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utveggio-castello-padi Marco Bertelli - 25 aprile 2015
Il 23 maggio 2001 Gioacchino Genchi, vice-questore di Polizia e consulente dell’Autorità Giudiziaria, depose nel corso di un’udienza del processo di appello ‘Borsellino BIS’. In quella sede, Genchi illustrò in dibattimento la pista investigativa seguita nel 1992 assieme al capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera per individuare mandanti ed esecutori della strage di via D’Amelio. Si trattò di indagini coordinate dai PM Ilda Boccassini e Fausto Cardella della procura di Caltanissetta, all’epoca retta da Giovanni Tinebra. Nell’ambito di quel filone investigativo, Genchi e La Barbera cercarono di mettere a fuoco elementi ed indizi sugli autori della strage che rimandavano ed ambienti esterni all’organizzazione criminale Cosa Nostra e che con questa avrebbero potuto interagire nell’accelerazione della fase esecutiva della strage. Il filone di indagine subì una brusca battuta di arresto all’inizio del mese di dicembre 1992, nel momento in cui La Barbera fu inaspettatamente richiamato a Roma presso il Ministero dell’Interno e messo a disposizione.

Quando, su pressione di Boccassini e Cardella, La Barbera e Genchi furono nuovamente destinati dal Viminale ad occuparsi delle indagini sulla strage, i due funzionari di Polizia ripresero il loro lavoro formando il gruppo investigativo ‘Falcone-Borsellino’. Agli inizi di maggio 1993, tuttavia, Gioacchino Genchi decise di lasciare il gruppo in quanto non più in sintonia con le scelte operative prese da Arnaldo La Barbera, deciso a procedere con il fermo immediato di Pietro Scotto, sospetto autore dell’intercettazione telefonica abusiva sulla linea Fiore−Borsellino, e ad interrompere il lavoro investigativo in corso su Gaetano Scotto, fratello di Pietro e sospetto mafioso appartenente alla famiglia operante al rione Acquasanta di Palermo.

Sulla scorta dei numerosi interrogativi posti dalla Corte di Appello di Caltanissetta presieduta dal presidente Francesco Caruso dopo l’audizione di Genchi del maggio 2001, la procura di Caltanissetta sviluppava tutta una serie di indagini volte a verificare la fondatezza dell’ipotesi formulata dallo stesso Genchi: si trattava di indagare sul possibile coinvolgimento di soggetti istituzionali nella preparazione della strage di via D’Amelio e sui ‘buchi neri’ che ancora esistevano nella ricostruzione delle fasi esecutive del delitto.

Il 16 luglio 2008 la procura nissena guidata da Sergio Lari terminava le indagini a carico di ignoti sviluppate in seguito alle dichiarazioni di Genchi avanzando presso l’ufficio del GIP richiesta di archiviazione. La procura concludeva sostenendo che:


Volendo dunque trarre ragionevoli conclusioni in ordine ai fatti più specificamente trattati ed approfonditi nel presente procedimento è possibile affermare che nonostante i numerosi inquietanti interrogativi ancora irrisolti in relazione ai presunti contatti tra ambienti legati ai Servizi (presenti presso il castello Utveggio) e Cosa Nostra (tra i tanti si pensi alle dichiarazioni del FONTANA – Angelo, ndr – o ai contatti tra Gaetano SCOTTO e Vincenzo PARADISO), le indagini mirate a verificare sia la presenza di un vero e proprio centro SISDE (seppur riservato) presente presso il Castello Utveggio (nettamente negata da tutti i numerosi collaboratori di giustizia esaminati) ed una sua possibile ingerenza logistica (per controllare l’arrivo del magistrato o per azionare il telecomando) nella strage di via D’Amelio, hanno consentito di accertare come in realtà il CERISDI (Centro Ricerche e Studi Direzionali, ndr) non sia mai stata una società di copertura ma un ente realmente esistente e tuttora attivo nel campo della ricerca e della programmazione manageriale, e che il pomeriggio del 19 luglio 1992 nella torretta in uso al Corpo Forestale fosse realmente presente un operatore che nulla ebbe a che vedere con l’attentato di via D’Amelio.

La presenza presso il CERISDI di soggetti fortemente legati al SISDE (Salvatore COPPOLINO all’epoca in servizio al SISDE ed il prefetto VERGA già Alto Commissario per la lotta alla mafia), e le ulteriori congetture riferite dal GENCHI e per lo più smentite dagli approfondimenti investigativi (o comunque trovate prive di riscontro) non consentono, allo stato, in mancanza di fatti e prove concrete di ipotizzare un coinvolgimento dei servizi (deviati) nell’ideazione e/o nell’esecuzione della strage di via D’Amelio; le ipotesi, seppur suggestive (in quanto collegate ad una serie inquietante di indizi), di un interessamento di ambienti collegati ai Servizi di Informazione nella decisione della strategia stragista ed in particolare nell’uccisione del Dr. BORSELLINO (possibile ostacolo alla trattativa con Cosa Nostra), non hanno trovato adeguato supporto e riscontro nelle approfondite indagini volte a verificarne la fondatezza.

Ritenuto pertanto che non siano emersi elementi utili per l’identificazione di ulteriori responsabili della strage di via D’Amelio (in qualità di concorrenti morali – cosiddetti mandanti occulti), o comunque per l’ulteriore prosecuzione delle indagini preliminari; si chiede l’archiviazione del procedimento.[1]


Poche settimane prima che la Procura di Caltanissetta presentasse richiesta di archiviazione delle indagini sulla pista del Castello Utveggio, il nuovo collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza iniziava a rendere dichiarazioni ai magistrati nisseni sulla strage di via D'Amelio (26 giugno 2008). La procura guidata da Sergio Lari apriva un nuovo fascicolo d’indagine (procedimento penale N. 1595/08 Registro Generale Notizie di Reato, Mod. 21) ed accertava che le inchieste ed i processi già celebrati sulla strage erano stati inquinati dalle false collaborazioni di Vincenzo Scarantino, Salvatore Candura e Francesco Andriotta. Alla collaborazione con la giustizia di Spatuzza si aggiungeva, il 23 aprile 2011, quella di Fabio Tranchina.
Le dichiarazioni riscontrate di Spatuzza e Tranchina permettevano di evidenziare il pesante coinvolgimento della famiglia mafiosa del quartiere Brancaccio di Palermo nell’esecuzione della strage con particolare riferimento alle fasi preparatorie dell’autobomba utilizzata in via D’Amelio.

Nella richiesta di applicazione di misure cautelari avanzata dalla procura di Caltanissetta al termine delle indagini nate dalle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza e Fabio Tranchina (23 giugno 2011) i PM nisseni hanno scritto:

In ogni caso è bene ribadire, ancora una volta, che nella vicenda che ci interessa si è acquisita la prova (basata sulla sentenza passata in giudicato della Corte d’Assise di appello di Catania sui c.d. mandanti delle stragi del 1992 di cui si è già detto in altre parti di questa richiesta) che la deliberazione di uccidere il dr. Borsellino venne assunta a seguito di formali deliberazioni della commissione regionale e di quella provinciale palermitana di cosa nostra rispettivamente risalenti al settembre ed al dicembre del 1991.
Occorre quindi riaffermare che l’eventuale ruolo di soggetti esterni a cosa nostra potrebbe incidere soltanto sui tempi e le modalità di attuazione di una strage già programmata da parte dell’organizzazione criminale mafiosa.
Il tema in questione era stato affrontato da questa Procura prima che fossero avviate le indagini scaturite dalla collaborazione con la giustizia di Gaspare Spatuzza e si erano concluse nella primavera del 2008 con una richiesta di archiviazione avanzata nell’ambito del procedimento nato dalle dichiarazioni rese dal dott. Gioacchino GENCHI nel corso del processo c.d. Borsellino bis.
Tale richiesta non è stata ancora evasa dal G.I.P. del Tribunale di Caltanissetta, verosimilmente in attesa dell’esito delle nuove indagini notoriamente avviate da questa Procura.
La tesi del dott. GENCHI, come si sa, è che l’esplosivo possa essere stato innescato da un telecomando da parte di un soggetto che si trovava sul Castello Utveggio (sito sul Monte Pellegrino che domina Palermo) ritenuto sede occulta dei servizi segreti.
Come abbiamo visto, del resto, anche il dott. BORSELLINO – come ci ha indicato la moglie – temeva, durante gli ultimi giorni della sua vita, di essere controllato proprio da una postazione su Monte Pellegrino.
Detto questo, occorre però dire che le indagini svolte hanno fatto concludere per l’infondatezza della ricostruzione investigativa avanzata dal dott. GENCHI, che appare una delle tante “ipotesi investigative” prive di riscontro (e che, anzi, sembrano collidere con tutti gli altri elementi di prova raccolti) che vengono poi recepite sui mass-media come se fossero verità acquisite e che, invece, lungi dal fare emergere la verità, la coprono di una ulteriore cortina fumogena.[2]

In particolare la procura nissena, sulla base degli accertamenti condotti per riscontare le affermazioni di Gaspare Spatuzza e Fabio Tranchina, ha concluso che fu Giuseppe Graviano ad azionare il telecomando dell’autobomba e che quasi certamente ciò avvenne da dietro il muro che separava la fine di via D’Amelio da un retrostante giardino. Gli elementi di prova alla base di tale conclusione sono sostanzialmente tre:

a)    le dichiarazioni rese da Fabio Tranchina che ha affermato di aver fatto assieme a Giuseppe Graviano due sopralluoghi in via D’Amelio nelle settimane immediatamente precedenti alla strage.

In occasione del primo sopralluogo, Graviano chiese a Tranchina di reperirgli in modo ‘anonimo’ un appartamento nella stessa via D’Amelio.

Nel corso del secondo sopralluogo ed allorché mancavano pochi giorni al 19 luglio 1992, Graviano esternò a Tranchina la decisione di “adattarsi” e di posizionarsi nel giardino-agrumeto che separa in due tronconi via D’Amelio (“va bé addubbo ne iardinu”), avendo appreso dal Tranchina stesso che quest’ultimo non era riuscito a trovare un appartamento in affitto. Tranchina ha dichiarato: “… dice (Giuseppe Graviano, ndr) non andare nelle agenzie, dice se lo trovi privatamente, io non la trovai, perché ripeto non la cercai, perché ho detto ma io non l’ho trovata… perché sinceramente c’erano delle volte che mi… proprio mi asfissiava… mi asfissiava… pure di fesserie comunque mi asfissiava… quando poi, ehh poco tempo… prima di succedere diciamo, la strage di via D’Amelio perché dico poco tempo prima? Perché poi ehh il fatto è successo, ehhh lui mi chiese, ma l’hai trovata la casa? E io gli ho detto no… ci rissi Giuseppe viri che non ho trovato niente… dice va bè “adubbo na iardina”. [3]

b)    Le dichiarazioni rese dal collaboratore Giovanbattista Ferrante il quale ha affermato: “Da Salvatore Biondino oppure da Salvatore Biondo il ‘corto’ ho sentito dire che vi era il rischio che a seguito dell’esplosione il muro potesse rovinare addosso a chi aveva premuto il pulsante. Da tale frase ho tratto la supposizione che doveva esserci una certa vicinanza tra chi azionava il telecomando e il luogo dove era collocato l’ordigno o l’esplosivo”.[4]

c)   Il dato che la recinzione in rete metallica che delimitava via Morselli, parallela a via D’Amelio ed anch’essa tagliata dal giardino-agrumeto, fosse stata divelta in un angolo. Nei pressi di tale recinzione furono inoltre rilevate tracce di residuo di pneumatici e diverse impronte di calzature.[5]

Ai tre elementi indicati dalla Procura di Caltanissetta per sostenere che fu Giuseppe Graviano ad azionare il telecomando dell’autobomba da dietro il muretto che divide in due parti via D’Amelio, è possibile aggiungere un altro indizio: il 2 giugno 1992 la madre di Paolo Borsellino, Maria Lepanto, affacciandosi dal balcone del quarto piano di via Mariano D’Amelio, si accorse di movimenti sospetti di “gente strana” nel giardino adiacente al palazzo. Con una telefonata avvertì il figlio Paolo che invitò la polizia a dare un’occhiata. All’alba del giorno dopo arrivò sul posto una squadra di agenti guidati dal capo della mobile Arnaldo La Barbera. Gli agenti scoprirono alcuni cunicoli nascosti sotto il manto stradale con tracce di presenze recenti.[6]

La procura di Caltanissetta, riscontrando le dichiarazioni dei nuovi collaboratori Gaspare Spatuzza e Fabio Tranchina, ha dunque concluso che molteplici elementi fanno ritenere che Giuseppe Graviano si sia ‘accomodato’ nel giardino-agrumeto ed abbia da lì azionato il telecomando dell’autobomba che il 19 luglio 1992 uccise Paolo Borsellino ed i cinque agenti della scorta. Gli accertamenti espletati in fase d’indagine hanno inoltre permesso di mettere a fuoco un altro pezzo essenziale della fase esecutiva della strage, cioè il furto e l’allestimento della FIAT 126 utilizzata per compiere il crimine.

