nostre forze, ognuno secondo le proprie possibilità, per sostenerci a vicenda, nel bene e nella fatica. Tutto nasce di qui. Dunque il “gioco di squadra”, dove le abilità di tutti sono messe a disposizione del fine comune, è diventato, su questo esempio, un elemento determinante per la mia vita. La stessa cosa accade sul palcoscenico e sul set. Avere tutti uno stesso obiettivo, lavorare insieme per il suo raggiungimento, mi restituisce un grande senso di condivisione e appartenenza. E poi c’è anche da dire che vengo dal gioco del calcio che ho praticato anche a livello agonistico. Quindi “fare spogliatoio”, come si dice in gergo è, a mio avviso, il modo migliore per compensare i rispettivi limiti e sentirsi reciproci. Nello sport come nella vita.

Dove ti vedremo prossimamente?
Ho girato la serie “1994” che andrà in onda su Sky la prossima stagione, interpreto Anna Finocchiaro. Nel frattempo sarò a teatro sia con il mio secondo “One Woman Show”, “Manipolazione indolore”, che parla della manomissione del senso delle cose a uso e condumo del sistema dominante, sia con un testo che ho scritto a quattro mani con Dora Albanese, “La malapelle”, in cui useremo la lebbra come pretesto per parlare della diversità, dell’emarginazione, dell’invisibilità e degli ultimi che non sono mai diventati i primi.

Tratto da: quotidianosociale.it

Foto © Luca Coassin

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