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garofalo lea web1di Cristiana Mastronicola
Sono le 10 di mattina di un freddo sabato di ottobre del 2013. La folla riempie ogni angolo di Piazza Beccaria. Milano diventa il cuore pulsante dell’antimafia davanti alla bara di una donna ribelle, morta mentre continuava ad urlare il suo no alla mafia. Quella mafia che aveva in casa, che aveva imparato a conoscere e riconoscere fin da bambina, ma che presto aveva scelto di combattere. Lea Garofalo aveva 35 anni e la forza rara di chi si aggrappa alla vita con le unghie e con i denti, rischiando tutto. Aveva 35 anni quando veniva uccisa da un marito troppo vigliacco per poter  competere col suo coraggio. Figlia e sorella di ’ndranghetisti, Lea aveva sposato, giovanissima, il piccolo boss di Petilia Policastro Carlo Cosco, da cui aveva avuto una bambina, Denise.
Ma Lea non è donna di ’ndragheta e parla: diventa testimone di giustizia quando sceglie di raccontare gli affari di famiglia, di denunciare. Entra in un programma di protezione per testimoni che collaborano con la giustizia, ma questo non sarà sufficiente a chiudere Cosco fuori dalla vita sua e di Denise. Dalla Calabria a Campobasso, poi a Firenze. Ma è a Milano che Lea cadrà, nella trappola di Cosco, per l’ultima volta. “Voglio rivederti per amore di nostra figlia”, le dice. E lei, per amore di Denise, lo fa. La sera del 24 novembre del 2009, dopo essersi separata dalla figlia, Lea sparisce. Le tracce della donna ribelle si perdono per anni. Cosco si difende dalle accuse di sequestro di persona. Continua a macchiare la memoria di Lea, arrivando a dire che Lea sarebbe partita per una “vacanza” in Australia. A tradirlo, però, sarà uno dei suoi: Carmine Venturino. Carmine, il ragazzo che Cosco aveva spinto tra le braccia della giovanissima Denise per controllarla. Carmine, dopo tre anni, parla e racconta la fine atroce di Lea: dopo essere stata strangolata, Lea è stata bruciata.
I resti finiscono in un tombino. Denise riconosce i gioielli che la madre indossava. Li conserva, come conserva e coltiva lo stesso coraggio con cui chiede a Milano di salutare per l’ultima volta la madre. Poche righe, impregnate di dolore, sì, ma piene di una consapevolezza che solo una donna cresciuta troppo in fretta come Denise può concepire: “Lea, la mia cara mamma, ha avuto il coraggio di ribellarsi alla cultura della mafia, la forza di non piegarsi alla rassegnazione. Il suo funerale pubblico, al quale vi invito, è un segno di vicinanza non solo a lei, ma a tutte le donne e uomini che hanno rischiato e continuano a mettersi in gioco per la propria dignità e per la giustizia di tutti”. Non pensa solo alla sua mamma, Denise. Guarda alla forza di tutte quelle persone che ogni giorno urlano il loro no alle mafie, rischiano la vita come Lea, si ribellano come Lea. “Non basta dire la verità, dobbiamo cercarla”. Luigi Ciotti, davanti alla bara in piazza Beccaria, in mezzo alle bandiere di Libera, ai fiori e alle lacrime, con rabbia, parla di “rompere il codice del silenzio mafioso” come ha fatto Lea, “perché a volte quel codice lo abbiamo anche noi, è la nostra mafiosità”. “Siamo tutti in debito con lei”, continua. Un debito che ancora oggi, otto anni dopo, ci portiamo dentro.

Tratto da: articolo21.org

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