Se da un lato il lavoro dei PM nisseni ha permesso di definire segmenti fondamentali della dinamica delle strage, dall’altro lo stesso lavoro ha evidenziato in modo ancora più marcato i ‘pezzi mancanti’ della ricostruzione cronologica del delitto. Ad oggi, a ventidue anni di distanza dal fatto, non sappiamo ancora il nome della persona ‘esterna’ a Cosa Nostra che accolse Gaspare Spatuzza sabato 18 luglio 1992 nel garage di via Villasevaglios a Palermo al momento della consegna della FIAT 126 rubata da Spatuzza in prima persona.

“Nel magazzino dove consegnai la 126 trovai Renzino Tinnirello e un’altra persona che non rividi mai più − ha dichiarato Spatuzza −. L’ho sempre descritta come un negativo sfocato di una fotografia, non era un ragazzo forse sulla cinquantina ma posso dire al 100 % che non era persona di mia conoscenza e appartenente a Cosa Nostra”.[7]

Anche la dinamica della giornata di domenica 19 luglio 1992 non è del tutto chiara: non conosciamo l’identità di chi posizionò l’autobomba sotto la casa di Rita Borsellino ed alcuni passaggi del ‘pedinamento’ del giudice Borsellino da parte dei killer di Cosa Nostra restano tuttora oscuri.

Il collaboratore Giovanbattista Ferrante, incaricato il 19 luglio 1992 di telefonare ad un numero di cellulare per segnalare l’arrivo del corteo di auto del giudice Borsellino, ha dichiarato:

“Eravamo io, Salvatore Biondino e Giuseppe Graviano, quest’ultimo mi lasciò un bigliettino con scritto un numero di telefono. Il giorno della strage io mi trovavo a pattugliare via Belgio e dovevo avvisare del passaggio delle auto”.[8]

Dalle indagini è emerso che l’utenza telefonica chiamata da Ferrante era in uso all’epoca ad un altro boss di Cosa Nostra, Fifetto Cannella. Ferrante non è riuscito a chiarire i motivi che lo portarono domenica 19 luglio 1992 a fare ben quattro telefonate a quel numero che gli diede Graviano: una dopo la mezzanotte, due al mattino (alle 7.36 ed alle 9.46), e l’ultima al pomeriggio alle 16.52, della durata di sette secondi. Fu proprio quest’ultima, con ogni probabilità, la telefonata fatta per avvisare del passaggio della vettura di Paolo Borsellino. Un altro fatto ‘anomalo’ è che Ferrante utilizzò anche una cabina telefonica, sempre in via Belgio, per compiere un’ulteriore telefonata.
“Non ero sicuro di aver trasmesso l’ordine − ha raccontato Ferrante − e così chiamai dalla cabina”.[9]

La conclusione che sia stato con ogni probabilità Giuseppe Graviano ad azionare il telecomando dall’interno del giardino che chiude via D’Amelio pone ulteriori interrogativi: Graviano, per poter avere una visuale libera da ostacoli sul civico n. 19 di via D’Amelio da dietro il muretto che chiude la stessa via, avrebbe dovuto collocarsi ad una distanza così ravvicinata al punto dell’esplosione da rischiare di essere investito dall’onda d’urto conseguente alla detonazione. In alternativa, qualcuno avrebbe potuto segnalare a Graviano il momento in cui inviare il segnale di scoppio alla carica esplosiva da una postazione che potesse garantire una piena visibilità su via D’Amelio senza subire conseguenze dalla propagazione dell’onda d’urto dello scoppio.

In quest’ultima ipotesi, un individuo di vedetta di supporto a Graviano avrebbe potuto collocarsi sulla terrazza di un palazzo in costruzione a ridosso del giardino che taglia in due via D’Amelio. Il palazzo, edificato da una ditta dei costruttori Graziano di Palermo, fu oggetto di accertamenti da parte delle forze dell’ordine sia la sera del 19 luglio che i giorni immediatamente successivi: dai rilievi tecnici svolti il 19 luglio 1992 emerse la presenza sulla terrazza della costruzione di un vetro scudato appoggiato al parapetto della terrazza stessa, di alcune cicche di sigaretta per terra e di ventisei piante ad alto fusto. Nessuno di questi elementi, inspiegabilmente, diede luogo ad ulteriori approfondimenti investigativi. A ciò si aggiunga che le dichiarazioni di alcuni operatori delle forze dell’ordine intervenuti sui luoghi sono risultate lacunose e discordanti rispetto a quanto accertato dai rilievi tecnici.

genchi-gioacchino-c-barbagallo0Se dalle ipotesi investigative torniamo ai dati accertati durante le indagini ed i processi sulla strage, un fatto emerge comunque in maniera netta: non conosciamo ancora la dinamica completa dell’accelerazione della fase esecutiva della strage ed alcuni passaggi cruciali di domenica 19 luglio 1992. L’identità di chi collocò l’autobomba in via D’Amelio e le esatte modalità operative dei killer operativi nei pressi del luogo della strage sono ancora avvolte nel buio.

Una serie di indizi che avrebbero potuto aprire una breccia in questo cono d’ombra è stata fornita da Gioacchino Genchi (nella foto) che, nel corso di due audizioni in dibattimento e delle indagini condotte dalla procura nissena, ha esposto la pista investigativa che, assieme a La Barbera, seguì fino al mese di dicembre 1992, quando il capo della squadra mobile di Palermo fu richiamato a Roma. Si tratta a ben vedere di un insieme di elementi di indagine molto articolato ed ampio in cui l’ipotesi che l’autobomba potesse essere stata azionata dal castello Utveggio ha costituito solo un tassello.

Riteniamo opportuno riepilogare in questa sede alcuni dei principali spunti di indagine forniti da Gioacchino Genchi che hanno trovato pieno riscontro nelle indagini condotte dalla procura di Caltanissetta e che sono stati oggetto della testimonianza di Genchi al dibattimento in Corte di Assise ‘Borsellino QUATER’ (3 ottobre 2013). Particolarmente significativa è stata la ricostruzione fatta da Genchi relativamente a due temi di indagine connessi alla strage: la pista del castello Utveggio e gli accertamenti su Bruno Contrada.


La pista del castello Utveggio
viadamelio vistadalacastello 1Il castello Utveggio è un edificio che domina Palermo dalle pendici del Monte Pellegrino (foto a sinistra) ed è diventato negli il simbolo di quella parte di verità processuale che ancora manca sulla strage di via D’Amelio. E’ tuttavia fuorviante isolare questo elemento dagli altri spunti investigativi seguiti nel 1992 da Genchi e La Barbera. Il castello era un tassello di un’articolata pista investigativa all’interno della quale poteva fungere da punto di osservazione per osservare l’obiettivo da eliminare fisicamente in via D’Amelio: Paolo Borsellino e gli agenti della scorta. L’intuizione che da lì fosse stato premuto il comando della carica esplosiva costituiva un ulteriore passaggio di quell’ipotesi. Allo stato dell’arte, la Procura di Caltanissetta ha escluso quest’ultima possibilità in base ai riscontri effettuati, ma non ha raccolto sufficienti elementi per escludere in modo categorico l’ipotesi più ampia secondo cui le pertinenze del castello abbiano potuto fungere da luogo di osservazione e controllo degli eventi susseguitisi in via D’Amelio nel pomeriggio di domenica 19 luglio 1992.

Un’ipotesi investigativa strettamente collegata alla precedente è stata quella secondo cui l’ente di formazione CERISDI (Centro Ricerche e Studi Direzionali), collocato presso il castello Utveggio, avesse potuto ospitare eventuali attività di una base coperta del servizio segreto civile, il SISDE. Se è vero che la Procura di Caltanissetta ha escluso in modo netto questa eventualità in base agli accertamenti di Polizia Giudiziaria svolti, è altrettanto vero che manca un pezzo fondamentale per poter trarre conclusioni esaustive: non esiste nessuna relazione di servizio da parte delle forze dell’ordine sullo stato dei luoghi presso il Castello Utveggio nelle ore immediatamente successive alla strage.

Sul palazzo in costruzione dei fratelli Graziano la Procura ha recuperato un fascicolo contenente delle foto scattate sul luogo dalle forze dell’ordine nelle prime ore dopo la strage e ciò è stato di fondamentale importanza per tenare di fare il punto tra relazioni di servizio scomparse oppure contraddittorie con quanto osservato nelle foto. Invece, per quanto riguarda il castello Utveggio, non esiste nulla agli atti che sia stato redatto nelle prime fasi delle indagini.

Gioacchino Genchi, all’epoca vice-questore di Polizia, nel tardo pomeriggio di domenica 19 luglio 1992 si recò in via D’Amelio assieme al suo autista. Cercando un luogo da cui gli attentatori avessero potuto premere il telecomando dell’autobomba indisturbati, notò il crinale di Monte Pellegrino su cui sorge il castello Utveggio. Assieme al suo autista, decise di ispezionare quella costruzione e si avviò in macchina verso la sede del CERISDI. Giunto al cancello di ingresso della struttura, suonò il campanello ma nessuno rispose. Genchi ed il suo autista non poterono accedere al castello e fare gli accertamenti di polizia del caso:

viadamelio vistadalacastello 2Io mi sono recato sui luoghi subito dopo (ha dichiarato Gioacchino Genchi, ndr), perché è venuto a prendermi il mio collaboratore; siamo andati là, siamo saliti su a Castel Utveggio, abbiamo girato Monte Pellegrino, abbiamo guardato la zona intorno, i miei uomini... perché cercavamo una postazione di visualizzazione … perché da là … dalla strada … chiunque si fosse messo nella strada, a premere sarebbe saltato, guardi, cioè perché era tutto distrutto, tutto distrutto. Quindi ci voleva una postazione che garantisse anche di restare immuni all'esplosione. Eh, uno che si fa esplodere... perché non erano i kamikaze che avevano fatto l’attentato, erano persone che non erano andati... abbiamo visto se erano in ospedali, se erano al pronto soccorso, tutte queste attività le abbiamo subito fatte nell’immediatezza, e nessuno si era ferito, nessuno era morto, se non i poliziotti e il magistrato. Quindi chi ha premuto era in una postazione coperta, cioè ... è rimasto illeso … il posto, come abbiamo fatto guardando, doveva essere in un punto strategico, isolato, e quindi siamo saliti per la strada di Monte Pellegrino, ci siamo messi a guardare. Addirittura rischiavamo pure qualche incidente, perché è stretto … Io e un poliziotto, che non mi ricordo come si chiamava il mio autista in quel periodo, un ragazzo del Nucleo Anticrimine … andiamo ... guardiamo... guardiamo la strada, cioè ci fermiamo su più punti della strada, arriviamo davanti l’ingresso del cancello del castello, perché era il punto che ci portava nella proiezione, suoniamo e non ci aprono, e non... non aprono il cancello … Con i tabulati che avevamo acquisito, c’erano arrivati qualche giorno prima che io lasciassi il gruppo e quei tabulati potevano essere molto importanti, no? Perché dai tabulati telefonici del castello, se qualcuno telefona vuol dire che qualcuno c’era, e quindi se qualcuno c’era non ci ha aperto. Non mi risulta che questa verifica sia fra quelle che siano state fatte.[10]

Il guardiano in servizio presso castello Utveggio nel pomeriggio del 19 luglio 1992, Vincenzo Lamendola, ha testimoniato che nel periodo della strage il castello era presidiato da un servizio di vigilanza 24 ore al giorno.[11] Il giorno della strage, Lamendola era di turno al momento dello scoppio dell’autobomba e rimase al castello fino alle ore 23 quando gli fu dato il cambio dai due guardiani del turno di notte. Quando sentì il boato, Lamendola si recò sul torrione panoramico del castello e vide un ‘fungo’ di fumo alzarsi da una delle vie sottostanti a Monte Pellegrino. Il guardiano notò nella sottostante torretta in uso alla guardia forestale la presenza di una persona con cui scambiò qualche parola per capire cosa fosse successo.

L’interlocutore del Lamendola è stato identificato successivamente nell’operaio forestale Giovanni Citarda, in servizio il 19 luglio presso la postazione di Monte Pellegrino con lo scopo di scrutare l’orizzonte e segnalare alla centrale operativa eventuali focolai di incendio.

Lamendola ha inoltre affermato che il 19 luglio, intorno alle ore 21.00, ricevette la visita presso il castello Utveggio di un addetto del servizio di pulizie al castello che, saputo della strage, giunse a ‘fare compagnia’ al Lamendola stesso. L’addetto, di cui il guardiano non ricorda il nome, arrivò quella sera da Enna ed era parente di un poliziotto, Lavigna Leonardo, che ‘prestava servizio presso l’antimafia’.[12] Lamendola ha aggiunto che, a parte l’addetto già citato, non ricevette la visita di nessun’altra persona fino al sopraggiungere del cambio di guardia.

