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di-carlo-francescodi Stefania Limiti - 19 ottobre 2014
Per il pentito di Altofonte, i pm di Caltanissetta ”stanno processando qualcuno che ha avuto una minima parte nell’ attentato”. Poi rilancia la pista dei mandanti esterni: ”Non penso che così si possa chiudere il capitolo della partecipazione di entità estranee a Cosa nostra”
L’attenzione degli investigatori sulla strage di Capaci non si è mai interrotta. Iniziato lo scorso 23 maggio, nel giorno in cui ricorre l’anniversario dell’attentato, il processo Capaci-bis, grazie alle rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza, punta a individuare le responsabilità delle persone che hanno partecipato al reperimento dell’esplosivo che fece saltare in aria le auto in cui viaggiavano Giovanni Falcone, sua moglie e gli agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. L’ultimo capitolo della storia processuale della strage riguarda la fase preparatoria. Alla sbarra, oltre al boss Salvo Madonia, i ”picciotti” della cosca di Brancaccio – Cosimo Lo Nigro, GiorgioPizzo, Vittorio Tutino e Lorenzo Tinnirello – gli uomini dei Graviano che curarono il recupero in mare e la preparazione dell’esplosivo.

Quegli strani oggetti ritrovati sul luogo del massacro, a circa 6o metri dal centro del “gran botto”- un sacchetto di carta, una torcia elettrica, un tubetto di mastice, guanti di lattice – hanno dato molto da fare agli investigatori. Per lungo tempo si è ritenuto che potessero essere stati portati nel luogo della strage da mani esterne a Cosa nostra. Dopo oltre vent’anni dai fatti, la ricomposizione della scena del crimine è assai difficile ma intanto oggi si è fatto un passo in più: è stata rinvenuta, come è noto, un’impronta (l’indice della mano destra) di Salvatore Biondo – uno dei boss già condannati per la strage – sulla pila inserita all’interno della torcia. Una prova ritenuta decisiva dalla Procura nissena per ricostruire la realizzazione dell’attentato. Finora non ci sarebbero prove di presenze esterne, anche se restano pesanti ombre, quelle a cui si riferì esplicitamente Pietro Grasso quando era Procuratore Nazionale Antimafia: ”Non c’e’ dubbio – disse durante un’audizione parlamentare – che la strage sia stata commessa da Cosa Nostra. Rimane però l’intuizione, il sospetto, chiamiamolo come vogliamo, che ci sia qualche entità esterna che abbia potuto agevolare o nell’ideazione, nell’istigazione, o comunque possa aver dato un appoggi all’attività della mafia”. Dopo aver citato numerosi passaggi delle sentenze sulla vicenda, fu lui a porre una domanda ai Commissari dell’Antimafia: ”Perché si passò dall’ipotesi di colpire Falcone mentre passeggiava per le strade di Roma all’attentato con 500 chilogrammi di esplosivo collocato a Capaci?”.

La modalità chiaramente stragista ed eversiva dell’attentato è solo frutto di una strategia mafiosa?
Abbiamo cercato di capire cosa ne pensi Francesco Di Carlo, ex boss di Cosa nostra, che ha raccontato delle visite ricevute nel carcere londinese di Full Sutton, dove era detenuto per traffici illeciti, da parte di alcuni agenti segreti in cerca di un ”contatto” per far arrivare un ”messaggio”, così dice lui, a Giovanni Falcone: Di Carlo gli suggerì il nome di suo cugino, Ninò Gioè, mafioso di Altofonte che poi è stato ”suicidato” in carcere di Rebibbia nella notte tra il 18 e il 19 luglio 1993. Nella sua deposizione al processo sulla trattativa Stato-mafia, nello scorso febbraio, Di Carlo ha specificato: ”All’inizio dell’ 89 Arnaldo La Barbera venne a trovarmi nel carcere di Full Sutton con due agenti dei servizi segreti: uno si chiamava Giovanni, mi attirò in disparte e mi portò i saluti di Mario, un colonnello collaboratore del generale Santovito, direttore del Sismi, che era mio amico. L’altro era inglese: si chiamava Nigel. Chiesi: a cosa devo la vostra visita? Dissero che cercavano un contatto con i corleonesi a Palermo: volevano fermare Falcone’’.

Dice ora Di Carlo: ”L’organizzazione di un attentato contro una persona come il giudice Falcone, super scortato, era comunque molto difficile, anche a Roma, sia che fosse stato realizzato con armi d’assalto che con il tritolo. C’era poi il problema dell’incolumità delle persone impiegate: certamente nella capitale potevano essere facilmente colpite o fermate, a Roma c’è un dispiegamento di forze di polizia molto importante che potevano sorprendere il commando mafioso. A Palermo era tutto più facile, da questo punto i vista”.

