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di Aaron Pettinari e Lorenzo Baldo
Confermata la sentenza di primo grado. "Non ha commesso il fatto"

Dopo cinque ore di camera di consiglio la Corte d'Appello di Palermo, presieduta da Adriana Piras, ha emesso la sentenza nei confronti dell'ex ministro della Dc, Calogero Mannino, accusato di violenza o minaccia a corpo politico dello Stato, confermando l'assoluzione dei giudici di primo grado. La formula è sempre la stessa, in base all'articolo 530 del codice di procedura penale, per cui Mannino "non ha commesso il fatto", ma sempre con la specifica del secondo comma, ovvero la vecchia insufficienza di prove. Ciò significa che sussiste il fatto-reato ma quella trattativa tra Stato e mafia è stato commesso da altri, o meglio non ci sono abbastanza prove per dire che l’abbia commesso anche lui.
Per comprendere meglio le ragioni della sentenza, ovviamente, bisognerà attendere di leggere le motivazioni che saranno depositate entro 90 giorni.
I sostituti procuratori generali, Giuseppe Fici e Sergio Barbiera avevano chiesto una condanna a 9 anni di reclusione, così come avevano già fatto i pm in primo grado. Secondo l'accusa Mannino, che ha scelto di essere giudicato in abbreviato, era il soggetto che avrebbe dato il primo input, dopo l’omicidio Lima e temendo per la propria incolumità, al dialogo che, tramite i carabinieri del Ros, ha visto protagonisti pezzi delle istituzioni e mafiosi.
"Calogero Mannino non si è comportato da persona onesta di fronte alle ipotesi di minacce provenienti da Cosa nostra. A Mannino - affermava ancora il pg Giuseppe Fici, il 25 febbraio scorso in avvio della requisitoria del processo d'Appello, conclusasi il 6 maggio con la richiesta di pena - si contesta il complesso di tutte le minacce ricevute, conosciute e non, e le sue interlocuzioni con il maresciallo Guazzelli e con il generale Subranni per salvarsi la vita. Si contesta anche di avere avviato una discussione riservata con Bruno Contrada, all'epoca ai vertici del Sisde, per affrontare questioni relative alla sua sicurezza. Tutti soggetti opachi, vicini a Mannino, a partire dal generale Subranni da cui partirà l'input per avviare contatti con Vito Ciancimino e che consentirà poi a Riina di dire 'si sono fatti sotto'". Anche Barbiera, parlando dell'azione del politico Dc aveva parlato di "'turpe do ut des' per stoppare la strategia stragista avviata da Cosa nostra". Evidentemente le ulteriori testimonianze non hanno convinto il Collegio presieduto dalla Piras che oggi non ha ammesso l'acquisizione delle dichiarazioni del neo collaboratore di giustizia Filippo Bisconti, capomafia di Belmonte Mezzagno che dallo scorso dicembre ha iniziato a collaborare con la giustizia. Questi aveva accusato l'ex ministro di essere "affiliato alla cosca del suo paese, l'ho saputo dal boss di Corleone Rosario Lo Bue". E' noto che Mannino in questi anni è stato già assolto con sentenza definitiva dall'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa.
Ovviamente Mannino, che non era presente in aula al momento della lettura della sentenza, ha subito commentato: "Oggi parla la sentenza che conferma l'assoluzione e le assoluzioni in tutti gli altri processi in cui sono stato trascinato in questi anni. Adesso spero sia finita qui".
Poi è intervenuto anche l'avvocato, Marcello Montalbano: "Sicuramente le motivazioni di questa sentenza certificheranno in modo ormai definitivo è inattaccabile l'assoluta estraneità di Mannino da questa ipotesi accusatoria. Mannino si è sempre difeso dicendo 'A me non interessa se una trattativa c'è stata, io certamente non sono colpevole di questi fatti che mi vengono addebitati'. Lo ha detto fin dal primo momento nell'interrogatorio, sia in primo grado che in Appello".

Il processo d'Appello
Con l'Appello presentato dalla Procura contro le motivazioni della sentenza del gup Marina Petruzzella venivano ravvisate una serie di criticità.
Il processo ha visto anche la riapertura del dibattimento e sono stati risentiti la giornalista Sandra Amurri, l'ex presidente della Camera Luciano Violante, il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca (anch’egli imputato per il medesimo reato nel primo troncone del processo), uno dei fedelissimi del boss Totò Riina, Pino Lipari che, pur non avendo lo status di collaboratore di giustizia, ha reso alcune dichiarazioni agli inquirenti, e Nicola Cristella, ex capo scorta del vice capo del Dap degli anni delle stragi Francesco Di Maggio.
Durante la requisitoria i due Pg avevano ricostruito l'impianto accusatorio nei confronti del politico Dc sottolineando anche la "singolarità" di questo procedimento d'Appello: "Siamo di fronte ad una sentenza di assoluzione motivata in modo non adeguato. Ma, soprattutto la medesima circostanza accusatoria è stata pressoché accolta a carico dei coimputati (Mori, De Donno, Subranni, ndr) in altro processo con il rito ordinario in Corte d'Assise".
Infatti, la Corte d'Assise presieduta da Alfredo Montalto, ha condannato in primo grado a dodici anni gli ex generali del Ros Mario Mori e Antonio Subranni, a dodici anni l’ex senatore Marcello Dell’Utri, 8 anni per l’ex colonnello Giuseppe De Donno. E poi, a ventotto anni il boss Leoluca Bagarella e a 12 anni il boss Antonino Cinà, assolvendo l’ex ministro Nicola Mancino, “perché il fatto non sussiste”, dal reato di falsa testimonianza. Diversamente Massimo Ciancimino, il supertestimone del processo, è stato condannato a 8 anni per calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, è stato invece assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa.
I giudici del processo in ordinario hanno anche dichiarato il “non doversi procedere” nei confronti del collaboratore di giustizia Giovanni Brusca (anche lui imputato per l’art.338) per intervenuta prescrizione visto il riconoscimento delle attenuanti specifiche per i pentiti. E sempre “non doversi procedere” nei confronti del Capo dei Capi, Totò Riina, per “morte del reo”.
Dalla lettura delle motivazioni della sentenza Mannino si potrà anche capire che tipo di riflusso potrà avere sul processo d'Appello che si è aperto di fronte alla Corte d'Assise d'Appello, presieduta da Angelo Pellino.

In foto: un frame della lettura della sentenza

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