Il castello Utveggio, dunque, nelle ore immediatamente successive alla strage era presidiato, ma quando il vice-questore di Polizia Genchi ed il suo autista suonarono per accedere alla struttura non ricevettero alcuna risposta. Non fu pertanto possibile eseguire alcun accertamento sullo stato dei luoghi e sulle persone presenti all’interno della struttura.

Fra gli atti depositati dalla procura di Caltanissetta al termine delle indagini preliminari nel procedimento penale 'Borsellino QUATER', non figurano ulteriori accertamenti investigativi sui tabulati telefonici delle utenze attive presso il castello nella giornata di domenica 19 luglio 1992.

Non essendo stato possibile effettuare presso il castello Utveggio, domenica 19 luglio 1992, rilievi di Polizia sullo stato dei luoghi e sull'identità degli individui presenti presso l'edificio e non essendo state depositate agli atti ulteriori verifiche sui tabulati delle utenze attive, quel giorno, all'interno dell'edifico situato su Monte Pellegrino, risulta estremamente difficile trarre conclusioni
esaustive sull'identità di chi fu presente nelle pertinenze del castello nel pomeriggio della strage di via D'Amelio.

Un altro tema di rilevante interesse investigativo inerente alla pista del Castello Utveggio riguarda i tabulati di alcune utenze telefoniche a disposizione di personale operante all’interno della costruzione.

Nel corso del processo di appello ‘Borsellino BIS’ Genchi testimoniò che, indagando nel 1992 sui tabulati telefonici di un cellulare in uso a Gaetano Scotto, sospetto appartenente alla famiglia mafiosa del quartiere Arenella di Palermo, aveva individuato due telefonate di notevole rilievo investigativo. In particolare, in data 6 febbraio 1992 alle ore 14.28 l’utenza di Gaetano Scotto aveva contattato con una conversazione di due minuti e dieci secondi l’utenza n. 091/652XXXX intestata a Vincenzo Paradiso, installata presso quella che era all’epoca l’abitazione di Paradiso a Palermo. Subito dopo, alle ore 14.30, l’utenza di Scotto era entrata in contatto per tre minuti e nove secondi con il numero 091/637YYYY intestato al CERISDI. Alla data del 6 febbraio 1992 il Paradiso lavorava presso l’ente regionale CERISDI in qualità di collaboratore esterno.

In seguito all’audizione di Genchi del 23 maggio 2001 ed alla sentenza di appello ‘Borsellino BIS’, il PM riprese le indagini e la DIA di Caltanissetta individuò un cospicuo raggio di attività investigative aventi ad oggetto organismi e persone che potevano contare sulla disponibilità dei locali di Castello Utveggio. In merito alle due chiamate di Scotto del 6 febbraio 1992, la DIA nissena ipotizzò che esse fossero state tra loro collegate: in sostanza Scotto avrebbe cercato Paradiso presso la sua abitazione e non trovandolo, immediatamente dopo, avrebbe cercato di contattarlo sul luogo di lavoro. Paradiso fu sentito quale persona informata dei fatti nel maggio 2004 in relazione a tale circostanza, ma escluse tassativamente di conoscere alcun soggetto a nome Scotto e, in considerazione del lungo tempo trascorso, dichiarò di non saper spiegare le telefonate partite dall’utenza di Scotto.

Il PM di Caltanissetta iscrisse successivamente il nome di Vincenzo Paradiso nel registro degli indagati per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Paradiso fu nuovamente interrogato in data 11 novembre 2004. In quella sede Paradiso affermò di aver avuto con il CERISDI un rapporto di collaborazione nel 1991, di esser stato assunto nel novembre 1992 e di aver lavorato alle dipendenze di tale ente fino al 1999. Le dichiarazioni di Paradiso non prospettarono alcuna spiegazione dei due contatti telefonici con Gaetano Scotto il quale, interrogato a sua volta in posizione di indagato di reato connesso, si avvalse della facoltà di non rispondere.

La procura nissena, ritenendo gli elementi raccolti durante le indagini inidonei a sostenere l’accusa a carico di Vincenzo Paradiso in giudizio, chiese il 30 aprile 2005 l’archiviazione del procedimento. Il GIP Giovanbattista Tona, esaminata la richiesta della Procura, concluse che l’ipotesi accusatoria a carico di Paradiso non fosse sostenibile in dibattimento né suscettibile di ulteriori approfondimenti e dispose l’archiviazione del procedimento in data 14 maggio 2005.

Dal decreto di archiviazione di Tona si evince che le indagini non aveva evidenziato l’esistenza di alcun altro contatto di Paradiso né con Gaetano Scotto né con altri ambienti vicini a Cosa Nostra. Ciò emerse come dato accertato sia per il periodo di interesse investigativo (febbraio 1992) che nei mesi immediatamente successivi al primo interrogatorio di Paradiso da parte della Procura nissena (5 maggio 2004). Il GIP Tona pertanto osservava:

‘Rimane allora oscuro il motivo per il quale Scotto ebbe necessità di parlare anche per pochi minuti con un soggetto, che nessun contatto aveva avuto ed in seguito nessun contatto avrà con esponenti della criminalità organizzata e che al contempo nessun rapporto di altro tipo, ancorché lecito, aveva avuto e avrà poi con lo stesso Scotto’.[13]

Riguardo alle due chiamate partite dal cellulare di Gaetano Scotto il 2 febbraio 1992 non è possibile escludere alcuna ipotesi, compresa quella che una persona diversa dallo Scotto abbia cercato di contattare il Paradiso attraverso il cellulare dello stesso Scotto.

Al quadro degli accertamenti di polizia sui contatti Scotto-Paradiso si aggiunse un altro dato: da un’utenza installata nel castello per gli uffici del CERISDI e che era in uso a Salvatore Coppolino, ex ufficiale dei Carabinieri, risultavano essere partite diverse telefonate (una delle quali il 4/5/1992) verso utenze intestate alla G.A.T.TEL. s.r.l. (via Roma 467, Palermo) e alla G.U.S (via Roma 457, Palermo), società di copertura del centro SISDE di Palermo. Nel maggio 1992 Coppolino era qualificato come collaboratore esterno del CERISDI ed assistente personale del suo presidente, il prefetto ed ex Alto Commissario per la lotta alla mafia Pietro Verga.

Questi incroci fra tabulati telefonici avrebbero potuto trovare spiegazione nel fatto che Salvatore Coppolino era stato in passato operativo presso un’aliquota del SISDE. Tuttavia, al di là delle ipotesi investigative, non è stato possibile chiarire in modo definitivo ed univoco la ragione ultima di tali incroci presenti agli atti.

Ulteriori dati investigativi erano emersi dalle attività di Polizia Giudiziaria condotte da Gioacchino Genchi nei primi anni novanta, in particolare nelle indagini sull’omicidio di Ignazio Salvo e negli accertamenti sui tabulati dell’utenza cellulare in uso a Gaetano Scotto.
In fase di incrocio di alcuni dati di traffico telefonico nelle indagini sul delitto Salvo, Genchi rilevò infatti che anche il cellulare di Giovanni Scaduto, un boss di Bagheria poi condannato all’ergastolo per l’omicidio di Salvo ed in comunicazione con i mafiosi della cosca di Altofonte a loro volta in contatto con esponenti dei servizi segreti, aveva avuto dei contatti con il CERISDI.
In merito, invece, agli approfondimenti investigativi sul tabulato dell’utenza cellulare in uso a Scotto, Genchi ha dichiarato:

Analizzando il tabulato di Gaetano Scotto ... io trovai dei contatti telefonici devo dire, insomma, inquietanti con una serie di soggetti, dei medici, e dei medici che erano stati processi al maxiprocesso, uno dei quali era stato anche assolto, che nella ricostruzione della vicenda del maxiprocesso e poi dell'altro processo, "Golden Market", che si fece a Palermo tempo dopo ... proprio su queste collusioni tra criminalità organizzata in ambienti mafiosi, avvocatura, probabilmente anche settori della magistratura che non furono mai individuati o comunque solo in parte, poi, in alcuni stralci che finirono a Caltanissetta, però sicuramente dal contesto più immediato, Guttadauro e l’altro medico che adesso non ricordo come si chiamasse questo assolto, questo era... c’erano dichiarazioni che avrebbe fatto, addirittura, interventi chirurgici in una sua casa di Mondello, di fronte a un fosso... Romano, ecco, Romano. C’erano questi contatti telefonici di Scotto. Ora, per carità, poteva chiamare il professore... il dottore Romano perché stava male, tra l’altro era un bravo medico Romano, quindi le ragioni per cui si fa una chiamata possono essere tante, però fra i rapporti, fra i contatti di... di Scotto, in coincidenza, eh. C’erano questi, c’erano telefoni della Guardia di Finanza, cellulari, all’epoca il cellulare della Guardia di Finanza non è che l’aveva il finanziere o il maresciallo, il cellulare era di un soggetto che doveva essere titolato o che comunque aveva ruoli importanti nei servizi informativi.[14]

Per quanto riguarda la ‘pista del castello Utveggio’ nell’ambito delle indagini sulla strage di via D’Amelio, in conclusione, rimangono significative zone d’ombra su eventuali presenze, oltre a quelle già accertate, presso il Castello nella giornata di domenica 19 luglio 1992 e su alcuni incroci tra utenze telefoniche del CERISDI, utenze in uso ad appartenenti a Cosa Nostra ed utenze nella disponibilità di apparati istituzionali.

E’ ancora attuale, pertanto, la necessità da parte dell’Autorità Giudiziaria di approfondire le indagini per fare luce su questi angoli bui. Tale necessità risulta ancor più stringente alla luce della testimonianza di Agnese Borsellino la quale ha dichiarato:

“Mio marito, dopo l’incontro alla sala VIP (aeroporto di Fiumicino, 28 giugno 1992, ndr), non mi disse nulla che riguardava Ciancimino.

Ricordo, invece, che mio marito mi disse testualmente che ‘c’era un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello Stato’. Ciò mi disse intorno alla metà di giungo del 1992. In quello stesso periodo mi disse che aveva visto la ‘mafia in diretta’, parlandomi anche in quel caso di contiguità tra la mafia e pezzi di apparati dello Stato italiano.

In quello stesso periodo chiudeva sempre le serrande della stanza da letto di questa casa (l’abitazione del magistrato in via Cilea, ndr), temendo di esser visto da Castello Utveggio. Mi diceva: ‘Ci possono vedere a casa’”.[15]


Le indagini su Bruno Contrada
contrada-bruno-web4Il nome di Bruno Contrada, nel luglio 1992 alto funzionario del SISDE, comparve all’interno della pista investigativa seguita da Gioacchino Genchi e Arnaldo La Barbera già dai primi mesi dopo la strage di via D’Amelio. I due investigatori cominciarono ad eseguire, su delega della procura di Caltanissetta, una serie di accertamenti acquisendo i tabulati dell’utenza cellulare 0337/73XXXX in uso al dottor Contrada da cui risultava, fra l’altro, nella giornata di domenica 19 luglio 1992, una telefonata alle ore 17.00 diretta al centralino degli uffici SISDE di Palermo. Genchi e La Barbera proseguirono le indagini effettuando alla vigilia di Natale del 1992 una serie di interrogazioni al terminale della Polizia su Contrada, alcuni suoi familiari ed amici dell’epoca, tra cui Maria Poma e Gianni Valentino. Ma nello stesso mese di dicembre 1992 Arnaldo La Barbera fu trasferito, in modo del tutto inaspettato, da Palermo al Ministero dell’interno a Roma, senza incarico e senza funzioni, e le indagini subirono una brusca battuta di arresto.

Su pressione dei PM di Caltanissetta Ilda Boccassini e Fausto Cardella, Genchi e La Barbera furono nuovamente destinati dal Viminale ad occuparsi delle indagini sulle stragi del ’92, ma La Barbera, al ritorno a Palermo, puntò a chiudere le indagini sulla strage di via D’Amelio privilegiando la pista di Pietro Scotto, sospetto basista per l’intercettazione telefonica sull’utenza Fiore-Borsellino e destinatario di un provvedimento di fermo il 27 maggio del 1993. Genchi abbandonò il gruppi investigativo ‘Falcone-Borsellino’ ai primi dello stesso mese non condividendo il profilo che La Barbera aveva scelto di dare alle indagini procedendo con l’arresto di Pietro Scotto e bruciando le indagini in corso sul fratello Gaetano Scotto.

Tra il 1992 ed il 2002 il nome di Bruno Contrada è stato iscritto per tre volte sul registro degli indagati dalla DDA di Caltanissetta per il reato di concorso in strage con riferimento all’uccisione di Paolo Borsellino e degli agenti della sua scorta il 19 luglio 1992. Per tre volte l’ufficio del GIP di Caltanissetta ha disposto l’archiviazione della posizione di Contrada non avendo acquisito riscontri in ordine ad una condotta di qualsivoglia partecipazione di Contrada alla decisione, all’organizzazione ed alla realizzazione della strage. Il GIP ha disposto di archiviare la posizione dell’ex numero tre del SISDE il sette marzo 1995, il dodici giugno 1996 e l’otto gennaio 2002.

