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vitale salvo c paolo bassani 3di Salvo Vitale
C’è una linea di demarcazione dove finiscono, si chiudono gli orizzonti degli esseri umani. Sarebbe corretto chiamarla “visione della vita”, se non fosse che il richiamo all’originale tedesco Weltanschaung indica il “modo di vedere il mondo”, la propria interpretazione, e quindi un diverso significato rispetto al confine che chiude la personale prospettiva del mondo, il limite dove l’occhio si ferma e ne circoscrive la visione. I motivi sono in parte dovuti a proprie autolimitazioni, a connaturata incapacità di saper vedere oltre, in parte ad abitudini sedimentate e diventate modo di essere, a causa dell’insipienza in cui si preferisce stare avvolti o di una forzata accettazione del proprio rapporto con la vita, a causa di una serie di altri intercorsi rapporti con l’ambiente, con il lavoro, con gli altri esseri umani, con gli eventi vissuti, nei quali si è rimasti intrappolati spesso per scelte non ponderate, per accadimenti involontari, altre volte per motivi di sopravvivenza.
Per ognuno il confine, lo spazio d’apertura delimitato dalla sua cornice, la dimensione della valutazione dell’altro da sé, assume aspetti diversi. Può essere la stanza in cui si passa gran parte della giornata, il marciapiede che insiste sull’uscio di casa, la via in cui si abita, il paese, il mare o il cielo, sin dove arriva lo sguardo, la dimensione cosmica, l’oltre, l’immaginifico, il divino. Tutte queste “limitazioni” costituiscono sistemi vari che hanno al centro un unico punto luminoso e un solo centro d’attrazione, l’IO”. “Egoità” è il termine più appropriato, ovvero il mettere se stessi al centro di ogni discussione. Il soggetto egotico trova, su qualsiasi cosa si parli, sempre qualcosa che abbia un rapporto con se stesso, il motivo di parlar di sé e di dare importanza ad elementi irrilevanti che servano ad esaltare il ruolo della propria persona e la sua attività. Da non confondere con l’egoismo che ha la sua specificità e finalità materiale nell’attaccamento geloso verso i propri beni, materiali o spirituali, nella ricerca e conservazione di ciò che è utile solo a se stesso, nella funzionalità mirata al conseguimento di un proprio benessere che esclude gli altri.
Con l’avanzare dell’età questa condizione di centralità della propria persona, questo atteggiarsi a protagonista, partecipe attivo o passivo di qualsiasi vicenda e proiettarsene dentro per leggerla, deformarla e assoggettarla in funzione del proprio essere, questo poter dire orgogliosamente “io c’ero” e ho dato il mio contributo, o, se non c’ero c’era qualche mia conoscenza, utilizzata come trait-d’union con me stesso, si esaspera e si incancrenisce. Questo sguardo dall’alto riflesso all’interno della propria esperienza vera, immaginata o fantasticata, tende a crescere esponenzialmente e a diventare patologia che trova la sua motivazione nel cercare, da parte degli altri, elementi di ammirazione, di considerazione, nell’imporre agli altri atteggiamenti di “rispetto” e di amplificazione di frammenti della propria identità sulla cui importanza è difficile credere, sia da parte di chi li propone, sia da parte di chi è costretto ad ascoltarli e subirli.

In filosofia questa individuazione dell’io come autocoscienza, come principio fondante di qualsiasi conoscenza è un filo che attraversa tutta la storia del pensiero, dal socratico “conosci te stesso” all’antropocentrismo rinascimentale, al moderno cartesiano “cogito ergo sum”, al più avanzato “l’io pone l’io” di Fichte, al “divieni ciò che sei” di Nietzsche, ma qualsiasi teoria dell’autocoscienza è il principio da cui si sviluppa il rapporto del sé con l’esterno, lo stimolo a conoscerlo, a giustificarlo, a superare l’ostacolo dell’inerzia nella tensione verso l’infinito e nel rapporto intenzionale verso gli altri esseri umani, caratterizzato dall’amore, dalla “coscienza di classe”, dall’angoscia esistenziale, ecc. In ogni caso “il sè” è l’inizio per uscire da sè e andare verso l’altro da sè. Nella pratica ci si imbatte in molti soggetti in cui invece questa “intenzionalità”, (in-tendere, tendere verso) viene meno, il cerchio si chiude in una sorta di presunta compiutezza della propria persona che, nel suo sapere acquisito che rifiuta altre integrazioni e aggiornamenti, è diventata la protagonista, la chiave di volta, la spiegazione, se vogliamo “il buco del culo”, “l’ombelico” del mondo, anzi, di quello che è il suo mondo, dove tutto si ferma e si compie. “Io, sono io, sempre io” cantava Modugno, ma se in quel caso c’era un “io che amo te”, e quindi il riflesso dell’io nell’amore, mentre l’io malato ha la sua deformazione nello squallore.