Secondo lei solo Cosa nostra voleva eliminare Giovanni Falcone?
”Ovviamente no. In molti volevano che Falcone sparisse, tutti coloro che temevano di perdere prestigio e potere a causa di quello che promettevano di fare, sia Falcone che Borsellino. Pensiamo solo ai loro progetti di mettere in piedi due istituzione come la Superprocura nazionale e la Dia di cui si comincia a parlare dal 1988, un’idea che faceva tremare le ginocchia a tanti politici, ai vertici della polizia e dei servizi segreti, e anche a molti magistrati. Tutto questo, guardando le cose oggi, forse non si può capire ma 25 anni fa era diverso”.

Secondo lei qualcuno assicurò Riina che avrebbe trovato sostegno materiale nell’organizzazione della strage?
”Penso di sì, politici e servizi segreti, gli stessi ambienti che mandarono da me quelle persone in Inghilterra e che io misi in contatto con Riina. Anche se uno di quei politici, essendo affiliato a Cosa nostra, non aveva difficoltà a contattare Riina che in passato, rispetto al maxiprocesso, era stato molto sicuro di sé, aveva fatto le riunioni di commissione mostrando molta fiducia che tutto sarebbe andato bene, aveva dato carta bianca a quelli che provarono a neutralizzare il dottor Falcone con calunnie, lettere anonime. Tutti ricordiamo quelle cosiddette del Corvo, o i tentativi di far passare per falso l’attentato all’Addaura, mettendo in giro l’idea che la bomba se l’era fatta mettere lo stesso Falcone”.

Ma che interesse avevano eventuali altri soggetti estranei a Cosa nostra a far sparire dalla scena Giovanni Falcone?
”Come ho detto, tanti. Giovanni Falcone avrebbe voluto scoprire tutto ciò che gli altri inquirenti avevano lasciato a metà, compreso la P2 e Gladio”.

I magistrati di Caltanissetta hanno reso noto che gli investigatori hanno trovato le impronte di Biondo su uno degli oggetti ritrovato vicino al luogo dell’esplosione: crede che questo possa chiudere il capitolo della partecipazione all’attentato da parte di soggetti esterni a Cosa nostra?
”Penso che i magistrati di Caltanissetta stanno processando qualcuno che probabilmente ha avuto una minima parte nell’ attentato e che è stato scoperto di recente. Ma non penso che così si possa chiudere il capitolo della partecipazione di soggetti esterni a Cosa nostra. Basti pensare che Falcone, da Roma a Palermo, viaggiava su un piccolo aereo dei servizi segreti. Chi ha voluto far sapere l’ora della sua partenza da Roma? Perché non si è percorsa questa via? Penso che Spatuzza sia un buon collaboratore di giustizia, molto onesto, ma io non penso che il tritolo usato a Capaci venisse solo da quella partita di cui lui parla. A Capaci è stato realizzato un attentato di tipo militare, persone specializzate hanno dato il loro contributo”.

Quando è stata l’ultima volta che ha visto quegli agenti che vennero a cercarla nel carcere di Londra perché volevano entrare in contatto con i Corleonesi?
”Erano tre persone, una di loro apparteneva ai servizi inglesi: con lui sono rimasto sempre in contatto dal ‘89 fino a ‘93 quando mi venne a salutare dicendomi che andava in pensione e che si sarebbe trasferito in America. Parlammo di tutto quello che era successo in quegli ultimi quattro-cinque anni e non dimenticherò mai che mi disse: “Guarda che io ti ho salvato, ricordatene”. Effettivamente in quel periodo di tempo, da quando avevo creato il contatto, erano successe molte cose, e io ero diventato molto, ma molto guardingo, più di quanto non lo sia mai stato nella mia vita. Ignazio Salvo era a conoscenza di quel contatto, dell’uomo che parlava con Riina. Il fatto è che, quando i processi vanno male, Totò perde la faccia nei confronti di tutta Cosa nostra che era stata rovinata, e impazzisce. Comincia a eliminare Lima, dopo sei mesi fa eliminare Ignazio Salvo, perché non avevano fatto la loro parte per risolvere il problema dei processi, dopo viene suicidato Nino Gioè in carcere che era uno di quelli che sapeva del contatto. E dopo otto, dieci mesi viene suicidato un colonnello dell’esercito che faceva parte del Sismi che aveva creato il contatto con me. Di tutti rimango io solo, per questo devo credere all’inglese che, andando in pensione, mi disse: Ti ho salvato la vita”.

Tratto da: loraquotidiano.it