Nell’ultimo dei tre decreti il GIP Giovanbattista Tona ha riassunto gli elementi investigativi raccolti nel corso degli anni dagli inquirenti nisseni tra cui i tabulati dell’utenza cellulare in uso a Bruno Contrada con particolare riferimento alla giornata di domenica 19 luglio 1992. Il GIP Tona scrive:

Secondo quanto da lui (Bruno Contrada, ndr) dichiarato e verificato dalle investigazioni, era in ferie dal 12 luglio 1992 ed era tornato a Palermo. Egli ha riferito (verb. 3/4/1994) che il 18 luglio rimase in casa tutto il giorno perché afflitto da eritema solare; la domenica 19 era uscito di casa nella tarda mattinata, si era recato a prelevare la sua amica Maria Poma e si era con lei diretto al porto di Palermo, dove aveva appuntamento con il suo amico Gianni Valentino e sua moglie per una gita in barca. Erano partiti intorno alle 13 e sulla barca, oltre a Contrada, la Poma, Valentino e la moglie c’erano anche due marinai. Valentino aveva frattanto preso appuntamento con un altro funzionario del SISDE, di cui si è parlato nel paragrafo precedente, il dott. Narracci, il quale quello stesso giorno sarebbe uscito in mare a bordo della sua barca.

Dalle indagini emerge un risalente rapporto di amicizia tra Contrada ed il Valentino; risulta anche che quest’ultimo mantenga frequenti contatti con altri esponenti del SISDE, come ad esempio si ricava non solo dalle agende dello stesso Contrada, ma anche dai tabulati telefonici intestati al Valentino e all’esercizio commerciale di Palermo, di cui è titolare (“LE.GI.” di Valentino s.r.l.) (nota del gruppo “Falcone e Borsellino” del 30/9/1997). Valentino inoltre era persona nota al collaboratore Calogero Ganci, che lo ha indicato come soggetto al quale esponenti della sua cosca in più occasioni si rivolsero per accedere ai favori del personale di Polizia (tra i Ganci e Valentino risultano frequenti contatti nel 1991; cfr. nota del gruppo “Falcone e Borsellino” del 30/9/1997).

Effettivamente dai tabulati relativi all’utenza del Valentino si ricava che il giorno della strage alle ore 12,46 egli aveva telefonato ad un’utenza cellulare intestata ad una società di copertura del SISDE ed in uso al dott. Narracci. Appena un minuto prima da quella stessa utenza, Narracci aveva effettuato una breve telefonata a Contrada.

Secondo il racconto di Contrada, l’incontro tra i due natanti avvenne al largo; nell’imbarcazione di Narracci, oltre a quest’ultimo, stavano il cap. Paolo Zanaroli e altre due ragazze. Quindi pranzarono tutti insieme sulla barca di Valentino. Nel primo pomeriggio Narracci e Zanaroli si allontanarono per accompagnare le due ragazze che erano con loro e ritornarono alle 16 circa. Ad un certo punto – prosegue Contrada – ‘è pervenuta ad uno dei cellulari in possesso del Valentino una telefonata della figlia di questi che lo avvertiva del fatto che a Palermo era scoppiata una bomba e comunque c’era stato un attentato. Subito dopo il Narraci, credo con il suo cellulare, ma non escludo che possa anche avere usato il mio, ha chiamato il centro SISDE di Palermo per avere informazioni più precise. Dapprima l’operatore che ha risposto non ha saputo dare alcuna indicazione. Successivamente si sono susseguite alcune telefonate su cui non riesco ad essere più preciso, forse anche con la Questura, di seguito alle quali abbiamo appreso che la vittima era stato il dott. Borsellino e che il luogo dell’attentato era via D’Amelio (…). Subito dopo Zanaroli e Narracci andarono via ed io pregai il Valentino di accompagnarmi a riva. Giungemmo a riva, grosso modo, alle 18,30. Con la mia auto, dico meglio, con la Panda del SISDE di Palermo che avevo in uso, accompagnai la Poma a Mondello. Ritornai quindi a casa mia a cambiarmi e venni lì prelevato da un’auto del SISDE con personale del servizio da cui fui accompagnato, dapprima al centro SISDE in via Roma dove mi incontrai con Narracci insieme al quale (c’erano con noi altri due dipendenti del SISDE) ci recammo in via D’Amelio’.

Contrada ha comunque escluso che dalla barca avessero visto o percepito alcunché di quanto stava avvenendo in città, prima di ricevere la telefonata della figlia di Narracci.

Ha poi indicato l’orario in cui arrivò per la prima volta in via D’Amelio nelle ore 22,30 circa, precisando che, a causa del traffico fattosi caotico, molto tempo fu da lui impiegato per tutti quegli spostamenti. “Ero con Narracci in veste ufficiale, per cui superai il cordone di sbarramento delle forze di polizia. Mi trattenni sul posto circa un’ora…”.

Pienamente sovrapponibile a quella di Contrada è la ricostruzione fornita da Narracci sulla giornata  del 19/7/1992.

Parzialmente difforme invece quella del Cap. Paolo Zanaroli, il quale ha affermato che sulla barca di Narracci erano presenti solo loro due, nulla riferendo in ordine alle loro accompagnatrici; ha inoltre sostenuto che dalla barca sentirono l’esplosione e videro muoversi in velocità un furgone dei CARABINIERI verso il centro di Palermo. A questo punto sarebbe stato Contrada a telefonare al 113 e al Centro Operativo SISDE di Palermo attraverso il cellulare di Narracci per avere notizie sull’accaduto, senza tuttavia ancora sapere nulla della morte di Borsellino. Zanaroli ha sostenuto di avere anche lui telefonato con il cellulare di Narracci al 112 e ha dichiarato che Contrada era sprovvisto di telefono e che non usò quello di Valentino.

Ha confermato invece che egli e Narracci si allontanarono con la loro barca per dirigersi subito sul posto; lì essi si attivarono per le prime indagini. Zanaroli ha escluso di aver visto Contrada sul luogo della strage.

In realtà risulta con certezza che Zanaroli giunse sui luoghi il giorno della strage di via D’Amelio dopo poco tempo, ma il suo comportamento sul posto aveva sollecitato l’attenzione degli inquirenti per un particolare episodio; egli aveva difatti consentito senza alcun plausibile motivo che accedesse al luogo del delitto e che assistesse a conversazioni relative alle modalità di indagine tale Roberto Campesi, sedicente ex carabiniere dei gruppi speciali, sedicente collaboratore dei servizi segreti, il quale aveva intessuto con lui e con altri esponenti delle forze dell’ordine rapporti di frequentazione e di asserita collaborazione (anche quale animatore della fondazione “Antonio Montinaro” da lui costituita allo scopo di sensibilizzare le autorità a far luce sulla strage di Capaci), ma che era soggetto comunque privo di qualsiasi titolo per partecipare alle attività in corso.

Dall’esame dei tabulati telefonici non risulta, come asserito da Zanaroli, che dall’utenza cellulare di Narracci siano state effettuate chiamate né al 112 né al 113 subito dopo le ore 16,58 del 19/7/1992 (cfr. nota del Gruppo investigativo “Falcone e Borsellino” del 13/9/1993).

Risulta invece che Contrada con l’utenza cellulare n.0337/73XXXX ha intrattenuto una conversazione telefonica con l’utenza installata presso al propria abitazione dalle ore 15,56 per circa due minuti e con l’utenza di Maria Poma dalle ore 18,06 per un minuto e venti secondi. Si evince inoltre che alle ore 17,00 e alle ore 17,51 Contrada ha chiamato il centralino del centro SISDE di Palermo (nota della Questura di Palermo in data 19/5/1993).

Inoltre dall’utenza di Valentino risultano essere partite una telefonata alle ore 17,52 verso il 112 (Pronto intervento dei Carabinieri) e alle 17,54 verso l’utenza del centro SISDE di Palermo.[16]

Il giornalista Marco Travaglio ha riepilogato i fatti in modo particolarmente efficace:

Dunque, in 100 secondi, accadono le seguenti cose: la bomba sventra via D’Amelio; un misterioso informatore (Contrada dice la figlia dell’amico) afferra la cornetta di un telefono fisso (dunque non identificabile dai tabulati), forma il numero di Valentino e l’avverte dell’accaduto; Valentino informa Contrada e gli altri; Contrada afferra a sua volta il cellulare, compone il numero del Sisde e ottiene la risposta dagli efficientissimi agenti presenti negli uffici (solitamente chiusi la domenica, ma guarda caso affollatissimi proprio quella domenica).

Tutto in cento secondi. Misteri su misteri. Come poteva la figlia di Valentino sapere, a pochi secondi dal botto, che – parola di Contrada – “c’era stato un attentato”? Le prime volanti della polizia giunsero sul posto 10−15 minuti dopo lo scoppio. E come potevano, al centro Sisde, sapere che era esplosa una bomba in via D’Amelio già un istante dopo lo scoppio? Le prime confuse notizie sull’attentato sono delle 17:30. Le sale operative di Polizia e Carabinieri parlavano genericamente di “esplosione” e di “incendio nella zona Fiera” fino alle 17:10 – 17:15 senz’aver ancora individuato il luogo preciso, forse a causa dell’isolamento dei telefoni dei condomini adiacenti, coinvolti nell’esplosione. Valentino e Contrada, però, in alto mare, pochi secondi dopo le 17 già sapevano tutto: “Attentato”.[17]

Bruno Contrada, oltre ad esser stato indagato ed archiviato dall’Autorità Giudiziaria di Caltanissetta per il reato di concorso in strage, è stato indagato, rinviato a giudizio e condannato a dieci anni di reclusione dall’Autorità Giudiziaria di Palermo per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. La condanna a carico di Contrada emessa dalla Corte di Appello di Palermo il 25 febbraio 2006 è stata confermata in via definitiva dalla Corte di Cassazione il 10 maggio 2007.
Il 14 aprile 2015 la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha stabilito che Contrada non poteva esser condannato per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa in quanto il reato, all’epoca cui risalgono i fatti (fra il 1979 e il 1988), non “era sufficientemente chiaro e prevedibile” e Bruno Contrada “non poteva conoscere nello specifico la pena in cui incorreva per la responsabilità penale che discendeva dagli atti compiuti”. La Corte europea, però, non ha messo in discussione i fatti e le prove in base a cui l'Autorità Giudiziaria italiana ha giudicato Contrada colpevole del reato di concorso esterno in associazione mafiosa.

Gioacchino Genchi ha delineato nel corso dell’udienza del processo ‘Borsellino QUATER’ del 3 ottobre 2013 la pista investigativa che seguì assieme a La Barbera nell’autunno 1992 e che vedeva Bruno Contrada come ‘bersaglio principale’ delle indagini sulla strage di via D’Amelio:

TESTE GENCHI G. − … Voi andatevi a guardare le interrogazioni che furono fatte al terminale della Polizia alla vigilia di Natale su tutta una serie di soggetti ben precisi, tra cui Contrada, alcuni familiari, una sua amica dell’epoca, la signora Maria Poma, un suo amico, Valentino, alcune evidenze che avevamo anche di rapporti di Valentino con... con i Ganci. Insomma, già avevamo acquisito un certo materiale per approfondire, diciamo, una certa ipotesi che poi fu, sotto certi aspetti, enfatizzata, sotto certi altri anche banalizzata con il Castel Utveggio come esempio; ma insomma, il Castel Utveggio era solo uno dei mille punti di quella... di quella indagine. E arriva, dopo che era stato arrivato il mio trasferito già a ottobre al Reparto Mobile, arriva il trasferimento inaspettato di La Barbera al Ministero dell’Interno, senza incarico e senza funzioni. Cioè viene decapitato, sostanzialmente, l’ufficio investi… io già ero stato trasferito e i magistrati mi hanno detto: ‘Genchi, non ti preoccupare, tu hai le consulenze, lavora come consulente, ti organizzi in privato − cosa che ho fatto, infatti da allora io iniziai ad organizzarmi in privato − e vai avanti lo stesso’, quindi il problema non si poneva; posto che io già utilizzavo le mie strutture per fare il mio lavoro. Il problema però La Barbera non è che poteva fare il consulente. Se a La Barbera gli tolgono la Squadra Mobile, gli tolgono la macchina, il telefonino, l’ufficio, il personale, il telefono, tutto. Quindi dall’oggi al domani noi abbiamo passato il Natale più brutto, almeno io, della mia vita, con le nostre famiglie, che è stato quello del '92, quando poi apprendemmo dell’arresto di Contrada, perché la Procura di Palermo contemporaneamente mandò avanti la misura cautelare nei confronti di Contrada, che noi sapevamo essere imminente. Questo, basta.