L’egoità amorale
Negli anni ’50 il sociologo americano Banfield individuò in un lontano villaggio calabrese il principio del familismo amorale, in nome del quale, ovvero dell’affermazione della famiglia ogni azione era giustificata, dal matriminio d’interesse al delitto. Mutuando lo stesso principio, in Sicilia, negli ambienti permeati dalla subcultura mafiosa, tale caratteristica, che pur trova riscontri, si restringe ulteriormente e trova il suo nucleo fondamentale nell’io, attorno a cui ruota tutto il resto e in nome del quale tutto è ammesso e giustificato. Dal familismo lo spazio si riduce all’”egoità amorale”, una riduzione sociale dell’eliocentrismo, dove il rapporto intersoggettivo si estrinseca in un individualismo esasperato e nel rifiuto di forme associative. L'individuo assume se stesso come centro dell'universo, ritiene il suo modo di essere e di pensare come "il migliore possibile", trova una possibilità di scambio solo nella misura in cui riscontra qualche affìnità tra la propria impostazione ideologica e Ie altre, purché queste non interferiscano con il suo "privato" e purché siano finalizzate o finalizzabili, al proprio utile. Ne consegue inevitabilmente la refrattarietà a qualsiasi stimolo di innovazione o di mutamento sociale. Dal momento che questo individuo "sa tutto", non si sforza di sapere altro, perchè sarebbe inutile, e rifiuta qualsiasi tipo di intervento esterno che contraddica o metta in discussione la globalità della sua presunta cultura, diventata visione del mondo che non ha bisogno di particolari contenuti e conoscenze: pertanto Ia cultura, come proposta che viene dall'esterno, se riproduce la propria cultura è approvata e accettata, ma non ha bisogno di essere conosciuta o approfondita, perchè già la "si sa"; se offre caratteristiche o prospettive diverse, se non opposte, se è "altra cultura", dal momento che la propria è giusta, qualsiasi altra è sbagliata, né, tantomeno ha bisogno di essere conosciuta. Il tratto conservatore di questa "cultura" è chiaro: lo spazio per I'innovazione è strettissimo e si conquista, ma non sempre, solo con una evoluzione lenta e faticosa, con un lavoro costante e una presenza sempre attiva. Il possibile modo attraverso cui avviene il rapporto con il discorso culturale è dato da uno di questi atteggiamenti:
1) la condanna, associata per lo più a forme di diffamazione nei confronti della persona che ne è espressione, ove trattasi di controcultura che tenta di mettere in discussione i tratti della subcultura istituzionalizzata;
2) Ia sopportazione, ove tale controcultura possieda qualche elemento incontrovertibile di ragione e di consenso, che tuttavia non arrivi a danneggiare quell'insieme di base radicalizzato che la comunità ha assunto come principio guida caratterizzante;
3) l'ignoranza totale, deliberatamente scelta, rispetto a qualsiasi iniziativa, quando questa richieda una partecipazione, anche senza risvolti pratici;
4) la partecipazione sporadica delle poche forze che si autodefiniscono "intellettualità", intesa come segno di consenso, a quelle iniziative che contengono indicazioni politiche predeterminate e circoscritte nell'ambito del tradizionale gioco del potere;
5) I'atomizzazione delle scelte di dissenso o di alternativa, quasi una volontà di occultamento, di oscura vergogna e di autocolpevolizzazione nell'operare devianze che la maggioranza non condivide.
Tale generica forma anarcoidie di ribellione, tipica del momento di formazione della personalità, finisce presto con l'essere riassorbita e con lo sciogliersi nella palude generalizzata dell'insipienza comune che uccide qualsiasi energia creativa. Alla base di tutto si cementa la "cultura dell'amicizia" (siamo tutti amici, o "amici degli amici"), con la quale qualsiasi tensione sociale viene ricomposta tirando in ballo contatti interpersonali, parentele, conoscenze attraverso cui è possibile attuare meglio i ricatti, per arrivare alla conclusione che "siamo paesani", "quello è un figlio di buona famiglia", "tuo padre era amico del mio", ci scontriamo, sì, ma per dare agli altri l'impressione che ognuno di noi vale qualcosa e tira acqua al proprio mulino, poi possiamo andare a prendere il caffè assieme, continuare a farci i fatti propri, pronti a reincontrarci, se uno avesse da chiedere un favore all'altro.
Al di là di qualche forma di paura o di timore riverenziale da parte di chi subisce, si contrappone il “rispetto”, guadagnato attraverso l’uso della violenza, la capacità di mediazione, la sapienza nella divisione della torta ai componenti del gregge che ti gratificano offrendo il consenso, guadagnato col terrore.
L’io di ogni singolo individuo si identifica e riflette l’io del “capo”, del mafioso, del boss, del politico, del signorotto locale. Nella stessa misura in cui quest’io promana raggi e luce, così lascia convergere verso di sé un reticolo complesso di fili che interessa gli individui da lui frequentati e scelti in base al principio di uno squallido utilitarismo, ovvero di un’“amicizia funzionale”, dove il rapporto con l’altro ha un senso solo se mi torna utile, se ne ho un qualche positivo riscontro. Senza escludere l’altro conseguente aspetto della diffidenza nei confronti di tutti, dal momento che si crede che tutti gli altri la pensino nel tuo stesso modo, e che quindi, come fai e faresti tu, siano pronti ad ingannarti o a cercare attraverso la tua persona il proprio tornaconto. “Megghiu sulu nca malu accumpagnatu”, “Ognunu godi lu statu chi è”, “Amici e vàrdati” ecc.: la paremiologia è ricca di proverbi che illustrano e consigliano queste caratteristiche. Naturalmente non esiste l’apprezzamento per particolari doti, come la capacità di provare sentimenti, di emozionarsi, di costruire reciprocamente progetti di crescita comune. Non esiste la cooperazione, non la collaborazione, non l’assistenza reciproca, non la tolleranza, non la solidarietà. Solo il proprio io e il suo utile. Questo modo di essere è presente nel villaggio, nel paese, nella città composta da microcosmi, ovvero dalle singole fortezze in cui ognuno è chiuso e arroccato.

Foto © Paolo Bassani

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