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Parafrasando Piero Calamandrei che paragonava la libertà all’aria, del cui valore ci si può accorgere soltanto quando comincia a mancarci, lo stesso si potrebbe benissimo dire anche della libertà d’informazione, come del resto è testimoniato in questi ultimi mesi da quanto sta accadendo in Turchia e non solo. Mass media censurati o addirittura bloccati, oscurati; giornalisti uccisi o incarcerati – è di pochi giorni fa fortunatamente la positiva conclusione della vicenda di Gabriele Del Grande -; libertà d’espressione nelle sue diverse forme conculcata nelle università e nelle scuole; false notizie fatte rimbalzare nei social per denigrare gli avversari politici: sono questi i segnali più evidenti dell’attacco alla libera informazione che si riscontrano in ogni angolo del nostro pianeta, dove spesso dare una notizia equivale a finire nel mirino del potere, della censura e anche della violenza.

Non è sicuramente il miglioramento complessivo della situazione della libertà di stampa in Italia che può farci sentire meglio. È senz’altro vero che il nostro paese è risalito dal 77° all’attuale 52° posto nel giro di un anno nella tradizionale classifica stilata da Reporters sans Frontières, ma non si possono dimenticare alcuni dati incontrovertibili: innanzitutto il fatto che dei giornalisti italiani vivano ancora sotto scorta per le minacce ricevute dalle organizzazioni mafiose o da altri gruppi criminali; a questo vanno aggiunte le innumerevoli violenze fisiche e intimidazioni verbali registrate capillarmente da “Ossigeno per l’Informazione”; e da ultimo non vanno sottovalutate le autocensure degli stessi giornalisti che scattano di fronte ai poteri forti, dall’economia alla politica.

Ecco perché oggi, 3 maggio, la giornata in cui si ricorda in tutto il mondo la libertà d’informazione, non possiamo dimenticare dei nomi a noi molto cari, quelli cioè dei giornalisti uccisi dalle mafie e dai poteri forti nel nostro Paese o per vicende in cui l’Italia ha visto cadere alcuni operatori dell’informazione, a causa delle loro inchieste scomode, collegate a vicende oscure della storia recente della nostra Repubblica.

Il primo è Cosimo Cristina (5 maggio 1960), collaboratore de “L’Ora” di Palermo: fu trovato morto lungo i binari ferroviari della linea Palermo-Messina, tra Trabia e Termini Imerese e la versione ufficiale accreditò inizialmente il suicidio; nella realtà il giovane cronista fu eliminato per la sua curiosità sui rapporti mafia-economia e sui colletti bianchi in azione in quel di Termini Imerese, alle porte del capoluogo siciliano.

Toccò poi a Mauro De Mauro (16 settembre 1970), redattore de “L’Ora” che fu rapito sotto casa a Palermo e il cui cadavere non fu mai più ritrovato. Tante le ipotesi sulla sua fine, ma, forse, furono le sue domande scomode sulla fine di Enrico Mattei – il presidente dell’Eni perito nel 1962 in un incidente aereo, le cui cause stentano ancor oggi ad essere scoperte – che evidentemente destarono allarme e portarono alla sua eliminazione da parte di quegli stessi poteri criminali e occulti all’origine dell’attentato a Mattei.

Il 27 ottobre 1972, invece, ad essere ucciso fu Giovanni Spampinato, autore di servizi sui rapporti tra neofascismo e criminalità organizzata nella provincia di Ragusa. A premere il grilletto fu Roberto Cambria, figlio del presidente del locale Tribunale, per motivi mai sufficientemente chiariti, anche perché è in quel contesto illegale e criminale portato alla luce dagli articoli di Spampinato che deve essere ricercata la vera causale del suo omicidio.

Anche se non era iscritto all’Ordine dei Giornalisti, con le sue inchieste trasmesse via radio Peppino Impastato (9 maggio 1978) fu senza dubbio il miglior interprete di un giornalismo che sapeva farsi beffe del potere mafioso, irridendone riti e traffici. Finito nel mirino di Gaetano Badalamenti, il potente boss di Cinisi, Impastato fu ucciso barbaramente, dilaniato dal tritolo cui fu legato lungo i binari della ferrovia: anche per lui s’inscenarono le tesi prima del fallito attentato al treno da parte dello stesso Impastato e poi di un improbabile quanto maldestro suicidio. Ad oltre vent’anni di distanza, la Commissione parlamentare antimafia prima, le sentenze dei tribunali poi hanno fatto piena luce su questo omicidio, compresi i depistaggi da parte di alcuni ufficiali dell’Arma dei carabinieri.

Mario Francese lavorava per il più paludato “Giornale di Sicilia”, eppure non esitò a denunciare lo scandalo della ricostruzione del Belice e nei suoi articoli fece più volte i nomi dei potenti esattori di Salemi, i cugini Nino e Ignazio Salvo e dei boss emergenti che da Corleone muovevano alla conquista di Palermo; i killer mafiosi lo attesero sotto casa per eliminarlo (26 gennaio 1979). Soltanto nel 1998 si sono avute le condanne per il suo omicidio.