P.M. Dott. GOZZO − Ma mi scusi la domanda, visto quello che lei ci ha riferito fino ad ora: ma voi non avevate la piena fiducia del capo della Polizia?

TESTE GENCHI G. − Eh, però...

P.M. Dott. GOZZO − Sia lei che...

TESTE GENCHI G. − Eh, capo della Polizia che io dopo la lettera di giugno, etc...

P.M. Dott. GOZZO − ...il dottore La Barbera.

TESTE GENCHI G. − ...non ho né più visto, né più sentito, non mi ha chiamato, cioè io non sono mai andato dal capo della Polizia senza essere convocato. Io ho capito che qualcosa era cambiato. Poi ho saputo che anche il capo della Polizia era stato, tra virgolette, commissariato, e le dico come: perché...

P.M. Dott. GOZZO − E anche da chi, allora, se lo sa.

TESTE GENCHI G. − Certo, è chiaro, è chiaro. Perché intanto i magistrati di Caltanissetta avevano sentito il capo della Polizia e il Ministro dell’Interno e so che al Ministero si erano lamentati molto per l’incisività con cui il dottor Petralia aveva fatto domande, diciamo, piuttosto pressanti sul famoso presunto incontro di Mancino con... con il dottor Borsellino e ancora di più, ed era ancora forse più importante nell’economia della vicenda, se fosse presente anche il dottore Contrada. Tenga conto che io già dai tabulati avevo già riscontrato che il dottore Contrada in quei giorni era a Roma. Dico, non avevo la prova che fosse al Ministero dell’Interno, però poi dall’economia complessiva dei contatti telefonici e anche di un contatto telefonico prima della... della strage con un soggetto legato ai Servizi, che conosceva e che era anche in rapporti con Contrada e di Borsellino, io poi lo trovai nei tabulati. Ma andiamo al dunque: La Barbera viene trasferito, noi siamo senza ufficio, senza nulla, ci riuniamo a casa mia come i carbonari, venivamo a Caltanissetta. Caltanissetta decide: ‘Lei proceda con le consulenze, noi vi diamo delle deleghe ad personam’. Ci danno delle deleghe ad personam, voi trovate agli atti, fine dicembre del 1992, delle deleghe con cui i magistrati della Procura Distrettuale Antimafia di Caltanissetta, Boccassini, Cardella, con il consenso del Procuratore capo, perché è bene che le cose si precisino tutte, poi si deve avere la capacità di fare i distinguo quando sono necessari, però quando si riferiscono, vanno riferite tutte. Con il consenso pieno del Procuratore capo della Repubblica di Caltanissetta ci danno delle deleghe ad personam con cui noi mettiamo con le spalle al muro il Ministero dell’Interno. Cioè noi, da poliziotti, avevamo delle deleghe che ci consentivano di disporre della Polizia Giudiziaria e di operare nella piena legittimità delle funzioni di un ufficiale di Polizia Giudiziaria, con l’accesso ai terminali del Ministero dell’Interno, fuori dagli uffici istituzionali nei quali eravamo preposti. In primis Arnaldo La Barbera, che non aveva nemmeno nessun ufficio fisico. Da qui e solo da questo nascono i gruppi Falcone−Borsellino, perché sia chiaro. Non esiste nella storia della Polizia di Stato che si crei un gruppo di indagine, non esiste. Quel gruppo è nato perché è stato scardinato l’ufficio investigativo con la struttura che se ne occupava ed è nato perché il Ministero dell’Interno è stato messo con le spalle al muro dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta, che ci ha dato grande sponsor, grande solidarietà, Cardella e Boccassini, con deleghe ad personam, e il Ministero dell’Interno è stato costretto a fare buon viso a cattivo gioco e a prendersi questo gruppo. La Barbera viene convocato a Roma, e adesso rispondo alla sua domanda, ritorna e mi dice: ‘Gioacchino, lascia perdere te, perché capisci, ‘sta storia di Falcone li ha fatti incazzare, dei computer, ma con me non c’hanno niente. Il problema è un altro: i Carabinieri hanno fatto grossi passi avanti − mi segua bene, queste sono testuali parole, eh? − i Carabinieri hanno fatto grossi passi avanti, hanno... − siamo ai primi di gennaio del 1993 − hanno la soluzione di tutto. La Polizia, purtroppo, a Palermo per i prossimi anni dovrà fare un passo indietro. Quindi non è un discorso riferito a me, convinciti’. Lui era stato a Roma, non mi ha detto con chi ha parlato, né io ho chiesto, perché a La Barbera non bisognava chiedergli nulla, se ti diceva le cose, te le diceva, senno era inutile insistere.

P.M. Dott. GOZZO − Siamo prima della cattura di Totò Riina, chiaramente.

TESTE GENCHI G. − Esatto. Io gli ho detto: ‘Dottore, guardi, io non mi convinco, perché qui questi signori hanno cambiato registro, esattamente da quando è cambiato il Governo. Le cose non sono più come prima, e l’abbiamo visto, lo notiamo nelle cose più semplici, non c’è più quella tensione, non c’è più quella forza, quella volontà che c’era prima’. ‘No, guarda, non è così’, dice, ma... Avevano nominato un dirigente della Squadra Mobile, che era il dottor Mulas, che venne a Palermo, senza nessuna esperienza, ovviamente, della... della realtà, delle problematiche locali, che assunse la direzione della Squadra Mobile e che non aveva nessun rapporto con La Barbera e La Barbera non aveva nessun rapporto con Mulas. Per cui li costringiamo a darci degli ufficietti al piano di sopra della Squadra Mobile, alla Criminalpol, dove, appena arrivati, ci accorgiamo che lasciavamo le carte in un modo e le trovavamo messe in un altro; e appena approfondiamo il fronte Contrada, le dico tanto per darle un esempio, me lo ricordo perfettamente, il primo che individuiamo che è nei rapporti con Contrada era un ispettore della Squadra Mobile che era stato... si chiama Siracusa, che era stato un vecchio collaboratore di Contrada, che era nella stanza accanto alla nostra, che è il primo che siamo costretti ad intercettare nella stanza accanto. Quindi una delle prime intercettazioni che si fanno è quella dell’ispettore Siracusa, che è nella stanza accanto alla nostra, dove noi dovevamo lavorare. Questo tanto per darvi un ordine di idee del contesto, diciamo, dell’ambientino, diciamo, nel quale noi operavamo in quei giorni di... del primo avvio dei gruppi di indagine, dove io porto personale di mia fiducia, La Barbera si porta i suoi da Venezia, che avevano lavorato con lui; poi, insomma, vedremo anche alcuni particolari. Io segnalo alcune intercettazioni, una delle più importanti era quella di Maria Poma, che era la donna di Contrada, era un punto di riferimento importante dei rapporti di Contrada, abitava al palazzo... piazzale Ungheria, quindi intercettiamo questa, trovo i numeri, trovo i contatti telefonici, etc., non so per quanto tempo questi mi intercettano un numero sbagliato e non mi dicono niente. Io, ovviamente, non è che andavo in sala ascolto a mettermi le cuffie, cioè io... le seguiva il personale ‘ste cose. Ovviamente quando me ne sono accorto che questi stavano intercettando da non so quanto tempo una persona che non c’entrava niente con Maria Poma e non se n’erano accorti e non me l’avevano detto, e per me quella era l’intercettazione più importante, se lei pensa che noi trovavamo Contrada che al telefono diceva qualcosa, insomma, penso che significa offendere l’intelligenza di Contrada solo a pensarla una cosa del genere, quindi dovevamo girargli intorno per cercare di capire se c’era qualcuno o qualcosa. Guardate, ci sono i decreti di questo che vi sto dicendo, quindi tutto quello che dico io è perfettamente riscontrato nei... negli atti, non ricordo esattamente i tempi, i giorni, ma la circostanza è sicuramente quella che vi ho detto. Ovviamente io salto dalla sedia.

Quindi quei gruppi nascono per questa forte volontà della Procura di Caltanissetta di andare avanti.

P.M. Dott. GOZZO − Scusi, posso farle una domanda prima che andiamo avanti?

TESTE GENCHI G. − Certo, si, mi scusi se mi sono...

P.M. Dott. GOZZO − Come lei stesso ha ricordato poco fa, Contrada era stato arrestato nel dicembre del 1992. Quindi queste intercettazioni proseguono anche successivamente, diciamo, all'arresto di Contrada?

TESTE GENCHI G. − No, sono successive queste intercettazioni.

P.M. Dott. GOZZO − Sono successive e riguardano l’entourage di Contrada, diciamo cosi.

TESTE GENCHI G. − Certo, è chiaro, Contrada non lo potevamo più intercettare.

P.M. Dott. GOZZO − E’ chiaro, insomma, è abbastanza difficile.

TESTE GENCHI G. − Noi dovevamo cogliere nel suo...

P.M. Dott. GOZZO − O almeno in carcere, insomma.

TESTE GENCHI G. − No, poi li non potevamo sovrapporci con la Procura di Palermo, non... contavamo di acquisire le agende, contavamo di fare tante cose, se solo avessimo continuato; però poi, ovviamente, tutto si appiattisce su Scarantino, per cui alla fine si scarantinizza tutto, quindi alla fine, insomma, che senso aveva Contrada o altro? Scarantino aveva risolto il problema, quindi che bisogno c’era di cercare...?

P.M. Dott. GOZZO − Scarantino, se lei parla della collaborazione siamo nel ‘94, qua...

TESTE GENCHI G. − Certo, però nel senso, voglio dire, dalla vicenda della macchina, con quello che poi ne consegue e con le accelerazioni successive anche al mio lavoro, nell’ipotesi delle intercettazioni, non mi riferisco al fermo, al fermo di Scotto, insomma, il problema è...

P.M. Dott. GOZZO − Ma non l’aveva fatta lei la consulenza sulle intercettazioni?

TESTE GENCHI G. − Io avevo fatto là una prima relazione e poi una seconda, avevo fatto tutta una serie di accertamenti piuttosto attenti, meticolosi, avevo anche razionalizzato le informazioni testimoniali dei familiari, che descrivevano perfettamente il fenomeno, però...

P.M. Dott. GOZZO − Stiamo parlando del numero di telefono della casa...

TESTE GENCHI G. − Si, il telefono fisso di casa della signora...

P.M. Dott. GOZZO – Fiore-Borsellino.

TESTE GENCHI G. − ...Fiore-Borsellino, dove abitava la mamma del dottor Borsellino e dalla cui utenza si sarebbe potuto apprendere della... delle notizie degli spostamenti del magistrato nella visita alla madre, in quel rinvio della visita cardiologica che c’era stata. Ma questo, ovviamente, è un dato che voi ben conoscete, quindi... Il dato certo è che da quel numero si sarebbe potuto... dalla ricostruzione che si era fatta, dall’intercettazione di quel numero si sarebbe potuto sapere perfettamente quando, come il dottor Borsellino si sarebbe recato in via D’Amelio e organizzare l’attentato. Quindi quello era l’elemen... Perché l’attentato si fa perché c’è l’esplosivo, però occorre anche un elemento di... informativo, di conoscenza, perché altrimenti non si può organizzare dal punto di vista sincrono l’esplosione di quell’esplosivo con... con il resto, cioè non è che uno può restare lì con il joystick, aspetta che arriva, aspetta che arriva; in un luogo peraltro che non è l’abitazione di Borsellino. L'avessero fatto in via Cilea, dove abitava Borsellino, o in Procura o in un percorso obbligato, come è stato per altri, tipo per Chinnici, questo elemento informativo poteva anche non esserci, ma in Borsellino l’elemento informativo era tanto importante, se non più importante dello stesso esplosivo che è stato utilizzato per ottenere la deflagrazione. Questa era l’ipotesi di...

P.M. Dott. GOZZO − Si, quindi io quello che non riesco a capire è questo: cioè lei fa queste due consulenze; da queste due consulenze emerge cosa?

TESTE GENCHI G. − Dalle due consulenze emerge che venivano riscontrate tutta una serie di anomalie che i familiari, sentiti attentamente, avevano escusso.

P.M. Dott. GOZZO − Anomalie di tipo tecnico stiamo parlando?

TESTE GENCHI G. − Anomalie nel telefono, i famosi trilli quando il telefono era chiuso, l’abbassamento della telefonia, della fonia telefonica quando si parlava, quindi c’è tutta una casistica anche nella struttura dei cavi, negli armadi, nei box, tutto ciò che ha fatto parte del... E che porta, poi, all’individuazione di Scotto con quello che ne consegue.

P.M. Dott. GOZZO − Pietro Scotto stiamo parlando?

TESTE GENCHI G. − Pietro Scotto. Con l’attivazione, mi pare, di un servizio di intercettazione del microtelefono che lui utilizzava per telefonare dalle varie cabine, veniva seguito, cioè un’ipotesi di lavoro importante che poi viene accresciuta dal fatto che ci vengono comunicati i dati della Procura di Palermo sulla collaborazione di Lo Forte, quindi su un episodio precedente che aveva coinvolto il fratello, si acquisiscono tutta una serie di informazioni...

