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Intervista a cura di
Francesco Ianniello
 - 9 ottobre 2014
Coraggio, passione, talento: Shobha Battaglia, seconda delle tre figlie della grande fotografa Letizia, possiede queste doti in quantità industriale e le mette al servizio di lavori mai banali o superficiali. La madre per tutti è stata ed è la fotografa della mafia, grazie soprattutto ai suoi immortali scatti in bianco e nero della Palermo devastata dagli attentati mafiosi negli anni ’80 e ’90.
Shobha ha seguito un percorso diverso, rivolgendo le sue maggiori attenzioni alla condizione femminile ed, in generale, a temi di grande impatto sociale, viaggiando continuamente ed incontrando una moltitudine di persone che ha saputo, sapientemente, trasformare in storie. La incrociamo a Siena, alla Corte dei Miracoli, dove nei giorni scorsi ha tenuto un workshop dal titolo, per l’appunto, Raccontami una storia. Ad accompagnarci, in questa piacevole chiacchierata, c’è Stefano Pacini, fotografo free lance che da oltre dieci anni tiene, insieme a Daniela Neri, un seguitissimo corso di fotografia proprio presso la Corte dei Miracoli.

Come è nata l’idea di questo workshop a Siena?

Questo incontro è partito perché Ettore Maria Garozzo, carissimo amico disabile, ha fatto un workshop con me a Caltanissetta. Siamo stati in giro per la città, in Comune, in chiesa, per due, tre giorni. Gli scatti prodotti sono poi stati esposti per le strade, creando grande interesse e partecipazione. Ettore è quindi venuto a Siena, ha incontrato Stefano, ed a quel punto è nata l’idea di fare un workshop alla Corte dei Miracoli. E devo dire che sono state tre giornate davvero intense.

I lavori prodotti dagli allievi erano incentrati sul tema della famiglia, degli affetti più cari. Puoi spiegarci il perché di questa scelta?

Osservare la quotidianità con occhi propri non è per nulla semplice. Quello che dico sempre ai miei allievi è di tornare ad essere quello che si è, riappropriarsi dei propri spazi. Non occorre cercare una situazione particolare, è la situazione che deve venire a te. Stai fermo e accogli la bella luce, quello che arriva. Chi fa altri lavori spesso non ha tempo, ma il fotografo ha il privilegio di poter attendere anche per ore il momento più sublime. Come amo dire sempre, io sono nel mondo ma non sono del mondo.

Quali sono i tuoi attuali progetti?

In questo momento gestisco una scuola di fotografia in India, a Goa, ed una a Katmandu, Nepal. Nei mesi restanti tengo workshop di fotografia in Cambogia, Sri Lanka, Bangladesh. Sono quasi sempre progetti umanitari, legati a tematiche difficili, come la violenza sulle donne. Quello che mi interessa è raccontare storie non turistiche ma che rappresentano l’anima e l’essenza delle zone in cui lavoro. Per me la fotografia è un rapporto intimo, che ha a che fare con l’intimità delle persone. Mi chiedo: come vivono in questo momento? Sono felici?

E per i progetti futuri?

Siccome passo 3-4 mesi l’anno in Italia, mi piacerebbe trovare un casolare dove poter creare una vera e propria comunità di fotografi, dove fare festival e poter applicare nel concreto le nuove tendenze artistiche, con degli sponsor che ci possano aiutare economicamente. Pensavo proprio alla Toscana, vedremo.

Ma da dove nasce e come è cominciata la tua brillante carriera di fotografa?

Lavoro con la fotografia dal 1982, in gioventù ho studiato musica orientale ed ho vissuto per gran parte del tempo in India. Poi sono tornata in Sicilia, la mia terra d’origine, negli anni duri della mafia, visto che mia madre, come noto, si occupava di questo tipo di fotografia. Ho lavorato molto nel giornalismo, collaborando con tutte le più prestigiose testate nazionali e internazionali, per quattro anni a Cuba e dal 1991 con l’agenzia Contrasto. Ad un certo punto della mia vita ho deciso di trasferirmi in India per portare avanti progetti autonomi, senza che nessuno me li commissionasse dall’esterno. Dopo trent’anni di lavoro volevo scegliere da sola le cose che mi interessavano. Oggi la nostra, la Mother India School, è diventata una scuola itinerante, ci chiamano da ogni parte del mondo per fare workshop, creiamo dei laboratori intensivi che vanno oltre la fotografia. Quello che ne esce fuori, mi piace pensare, è l’essenza stessa della vita. Lavoriamo anche al fianco di figure diverse, come gli antropologi, collaborando ad esempio con la figlia di Mauro Rostagno. Non ci interessa la bomba che uccide ma le storie dure che nello stesso tempo rappresentano straordinari esempi di dignità e fierezza.

Come hai vissuto il peso di un cognome così importante nel mondo della fotografia italiana?
Il cognome è stato per me uno stimolo, mai una zavorra. Oggi mia madre dice cose splendide su di me, si vede che è molto orgogliosa e fiera, e soprattutto felice nel vedermi così libera ed indipendente. Sono riuscita anche a portarla di nuovo in India con me, nonostante fosse già abbastanza anziana. È stata un’esperienza meravigliosa, davvero.

Cosa ne pensi delle nuove tecnologie che stanno stravolgendo il modo stesso di concepire la fotografia?

C’è molto rumore nel mondo in generale. Le foto con i telefonini, ad esempio, vengono fatte senza consapevolezza, come la musica commerciale che ci bombarda e che da sottofondo diventa rumore. Questa non è fotografia, è un’altra cosa. Però in questo momento della mia vita sono aperta a qualsiasi possibilità, l’importante è che dietro ci sia un lavoro autentico. La fotografia ti mette davanti al mondo, con lei non puoi mentire. Dovunque c’è rumore di fondo nel mondo contemporaneo, bisogna essere consapevoli di ciò che è rumore e di ciò che è autentico. A me interessa emozionarmi, andare ad una frequenza diversa: la fotografia è musica e segue le stesse regole. Occorre ripartire da se stessi, la fotografia è il mondo che entra dentro di noi. Più sei silenzioso e più riesci a coglierne la bellezza, anche nel dolore. La bellezza è luce, è libertà. E poi la compassione, che è fondamentale. Da sola, la passione, non basta, serve compassione.

Tratto da: propagandatoscana.com

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