Di Giuseppe Fava, ucciso a Catania la sera del 5 gennaio 1984, occorre ricordare l’estrema versatilità professionale: fu uno straordinario giornalista, ma anche un formidabile scrittore e uomo di teatro. Fondatore della rivista “I Siciliani”, Fava prese di mira i cavalieri del lavoro catanesi e i loro rapporti con la cosche criminali, fino a quando il piombo mafioso lo fece tacere per sempre. Anche per lui la verità processuale è arrivata molto tempo dopo, in ragione soprattutto dei diversi tentativi di infangarne la memoria all’inizio delle indagini.

Lasciando la Sicilia e approdando in Campania, in questo dolente elenco di giornalisti vittime della mafia, caduti per aver svolto fino in fondo la loro professione con la schiena dritta, non può certo mancare Giancarlo Siani (25 settembre 1985), valoroso corrispondente per “Il Mattino” da Torre Annunziata, colpito a morte dai killer di una camorra decisa a eliminare una voce scomoda ed isolata.

Per molti anni le diverse ipotesi sulle cause dell’omicidio di Mauro Rostagno (16 settembre 1988) – alcune delle quali costruite ad arte per oscurarne il ricordo – hanno impedito l’accertamento della verità. Sociologo prima, fondatore poi di una comunità per recupero di tossicodipendenti, Rostagno s’inventò negli ultimi anni della sua vita anche giornalista, non esitando a ricorrere allo strumento televisivo, per denunciare le collusioni della politica con la mafia nella periferica Trapani. Fu la sua capacità di illuminare l’indicibile intreccio tra mafia, affari e politica a decretarne la fine.

L’ultimo in ordine di tempo è Beppe Alfano (8 gennaio 1993), fustigatore degli scandali di Barcellona Pozzo di Gotto, che lui portò sotto i riflettori della cronaca per denunciare le commistioni tra stimati professionisti e pericolosi mafiosi.

Uscendo dai confini italiani, ma seguendo questo filo rosso che unisce tutti questi delitti, non si possono dimenticare Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, uccisi a Mogadiscio in Somalia il 20 marzo del 1994, mentre per conto del TG3 stavano raccogliendo documentazioni sugli illeciti traffici di armi e rifiuti, dietro ai quali si nascondono da sempre mafie nostrane, faccendieri internazionali e uomini delle istituzioni che sono collusi con i criminali. Per loro attendiamo ancora verità e giustizia.

La stessa verità e giustizia che deve essere riconosciuta a Graziella De Palo e Italo Toni, inviati in Libano per documentare il traffico di armi. Furono rapiti a Beirut e uccisi il 2 settembre del 1980, ma i loro corpi non furono mai ritrovati. Sulla loro fine fu apposto il sigillo del segreto di Stato.

E ci fermiamo qui. Perché a questi nomi dovremmo aggiungere quelli dei giornalisti caduti per mano dei terroristi interni. E poi, ancora, quelli dei giornalisti, vittime del potere in ogni angolo del mondo, come Anna Politkvoskaja. O poi, infine, quelli delle vittime della loro sete di conoscenza, come il ricercatore italiano Giulio Regeni.

Due nomi però a quest’elenco dei caduti per la libera informazione vogliamo e dobbiamo aggiungere. Non sono stati uccisi dalla criminalità o bloccati dal potere, ma nel corso della loro lunga esperienza giornalistica in RAI si sono battute contro mafie e corruzione, fondando la propria etica professionale sulla propria rettitudine personale.

Stiamo parlando di Roberto Morrione (20 maggio 2011) e di Santo Della Volpe (9 luglio 2015), maestri di giornalismo e compagni di strada di Libera. Entrambi, non si accontentarono di vivere gli ultimi anni di attività professionale, all’ombra dei meriti acquisiti e di una solida carriera o al riparo delle organizzazioni o associazioni di categoria per dispensare lezioni, ma accettarono la sfida di Libera, dando vita all’esperienza di Libera Informazione.

Roberto e Santo avevano capito che se la strategia delle mafie era quella di rendersi “invisibili” per non attirare l’attenzione delle forze dell’ordine e delle istituzioni, c’era – e oggi c’è, più che mai, ancora – bisogno di un attento controllo da parte dei mezzi di comunicazione che, superata la logica emergenziale che si attiva in occasioni di delitti eccellenti o episodi eclatanti, potessero dare il giusto spazio e approfondimento al racconto delle mafie e, soprattutto, alla narrazione di un’Italia che al loro potere non s’arrende, ogni giorno, fondando sulla memoria delle vittime e sull’impegno nella formazione e per l’uso sociale dei beni tolti alle cosche le ragioni di una riscossa. Per questo lavorarono al progetto di Libera Informazione, fino alla fine della loro esperienza professionale e umana. Entrambi, di fronte al male inesorabile che li aveva aggrediti, non smisero mai di progettare futuro. 

Ecco perché questa giornata nazionale per la libertà d’informazione ha senso e ragione, soltanto se la viviamo insieme ai nostri caduti per la libera informazione.

Tratto da: liberainformazione.org

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