P.M. Dott. GOZZO − Il fratello di Pietro Scotto?

TESTE GENCHI G. − Di Pietro Scotto, si. E c’è, quindi... diventa quella un’ipotesi di lavoro importante, ma un’ipotesi di lavoro. Ipotesi di lavoro che avrebbe potuto portare a chiarirla, nel senso di definirla per quella che era la compiutezza che avrebbe potuto avere o escluderla. Che non poteva sicuramente essere bloccata, perché la cosa più importante lì era l'indagine, no, gli indizi che erano stati acquisiti o gli elementi che erano stati acquisiti, che viene bloccata dall’accelerazione che viene imposta nel fermo da parte della Criminalpol, all’epoca mi pare la dirigesse proprio il Prefetto Rossi, che è rimasto vivo fra tutti, che era quello con cui interloquiva il dottor La Barbera, l’accelerazione nel fermo di Scotto. Che io non condivido assolutamente; come non condivido l’abbassamento, diciamo, di attenzione sui grandi temi. E già più volte ne avevo parlato con La Barbera, gliel’avevo contestato, poi la vicenda dell’intercettazione di Maria Poma, tanto per darvene una, poi c’era l’accertamento, la verifica che si stava facendo sul Castel Utveggio, si stava vedendo se avevano spostato le apparecchiature, chi c’era, chi non c’era; c’erano ex appartenenti all’Alto Commissario, un ex ufficiale dei Carabinieri, un ex militare o ancora militare, non so quale fosse la sua effettiva situazione, perché...

P.M. Dott. GOZZO − I nomi li può riferire? Perché sono tutti agli atti, quindi non...

TESTE GENCHI G. − Uno si chiama Coppolino, l’altro si chiama non mi ricordo come; il padre lo conobbi perché era l’addetto militare del Ministro Mattarella.

P.M. Dott. GOZZO − Si.

TESTE GENCHI G. − Una persona molto perbene, distinta, che incontravo sempre in Prefettura alla festa del 2 giugno, un signore alto. Il figlio non l’ho mai conosciuto, questi protagonisti in viso non li ho mai visti, questi di cui le sto parlando. Mentre stavamo facendo questi accertamenti, io ricordo dovevo partire per Roma, ritardai, persi l’aereo, quindi tornai in ufficio, dove nessuno mi aspettava, e vidi salire le scale al Prefetto Verga, che andava da La Barbera. E al che dissi: ‘Ma scusi, che ci fa il Prefetto Verga qua?’ ‘No − dice − abbiamo chiamato, così mi faccio spiegare tutta una serie di cose su...’ Ma noi stiamo facendo le indagini sul castello, su chi c’è, su chi non c’è, e chiamare il Prefetto Verga qui a chiedere, ce lo facciamo spiegare da lui? Cioè, ma...

P.M. Dott. GOZZO − E il Prefetto Verga cosa c’entrava con il Castel Utveggio?

TESTE GENCHI G. − E il Prefetto Verga era... il Prefetto Verga era ex Alto Commissario ed era il responsabile, diciamo, era il capo di questa struttura lì al Cerisdi, era stato trasferito...

P.M. Dott. GOZZO − Eh, questo per riuscire a fare capire alla Corte.

TESTE GENCHI G. − Perché lui è una degnissima persona, perché sia chiaro, perché non vorrei adesso... non c’era nessun sospetto che il Prefetto Verga avesse fatto l’attentato o... c’erano le ipotesi di lavoro che si stava vagliando, stavamo facendo una serie di acquisizioni sul castello, statuti, Cerisdi, non Cerisdi, Fondazione, cioè si stava acquisendo tutto a livello documentale, Camera di Commercio, banche dati, c’era... c’era un lavoro in corso che è tutto documentato, diciamo, agli atti. Che motivo c’era di chiamarsi il Prefetto Verga e farsele raccontare da lui le cose? E La Barbera anche lì risponde con i gargarismi quando io gli contesto. Perché io parlavo con il lei con La Barbera, però non è che gliele mandassi a dire le cose, gliele dicevo. Finché lui, tornando da Roma, tutto contento: ‘Gioacchino, adesso basta, per te c’è la promozione assicurata, qua andiamo avanti, ora si ferma Scotto, chiudiamo intanto così, vedrai che poi, dopo, questo parla e noi arriviamo anche altrove; anche tutte le cose che stiamo facendo vedrai che verranno fuori, perché non può che essere collegato. − Dice − A me mi fanno Questore, mi hanno anticipato che mi promuoveranno Questore − dice − per te c’è la promozione per merito straordinario, tu devi rientrare nei ranghi, tutti ti vogliono bene al Ministero’ e così via. Insomma, c’è stato uno scontro per tutta la notte in cui si è parlato di tutto, anche di vicende personali, di come lui aveva trattato la mia... la mia amica. Insomma, poi si entrò anche su... su temi complessivi, lui pianse a dirotto quella notte, proprio... sembra strano, ma le assicuro che La Barbera aveva pure la capacità di piangere e dopodiché, verso le quattro del mattino o le cinque del mattino, io lasciai...

P.M. Dott. GOZZO − Questo, conoscendolo, è difficile da credere, ma... glielo dico.

TESTE GENCHI G. − E lo so, questo mi rendo conto che su questa parte non... non posso darvi riscontri informatici o altro, però non avrei nessun motivo per dire una cosa peraltro che...

P.M. Dott. GOZZO − Ma lei altre volte non lo ha visto in situazioni di questo genere?

TESTE GENCHI G. − No, io non l’ho mai... non avevo mai visto piangere La Barbera, mai. Non pensavo nemmeno che avesse delle lacrime sotto... sotto gli occhi, eppure quella notte ha pianto. Si sono toccati alcuni aspetti personali che io gli ho contestato, di quello che io avevo pagato con la mia famiglia, nella mia vicenda personale. Io di lì a poco mi separai da mia moglie e fu pure vano... fu pure vano il tentativo di sanare il rapporto matrimoniale, che per stare accanto a La Barbera e far fare carriera a La Barbera e a tutti gli altri ho mandato in aria un matrimonio, e fu vano il tentativo di concepire una bambina, che fu concepita proprio a cavallo di quelle stragi, che poi è nata il 27 marzo del 1993, che chiamai Francesca, nel ricordo di Francesca Morvillo, a cui ero molto legato, tra l’altro. Quindi questo vi dà anche la misura, dopodiché saltò... salta un matrimonio e, vi assicuro, non c’era né una lui, né una lei, eh? Saltò proprio su questa disperazione, su questa grande tensione morale di chi si sente responsabile, che in quel momento sta facendo le cose più importanti, che l’Italia ti chiede, che la gente perbene che incontri per la strada ti guarda e ti chiede, perché spera che tu dia una risposta di giustizia per quei poveretti che sono stati ammazzati. Ma non tanto ai magistrati, con ciò non voglio assolutamente disprezzare il dottor Borsellino, il dottor Falcone, la dottoressa Morvillo, ma loro era messo nel conto che... che potessero anche essere ammazzati per quello che avevano fatto, ma, insomma, i poveri poliziotti... Erano i miei colleghi, ragazzi che io avevo conosciuto, quindi... insomma, che avevo visto fino a poco prima, quindi... Vi prego di credermi, per chi come me era giovane in Polizia, quindi aveva anche passioni, aveva amicizie, aveva sentimenti, insomma, non... non sono delle cose che si possono dimenticare cosi, dopo che li si è visti morti.

P.M. Dott. GOZZO − Si, si, lo comprendo.

TESTE GENCHI G. − Questo, ecco.

P.M. Dott. GOZZO − E vorrei però riportarla...

TESTE GENCHI G. − La mia non era sicuramente un’aspirazione...

P.M. Dott. GOZZO − Cioè cosa succede dopo?

TESTE GENCHI G. − ... un’aspirazione di carriera, né un’aspirazione di giustizialismo, io non sono mai stato un giustizialista, io sono stato un grande garantista, sempre.

P.M. Dott. GOZZO − Cosa succede dopo questa discussione? Cioè perché è così drammatica?

TESTE GENCHI G. − Che io l’indomani mattina mi presento in divisa al Reparto Mobile e non do più il mio assenso alla... alla applicazione al gruppo Falcone... di indagine Falcone-Borsellino. Ci voleva il mio assenso: ‘Se volete mettermi di autorità mi fate un ordine e io eseguo l’ordine, però non vi... vi garantisco che non è così’. Interrompo i rapporti con la Procura di Caltanissetta, nessuno da Caltanissetta mi chiede ragione di questo, e poi capisco perché: perché La Barbera era andato a raccontare ai magistrati di Caltanissetta che io mi ero allontanato perché avevo paura. Cioè io avevo paura! ‘Genchi non se l’è sentita più perché ha paura, ha avanzato problemi di sicurezza’. Io? Che camminavo con la mia macchina e disarmato, che non usavo manco la macchina di servizio.

P.M. Dott. GOZZO − Questo lei come l’ha saputo?

TESTE GENCHI G. − Io l’ho saputo molto tempo dopo, l’ho saputo molto tempo dopo, anni dopo, quando ho avuto contezza di una lettera che i magistrati Boccassini e Cardella hanno scritto al Procura... una lettera riservata, hanno scritto al Procuratore Tinebra, dopo avere avuto notizie da La Barbera che io non facevo più parte del gruppo, lamentandosi, dicendo che io ero perfettamente a conoscenza dei rischi e che il mio dovere era quello di portarli avanti. Cioè una lettera pesante, in cui non ci sono ovviamente riserve, perché la dottoressa Boccassini e il dottor Cardella, perché sia chiaro, al di là poi di quello che sui giornali è stato fatto passare, furono quelli che si imposero con le deleghe ad personam che io mi occupassi delle indagini sulle stragi, e si costituirono i gruppi con me e La Barbera, eravamo io, La Barbera e basta all’inizio, io, La Barbera e basta, il dottor Bo’ lo chiamò in extremis La Barbera, era già stato trasferito per problemi da Palermo tempo prima e siccome nessuno dei funzionari di Polizia di Palermo voleva andare con La Barbera, l’unico che voleva ritornare, perché aveva situazioni personali, sentimentali, a Palermo era il dottor Bo’ e fu l’unico che accettò l’invito di La Barbera ed entrò ai gruppi dopo che me ne andai io, non ci siamo nemmeno incrociati nelle scale, perché io non andai più dall’indomani mattina. Cioè non è che ho aspettato una settimana, dall’indomani mattina; esattamente come feci con la vicenda Contorno, io me ne andai a Roma, dissi: ‘Io non c’entro più’, la stessa cosa: ‘Io non mi rendo partecipe’, tanto che non si parlò sui giornali della mia consulenza. Se lei vede tutto il fermo di Scotto, etc., il mio nome come se non esistesse, come se fosse un anonimo, diciamo, chi aveva fatto tutto... Figurati se io mi ero dispiaciuto. Mi chiamavano i giornalisti che sapevano le cose, io ho detto: ‘Mah, hanno fatto tutto loro’. Io avevo un’attività ovviamente importante in corso, nella quale credevo, nella quale credo, però per me era un’ipotesi di lavoro importante, ma che era un’ipotesi di lavoro in corso, non un’ipotesi di lavoro definita, che non poteva essere arrestata con il fermo.

Addirittura, quando io poi resi queste dichiarazioni al processo, ci sono degli interventi, ci sono pagine del ‘Giornale di Sicilia’ di Caltanissetta, che è stato sempre molto vicino alla Procura della Repubblica, che diede ampio spazio ai due magistrati che intervennero polemicamente sulle mie dichiarazioni, la dottoressa Anna Palma e il dottor Nino Di Matteo, stigmatizzando pesantemente il fatto che io avessi...

P.M. Dott. GOZZO − Stiamo parlando di molti anni dopo.

TESTE GENCHI G. − Si, e insomma...

P.M. Dott. GOZZO − Abbiamo fatto un salto di tempo.

TESTE GENCHI G. − Si, ma ancora non li hanno cancellati i giornali, sono là.

P.M. Dott. GOZZO − No, no, no...

TESTE GENCHI G. − Eh, dico, per dire, insomma.

P.M. Dott. GOZZO − Per fare capire alla Corte di che stiamo parlando.

