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di Giulietto Chiesa
Vogliamo provare a riassumere l’accaduto, fino ad ora?
Il giorno 8 gennaio 2020 il Presidente Donald Trump, tiene una conferenza stampa molto confusa, con una faccia decisamente non in linea con le parole, spiegando che il bombardamento delle due basi americane in Iraq non ha provocato danni, né morti americani. Tutto ok. Si trovava, poveretto, nella situazione perfettamente simmetrica a quella in cui si trovò Assad quando i 52 Tomahawk di Trump caddero su un aeroporto siriano in disuso, provocando solo sei morti e nessun danno. Anche lui, come Assad, hanno, come si dice in Italia “abbozzato”.
Allora la finta di Trump servì a gettare la palla in corner e azzerare le sconclusionate e false accuse alla Siria di avere usato armi chimiche (in realtà usate dai caschi Bianchi per accusare la Siria). Adesso la “finta” di Trump gli consente di frenare la macchina di guerra messa in moto da Israele e i suoi amici a Washington. Ma questa seconda “finta” si è già trasformata in una sconfitta duplice dell’America e di Trump.

Il mondo ha, per ora, evitato un conflitto su larghissima scala, e questo è un bene. Ma Trump ha perso la faccia perfino di fronte a una parte del suo elettorato. Una parte, non tutto. Ma l’assassinio di Soleimani ha detto, anche ai suoi più intelligenti sostenitori, che questo presidente non è al comando. Anzi è molto debole. Il toro impazzito dell’operazione Soleimani non è stato lui. Ma è lui, adesso, che deve pagare il prezzo. Dell’isolamento internazionale innanzitutto. L’Europa non l’ha seguito. È andata in ordine sparso, confusa come al solito. Ma non nella sua direzione. Conta poco, questa Europa, ma gli elettori europei non sono ancora arrostiti dalla manipolazione come quelli americani. E dunque i poveretti leader europei non possono accettare come normale l’idea di bombardare i monumenti della storia iraniana.

Ma il peggio è la perdita secca di Trump sul fronte iracheno. L’Iraq è perduto per gli Stati Uniti. È ovvio che gli USA non se ne andranno, come ha chiesto a gran voce il Parlamento di Baghdad. Non se ne andranno perché dovrebbero abbandonare anche la Siria (dove stanno solo perché possono appoggiarsi sulle basi in Iraq). Ma il loro “status” passa da quello di protettore a quello di occupante. E chi chiede loro di andarsene non sono soltanto gli sciiti iracheni, ma anche parte dei sunniti. E perfino il filo-americano e anti-iraniano sciita Mukhtada al-Sadr è stato costretto a chiedere l’uscita delle truppe USA. Restano solo i curdi iracheni, i cui capi sono già pronti a farsi pugnalare alle spalle da Washington (com’è accaduto ai curdi siriani), ospitando forse le truppe americane sul loro territorio in cambio della miserevole prospettiva di dividere il petrolio della regione con l’occupante e di trasformarsi in un formale protettorato congiunto di Tel Aviv e Washington.

Così un parlamento che era stato interamente comprato dai dollari USA è stato praticamente costretto a ribellarsi dopo avere ascoltato il terrificante racconto del primo ministro dimissionario Adel Abdul Mahdi. C’è un limite a tutto. A sentire lui i disordini che sono costati oltre 400 morti in Iraq, sono stati preannunciati da Trump in burrascosi colloqui telefonici nei quali il presidente americano chiedeva la metà dei proventi petroliferi in cambio della “liberazione” dell’Iraq da Saddam Hussein. E, come se non bastasse, imponeva di cancellare gli accordi con la Cina per la ricostruzione. E - quando Adel Abdul Mahdi gli disse che nelle piazze c’erano i cecchini che sparavano contemporaneamente contro i poliziotti iracheni e i dimostranti iracheni (sollevati con i sistemi delle rivoluzioni colorate) - “ricevetti una telefonata da Washington che mi si minacciava di morte. È a quel punto che mi sono dimesso”. Linguaggio mafioso, con la differenza che la mafia non preannuncia i suoi omicidi al telefono.

Il racconto sarebbe molto interessante anche per un uditorio ucraino, visto che appare assai simile a quanto accadde a Maidan nel febbraio del 2014, ma questo è un altro capitolo. Resta il fatto che adesso Washington è in uno stato simile al panico. Dopo il voto del parlamento iracheno, Baghdad ha ricevuto, in poche ore, tre risposte diverse da Washington: “Ce ne andiamo”. “Non ce ne andiamo, è stato un errore”. “Il vostro petrolio non ci serve, ma vi pentirete di quello che state facendo.”

Vedremo nei prossimi giorni come Trump e i suoi avversari interni si muoveranno. E come si muoveranno le truppe USA che occupano ancora il Medio Oriente (mentre Trump aveva detto di volersene andare). Ma, mentre l’America si trova già in un “out politico”, e deve pensare a un “out militare”, Vladimir Putin si reca prima a Damasco e poi ad Ankara, a dimostrare con la sua sola presenza che la Russia è “in”. Ha condannato l’assassinio di Soleimani. Non ha fatto mosse false, non ha gridato al lupo. Ha invitato tutti a non fare passi falsi. E ha parlato con la Cina e con l’Iran tenendo ferma la barra del timone. A Teheran, senza dubbio, ne hanno tenuto conto. E il toro infuriato di Washington ha dovuto subire il colpo.

A Trump qualcuno deve aver cercato di spiegare - dopo averlo minacciato di fargli perdere il sostegno di un gruppo di senatori repubblicani, se avesse fatto resistenza - che, forse, uccidendo Soleimani avrebbe perfino potuto guadagnare qualche punto nella corsa elettorale. Adesso, fatti tutti i conti, Trump è più prigioniero di quanto non fosse il 3 di gennaio. E allora la cosa più ragionevole da prevedere è che altri guai sono in vista.

Tratto da: it.sputniknews.com

Foto © Imagoeconomica