TESTE GENCHI G. − Che io non... non avevo titolo a mettere in dubbio un atto del Pubblico Ministero, qual era il fermo. Io non metto in dubbio assolutamente nulla, io rispetto e se è il caso lo eseguo il fermo che il Pubblico Ministero mi ordina di eseguire, però consentitemi, se devo dare il mio parere su quello che ho fatto io e su un’ipotesi di lavoro, io la darò sempre. Ci sarà il fermo, ci sarà anche la sentenza della Cassazione, io le mie idee non le cambio perché c’è una sentenza, le mie idee rimangono le mie idee. E cosi... e cosi andò, per dirle... io sto cercando di riscontrare ex post quello che è avvenuto ex ante, perché non è assolutamente vero che io sono stato allontanato dal gruppo di indagine Falcone e Borsellino, questo lo dico anche a beneficio dei magistrati della Procura e di quanto poi possano riferire anche nelle sedi alla Commissione Antimafia, perché è esattamente il contrario, per la vicenda della invasività nei con... nelle carte di credito di Falcone. Questo discorso lo voglio chiarire una volta per tutte. Nell’ottobre, quindi già siamo diversi mesi prima, prima ancora che i magistrati di Caltanissetta, Boccassini e Cardella, si mettessero di traverso perché io avessi le deleghe ad personam sulle stragi, quando c’era da verificare ‘sto episodio di Falcone in America o no, dice: ‘Ah, ma nel passaporto non c’è il visto’. Ho detto: ‘E va beh, è inutile che guardate il passaporto di Falcone. Non è che Falcone arrivava in America e faceva la fila alla... all’immigrazione, come la facciamo noi’. Falcone entrava in America, entrava in tutti gli Stati, aveva rapporti... aveva rapporti con l’FBI, lo andavano a prendere da sotto l’aereo. Falcone negli Stati Uniti aveva il rango di un capo di Stato quando era Falcone. Cioè ma non pensate di... di riscontrare con il passaporto. Io vi posso dire una cosa, conoscendo Falcone e sapendo quali erano le abitudini di Falcone, che intanto non è che andasse a fare shopping in via Maqueda. L’unico momento in cui Falcone si concedeva qualche acquisto, qualche cosa, è quando si trovava in trasferta all’estero, in cui era un poi più libero, in cui camminava... e quindi comprava le cose e aveva l’abitudine di pagare tutto con l’American Express, che gli vedevo utilizzare; so come usava le cose. Una volta gli facemmo un rimborso di un telefonino, dopo l’attentato all’Addaura, che gli avevano rifilato un milione e 300 mila lire, un Brondi, dicendogli che quello non si intercettava. Io glielo feci sentire mentre parlava al telefono, ci dissi: ‘Dottore, ma che cosa sta facendo? Butti ‘sto coso’, e gliel’abbiamo restituito alla Telecom e gli ho riportato io personalmente l’assegno di un milione e 300 mila lire che gli avevano fatto pagare per quel telefono che gli avevano detto che non si... che non si intercettava. Un cordless, perché lui aveva l’abitudine di utilizzare il cordless, perché a mare, nella cosa era comodo non entrare ogni minuto, usava molto il telefono Falcone nella casa, e quindi stava in un terrazzo e usava il cordless, che non era sicuro. E quindi, dicevo, l’unica possibilità che abbiamo, acquisiamo le carte di credito, perché tra l’altro c’era il numero nella carta di credito, nell’agendina, c’erano tutti gli estremi dei conti, così pigliando le carte di credito di Falcone, eh, se Falcone è stato negli Stati Uniti qualche gadget, qualche cosina l’ha comprata sicuramente, quindi lo vediamo da lì. Quindi vedete che invasività. Tra l’altro di Falcone, la Procura, firmato dai magistrati di Caltanissetta, avevamo acquisito i tabulati...

     …

P.M. Dott. LUCIANI – Un’ultima domanda e, per quello che mi riguarda, ho concluso, poi non so se il collega ha altre domande. Lei ha già detto che, appunto, le indagini si concentrano come tante altre nella prospettiva, diciamo, di una visione a più ampio raggio sulle motivazioni, concause e coinvolgimento di altri soggetti nelle due stragi, si concentrano uno dei filoni sul Castel Utveggio. Lei mi sembra che anche ha accennato al fatto che risultava che vi fosse una struttura all’interno e che fosse collegata con l'ambiente dei Servizi, se non ho capito male.

TESTE GENCHI G. − Si. Allora, erano persone...

P.M. Dott. LUCIANI − Ecco, questa notizia...

TESTE GENCHI G. − ...che erano all’Alto Commissario, ci siamo? Tutte. All’Alto Commissario in quello stesso periodo c’era stato il dottor Contrada. Ci siamo? E questa gente poi chi era andato al SISDE, chi aveva preso altre strada. Perché diventa importante? Perché altrimenti si parla di ‘sto castello, poi diventa una specie di... di leggenda televisiva sulla quale si può anche favoleggiare, luogo comune, come l’ha definito il Procuratore Lari. E il riferimento è, invece, assolutamente oggettivo e individualizzante, è preciso, e attiene all’attività di riscontro su Contrada. Allora, Contrada, che era per noi il bersaglio principale perché, praticamente, c’erano delle dichiarazioni sul conto di Contrada, c’era questa evidenza alla Procura di Palermo, Contrada stava per essere arrestato e probabilmente si voleva evitare che questo accadesse, e quindi Borsellino probabilmente non era molto d’accordo. Questa era l’ipotesi; che poi fosse vera, non fosse vera, non fosse fondata, fosse ... Questa era l’ipotesi però, glielo garantisco, senno non ci sarebbero stati gli accertamenti, i tabulati e tutto quello che c’è stato su Contrada. Contrada era in barca con Valentino; in barca con lui c’era un ufficiale, un capitano dei Carabinieri, c’era la famosa Maria che intercettano per non so quanto tempo con il numero sbagliato, e io non ne so niente che stavamo intercettando una persona che non c’entra niente e non stavamo intercettando quella vera invece, che era importante. Questa signora aveva riferito a una sua amica, che era anche un’amica del dottor Falcone e di Francesca Morvillo, moglie del ginecologo di Francesca Morvillo, quindi amici anche di famiglia, insomma, con cui si frequentavano, poche persone andava a cena Falcone e altri, e comunque c’era questo tamtam che Contrada avrebbe appreso della strage mentre era in barca. Quindi il dottor Contrada, mentre si trovava in barca con Valentino, il capitano, etc., gli è squillato il cellulare − è molto importante questo passaggio − e gli hanno detto che avevano ammazzato Borsellino, c’era stata una strage. Contrada... nel tabulato di Contrada questa chiamata che ha ricevuto, che viene confermato, sarebbe stato confermato da diversi presenti, non c’è. E la ragione è presto spiegata: i tabulati telefonici dell’epoca non censivano le chiamate in entrata, cioè le chiamate che venivano da utenze fisse nei tabulati non risultavano. Quindi la TIM vedeva solo − la SIP all’epoca − se chiamavano altri cellulari. Quello che è sicuro è che Contrada poi ha la conferma, perché immediatamente dopo chiama la sede del SISDE di via Roma, che era operativa di domenica, quindi questo glielo confermo perché risponde, c’è la chiamata con la durata, quindi qualcuno ha risposto, e ha conferma. Se lei considera che noi riuscimmo ad oggettivizzare l’esplosione alle 16.58.20, mi pare, attraverso i dati dell’osservatorio quello dei terremoti, mi pare.

P.M. Dott. LUCIANI − L’osservatorio sismico, si.

TESTE GENCHI G. − Sismico, perché aveva... c’era stato lo schizzo, diciamo, quindi all’orario preciso 16.58.20. Quindi, in questo frangente, lui avrebbe ricevuto la telefonata e la chiamata successiva lui la fa meno di un minuto dopo, adesso non ricordo esattamente, un minuto e mezzo, quanto è passato.

P.M. Dott. LUCIANI − Un minuto e venti, vado io a memoria, se non ricordo male.

TESTE GENCHI G. − Esatto. Quindi chi avvisa Contrada, lo avvisa da una postazione fissa, se è quella la telefonata. Contemporaneamente cosa ho fatto? Avevamo i dati della registrazione della Centrale Operativa, perché io in Centrale Operativa, nella mia qualità di direttore della zona telecomunicazioni, avevo montato due apparati di registrazione: uno al 113, per registrare tutte le chiamate al 113, perché erano elementi importantissimi, che poi sono stati utilizzati non so in quanti processi, e registrare tutto il traffico radio della Polizia, che prima non si registrava. Se lei sente il traffico radio o già solo le agenzie di stampa, lei vedrà, fino a molto tempo dopo, che si parla di incendio in zona fiera.

P.M. Dott. LUCIANI − Una fuga di gas e quant’altro, si.

TESTE GENCHI G. − Fuga di gas, bombola scoppiata, non sappiamo qual è la casa, scambiano via. Ci siamo? Cioè la qualificazione della Centrale Operativa e poi, ovviamente, dell’agenzia di stampa, perché i giornalisti ascoltavano, quindi, insomma, era facile e poi la troverà nelle agenzie codificata per quello che realmente è stato, con l’evoluzione poi del work in progress delle informazioni sull’attentato, eh, cioè per la Sala Operativa è fuga di gas e Contrada già sa quello che è successo? Se questa è la telefonata che viene riferita a questa ricostruzione. Quindi vuol dire che la fonte che informa Contrada... se è questo. Ma questa era l’indagine che io stavo facendo, questo era il presupposto che noi abbiamo continuato, non era il punto di arrivo.

P.M. Dott. LUCIANI − Quindi per verificare, diciamo, questa circostanza...
 

TESTE GENCHI G. − E si.

P.M. Dott. LUCIANI − ...rispetto ad un collegamento con il Castel  Utveggio, se ho capito bene.

TESTE GENCHI G. − Rispetto a chi poteva informare Contrada, doveva avere una postazione fissa.

P.M. Dott. LUCIANI − Ok.

TESTE GENCHI G. − Al Castel Utveggio c’erano quelli che avevano lavorato con Contrada e che conosceva Contrada, in cui c’erano anche contatti telefonici, c’erano stati rapporti, etc., ma questo non è indiziante di per sé, perché che due persone che hanno lavorato in Polizia o hanno lavorato in uno stesso ufficio, o due magistrati si possono chiamare fra di loro, non è un elemento di per sé... però sicuramente era uno stesso gruppo, era un qualcosa che non faceva parte dell’asset che in quel momento governava la Polizia con Parisi e company, ma faceva parte di un certo gruppo che era, diciamo, chiamiamo all’opposizione. Non so se... se posso essere chiaro.

P.M. Dott. LUCIANI − Si, si, l’abbiamo... ho capito.

TESTE GENCHI G. − Perché quando in Polizia ci sono i gruppi, le correnti, le cose, non è che... è un po’ come la magistratura, insomma, non... ci sono le cordate, diciamo. Contrada faceva parte di una cordata, con tutto il suo gruppo, che in quel momento era in minoranza.

P.M. Dott. LUCIANI − Senta, ma lei ebbe mai la notizia del fatto che lì al Castel Utveggio vi fosse una struttura, appunto, ascrivibile ai Servizi che venne smantellata nel momento in cui si iniziarono queste indagini?

TESTE GENCHI G. − Si, mi disse una cosa del genere un funzionario. Per la verità io la presi con le pinze, perché, insomma, il collega simpaticissimo, molto bravo.

P.M. Dott. LUCIANI − Chi glielo dice?

TESTE GENCHI G. − E’ un funzionario che ora non mi ricordo come si chiama di cognome. Burrieci, Luca Burrieci.

P.M. Dott. LUCIANI − E Burrieci le disse quale...?

TESTE GENCHI G. − Lui era amico di un... di uno che lavorava lì, che poi viene trasferito alla Questura di Caltanissetta, che si chiama Coppolino.

P.M. Dott. LUCIANI − E Coppolino è lo stesso Coppolino che lei ha detto prima...

TESTE GENCHI G. − Esatto.

P.M. Dott. LUCIANI − ...lavorare all’interno del...

TESTE GENCHI G. − Infatti, veda, Pubblico Ministero, signor Pubblico Ministero, cioè i miei sospetti perché si avvalorano? Se questi erano là e non c’entra niente, perché quando noi facciamo le indagini si spostano e se ne vanno e li levano? Cioè io ritengo che... E’ una cosa, diciamo, anomala, perché, insomma, non c’è motivo; insomma, se erano là, restano là; se si fanno le indagini si accerterà in che misura ci possono entrare o ci può entrare la struttura, che poi poteva essere stata utilizzata la struttura e loro possibilmente manco ne sapevano niente. Cioè in queste cose... era, ripeto, una fase assolutamente embrionale. Però questo smantellamento, questo spostamento di questi qua, questo allontanamento, tutta questa cortina, diciamo, di chiusura, ecco, che si nota su questa vicenda mi destò qualche perplessità, ma non ebbi il tempo, ovviamente, di verificarla, perché poi le sopravvenienze sono state quelle che le ho detto, per cui... e hanno continuato gli altri.

...

AVV. REPICI − Senta, lei ha riferito ripetutamente, anche su domande mie, del dottor Contrada; ha fatto riferimento sia ad attività, diciamo, svolta a Caltanissetta, sia all’attività che poi portò alla misura cautelare eseguita nei suoi confronti, emessa dall’Autorità Giudiziaria di Palermo. Lei ha utilizzato, a un certo momento, una espressione che mi sono appuntato: su Contrada, lei ha detto, era in quel momento il bersaglio principale. Voglio capire se era il bersaglio principale delle ipotesi investigative di Caltanissetta oppure faceva riferimento lei a Palermo.

TESTE GENCHI G. − No, io con Palermo intanto non avevo nessuna collaborazione, quindi manco li conoscevo i magistrati che si occupavano di Contrada. Io apprendo delle indagini su Contrada a Caltanissetta, addirittura con partecipazione di elementi importanti di quella indagine, non ultimo la circostanza che di lì a poco si sarebbe eseguita un’ordinanza di custodia cautelare.

AVV. REPICI − Quindi, quando lei dice...

TESTE GENCHI G. − Quindi, insomma...

AVV. REPICI − Quando lei ha utilizzato questa espressione, ‘bersaglio principale’, si riferisce alle investigazioni di Caltanissetta...

TESTE GENCHI G. − Assolutamente si, assolutamente.

AVV. REPICI − ...sulle stragi.

TESTE GENCHI G. − Cioè nei giorni... nei giorni che precedono la rimozione di La Barbera con il telegramma, si lavora solo su Contrada e sul gruppo di Contrada, quindi Prefetti, vice Prefetti, funzionari di Polizia, cioè si fa tutto uno screening. Se lei interroga il terminale del Ministero dell’Interno, con tutte le interrogazioni che vengono fatte in quel periodo alla postazione della Squadra Mobile di Palermo, troverà... perché nella log sono ancora registrati questi dati, troverà questi riscontri. A questi riscontri trova le deleghe dei magistrati di Caltanissetta, prima alla Squadra Mobile, poi alla persona del dottor La Barbera e quindi del dottor Genchi, e poi trova l’evoluzione, che è quella che le ho detto, il trasferimento di La Barbera e quindi poi la costituzione coatta, per volontà della Procura, non del Ministero dell’Interno, dei gruppi di indagine Falcone... Che poi era gruppo uno, poi diventano al plurale, ma quando c'ero io era gruppo di indagine Fal... ma poi forse diventano due, non so perché, però quando ero io era uno solo.

AVV. DENARO − Lei poco fa ha riferito che le piste che seguivate erano Contrada, i Servizi Segreti e si indagava anche il contesto politico nazionale e internazionale. Ma queste erano le indagini che volevate fare voi o le indagini che vi avevano delegato i magistrati di Caltanissetta?

TESTE GENCHI G. − No, queste erano indagini... Allora, intanto il contesto politico nazionale e internazionale lo toglierei; veniva valutato il contesto politico nazionale e internazionale del momento in cui le stragi c’erano state, con particolare riguardo per la prima delle due stragi, per contestualizzarle, ma non si faceva indagini sui politici, assolutamente. Quindi veniva valutato qual era il ruolo di Falcone in quel momento, il ruolo politico, i rapporti, di centralità dei rapporti personali con il capo dello Stato, con Cossiga, con il Presidente del Consiglio, con i Ministri, con... ho fatto tutti i nomi. Poi lasci perdere io con il tempo, parlando poi, dopo, con Cossiga, ovviamente molte cose le ho riscontrate, quindi oggi ho una padronanza e una certezza delle cose che sto dicendo, anche diretta, diciamo, dai protagonisti, diciamo, di... di quelle vicende. E Cossiga era venuto a Palermo dopo l’omicidio Lima, ci fu una notte convulsa in cui il capo della Polizia fu costretto a venire da Roma, precipitarsi a Palermo perché stava succedendo il finimondo in quella occasione. Sicuramente era una pista di indagine ben precisa, penso addirittura con delle iscrizioni al registro degli indagati, che dovrebbero risultare nel registro della Procura di Caltanissetta, che dovrebbero risalire alla vigilia di Natale dell'anno 1992, con deleghe di indagini che riguardavano specificatamente il dottor Bruno Contrada. In relazione ad un elemento molto semplice, Avvocato: cosa stava facendo Borsellino. Stava sentendo Mutolo, che stava parlando di Contrada e di Signorino, quelli erano i due bersagli, i due obiettivi principali di Borsellino in quel momento. Checché si possa dire che si occupasse di appalti, di quello, poi si occupava di... no, cioè la cosa più importante che struggeva Borsellino è questa. Quando lui ritorna, dopo avere sentito Mutolo, vomita, non perché aveva mangiato male la carbonara a Roma o per gli appalti, o per il rapporto del ROS, o per altre cose, vomita per le cose che gli ha detto Mutolo, perché era l’ultima evidenza che l’aveva fatto vomitare, e questo era il dato che avevamo acquisito. Quindi se vogliono fermare Borsellino, lo vogliono fermare quelli che lui sta cercando di indagare e di andare avanti in un’indagine che tocca vertici istituzionali degli apparati dello Stato e lo vogliono fermare. Cioè, almeno, se lei ha un incidente che cosa guarda? La macchina che è andata a sbattere, non è che guarda la macchina che è passata ieri da quella strada. Quindi è un’evidenza molto semplice. Ma con assoluta laicità, non è che noi l’avessimo con Contrada o... Ma assolutamente, io vi ho detto che certamente non era fra le mie conoscenze preferite o fra le persone che stimassi di più, perché avevo purtroppo quel difetto di origine di come me ne avevano parlato, ma questo non è che significa che io fossi prevenuto nei confronti... nei confronti di Contrada, assolutamente, insomma, non... Un rapporto di laicità assoluta, come l’ho sempre avuto. E ho seguito queste direttive, a cui ho partecipato ovviamente nel dialogo che le ha create queste direttive, ma che sono state perfettamente condivise dai magistrati, che più di me erano convinti della pista che si stava... che si stava seguendo; tanto che parallelamente hanno sentito il dottore Signorino, hanno voluto che il primo interrogatorio, in cui si dovevano acquisire tutta una serie di elementi, fosse fatto solo dai magistrati per poi essere destrutturato e quindi lanciare quell'attività di riscontro di cui già eravamo preparati, con il dottore Vaccara in particolare, che, insomma... con cui ci conoscevamo anche da Messina, etc., si doveva fare proprio un’attività di approfondimento sulle cose che diceva, quindi tabulati, tutto quello che ne consegue, maxiprocesso, udienze, tutto quello che... che poi sarebbe stato necessario fare e che purtroppo non... non si fece, non si poté fare, perché Signorino pose fine all'indagine preliminare togliendosi la vita, quindi non c’era... non c’era da andare avanti, insomma, non c’erano nemmeno... E quindi per Contrada si stava facendo questo. Il contesto politico, ripeto, vorrei chiarirglielo, era solo per contestualizzare la prima strage e il momento in cui questa era avvenuta, non... Perché noi ritenevamo che con quella strage si volesse fare un reset: colpire Falcone, azzerare i conti di quello che Falcone aveva fatto con il maxiprocesso, in particolare poi a Roma, diciamo, indirizzando il famoso monitoraggio con il Presidente Brancaccio e Martelli dell’assegnazione delle sentenze e quindi... una sentenza che peraltro, con tutto il rispetto, non vedo come non poteva essere confermata, quindi... E quindi azzerare la classe politica e quindi il sistema politico di quel momento, quindi fargli pagare il conto definitivo a quelli che forse avevano un po’ tradito, diciamo, le aspettative di chi aveva riposto fiducia in quel...

Il GIP di Caltanissetta ha archiviato, come anticipato in questo capitolo, la posizione di Bruno Contrada, già indagato per il reato di concorso in strage con riferimento all’uccisione di Paolo Borsellino e dei cinque agenti di scorta, commessa a Palermo il 19 luglio 1992.
Rimangono agli atti gli accertamenti di polizia giudiziaria che non hanno trovato una spiegazione plausibile, come il fatto che la figlia di Gianni Valentino, amico di Contrada, potesse essere consapevole a pochi secondi dall’esplosione della FIAT 126 imbottita di tritolo che ‘a Palermo era scoppiata una bomba e comunque c’era stato un attentato’. La prima agenzia ANSA che parla di ‘un attentato dinamitardo avvenuto a Palermo’ è stata diffusa alle ore 17.16.

Resta nei ricordi dei familiari di Paolo Borsellino anche un’affermazione che il magistrato pronunciò a proposito di Bruno Contrada e che è stata ricordata da Salvatore Borsellino, fratello di Paolo:

“Per sapere quello che mio fratello Paolo pensava di Bruno Contrada basta ricordare l’episodio, riportato in atti processuali, nel quale avendo Paolo sentito fare quel nome a tavola da un funzionario di polizia amico della figlia, era sobbalzato dicendo: ‘Chi ti ha fatto quel nome, può bastare pronunciarlo a sproposito per morire’ ”.[18]

Conclusioni
borsellino-agnese-web4La Procura di Caltanissetta ha aperto tra il 1992 ed il 2014 diversi fascicoli d’indagine per individuare mandanti ed esecutori della strage di via D’Amelio esterni a Cosa Nostra. Numerosi spunti d’indagine individuati da Gioacchino Genchi nel 1992 sono stati riscontrati durante le indagini dei PM di Caltanissetta ma i relativi sviluppi non hanno consentito all’Autorità Giudiziaria di configurare precise responsabilità penali a carico di eventuali indagati. Ciò non significa che quell’insieme di indizi alla stato embrionale non avesse sufficiente dignità per definire una direzione investigativa. Tanto l’attività di Polizia Giudiziaria svolta da Genchi quanto l’attività inquirente condotta dai PM di Caltanissetta sono state ‘doverose e necessarie’: quella parte di indizi che ha trovato riscontro nelle indagini dei magistrati nisseni è la dimostrazione tangibile che gli iniziali spunti investigativi dovevano essere approfonditi.
Oggi come allora, le indagini hanno subito un battuta d’arresto quando hanno incrociato le ‘zone d’ombra’ che ancora permangono nella ricostruzione della dinamica della strage e che rimandano all’esistenza di soggetti esterni a Cosa Nostra coinvolti nell’esecuzione del delitto. E’ in questa direzione che l’Autorità Giudiziaria è chiamata ad approfondire le indagini. L’obiettivo è dare un nome agli autori della strage rimasti ad oggi senza volto ma che furono indicati nitidamente da Paolo Borsellino alla moglie Agnese (nella foto) il giorno prima di essere ucciso:

‘Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere’.[19]

Tratto da: 19luglio1992.com

[1] Richiesta di archiviazione della DDA di Caltanissetta relativa al proc. n. 4723/01 R.G.N.R. Mod. 44 (16 luglio 2008)

[2] Richiesta per l’applicazione di misure cautelari della DDA di Caltanissetta relativa al proc. N. 1595/08 R.G.N.R. Mod. 21 (23 giugno 2011)

[3] Verbale di interrogatorio di Fabio Tranchina, A.G. di Caltanissetta (21 aprile 2011)

[4] Verbale di interrogatorio di Giovanbattista Ferrante, A.G. di Caltanissetta (5 maggio 2005)

[5] Nota del 20 luglio 1992 del Nucleo Operativo dei Carabinieri di Palermo

[6] Lo Bianco e Rizza, op. cit.

[7] Testimonianza di Gaspare Spatuzza al processo in corso presso la Corte di Assise del tribunale di Palermo − Proc. pen. N. 11719/12 N.C., stralcio del proc. pen. N. 11609/08 N.C. (13 marzo 2014)

[8] Testimonianza di Giovanbattista Ferrante al processo ‘Borsellino QUATER’, A.G. di Caltanissetta (27 maggio 2014)

[9] ibidem

[10] Testimonianza di Gioacchino Genchi al processo ‘Borsellino QUATER’, A.G. di Caltanissetta (3 ottobre 2013)

[11] Testimonianza di Vincenzo Lamendola al processo ‘Borsellino QUATER’, A.G. di Caltanissetta (29 ottobre 2013)

[12] ibidem

[13] Decreto di archiviazione proc. pen. N. 2166/04 R.G.N.R., ufficio del GIP di Caltanissetta (14 maggio 2005)

[14] Testimonianza di Gioacchino Genchi al processo ‘Borsellino QUATER’, A.G. di Caltanissetta (3 ottobre 2013)

[15] Verbale di assunzione di informazioni da parte di Agnese Borsellino, A.G. di Caltanissetta (27 gennaio 2010)

[16] Decreto di archiviazione del GIP di Palermo Giovanbattista Tona, proc. pen. N. 1220/96 R.G.N.R., A.G. di Caltanissetta (8 gennaio 2002)

[17] ‘La bomba a via D’Amelio, Narracci in barca’, Marco Travaglio (Il Fatto Quotidiano, 29 maggio 2010)

[18] ‘L’ultimo sfregio’, lettera aperta di Salvatore Borsellino in opposizione all’avvio da parte di Giorgio Napolitano dell’istruttoria per la concessione della grazia a Bruno Contrada, condannato il 10 maggio 2007 a dieci anni di reclusione per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa (26 dicembre 2007)

[19] Verbale di assunzione di informazioni da parte di Agnese Borsellino, A.G. di Caltanissetta (18 agosto 2009)

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