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di Lorenzo Baldo e Aaron Pettinari
Poco stupore per l’odierna assoluzione in appello di Calogero Mannino. Semmai un senso di profonda ingiustizia nei confronti di uno Stato che - salvo rare eccezioni - continua a non voler giudicare se stesso. Resta qualche domanda, sospesa, immobile, al di là della (scontata) contentezza dell’imputato e dei suoi avvocati. Perché Calogero Mannino non ha mai denunciato ufficialmente le minacce subite i primi mesi del 1992? Dopo la sentenza del Maxiprocesso e prima dell’omicidio dell’eurodeputato Salvo Lima, lo stesso Mannino, che aveva ricevuto nel febbraio a casa una corona di crisantemi, confidato al maresciallo dei Carabinieri Giuliano Guazzelli “Ora uccidono me o Lima”. Dopo il delitto Lima l’ex ministro rivela a Nicola Mancino “ora tocca a me”, e ad Antonio Padellaro (allora all’Espresso) “sono sulla lista nera”, proprio mentre il boss Giovanni Brusca lo stava pedinando per poterlo uccidere. Dopo l’omicidio di Guazzelli, avvenuto nell'aprile del '92, Mannino si incontra più volte a Roma con il generale del Ros Antonio Subranni, alla presenza anche dell’ex numero 3 del Sisde Bruno Contrada. Un dato, quest'ultimo, che si ricava proprio dalle agenda di Contrada dove vi è l'annotazione su un incontro con l’ex ministro per “parlare segnalazione cc e minacce di pericolo di cui si trova”. A tal proposito la sentenza di primo grado del 2018 al processo madre sulla trattativa Stato-mafia era stata alquanto circostanziata. “Tornando temporalmente alla prima metà dell'anno 1992 - avevano scritto i Giudici - possono ritenersi effettivamente provati tanto il timore (se non il terrore) di Calogero Mannino, subito dopo l'uccisione di Salvo Lima di subire anch'egli la punizione o la vendetta di ‘Cosa nostra’ per non essere riuscito a raggiungere il medesimo risultato preteso nei confronti di Salvo Lima o quanto meno per avere voltato le spalle a ‘Cosa nostra’ nel momento di maggiore difficoltà di questa dopo avere per molti anni instaurato con alcuni suoi esponenti rapporti che, seppure, con apprezzamento ex post, in concreto non avevano avuto una effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento delle capacità operative dell'associazione mafiosa”. Dal canto suo la Corte presieduta da Alfredo Montalto aveva evidenziato i suoi “comprovati rapporti con esponenti mafiosi quali risultano dalle sentenze pronunziate nei suoi confronti”. Rapporti che, al di là della sua assoluzione in abbreviato “apparivano in ogni caso ai mafiosi di buona ‘convivenza’”. A dimostrazione di ciò erano state citate diverse “prove dichiarative” di alcuni collaboratori di giustizia come Giovanni Brusca, Antonino Giuffrè, Francesco Onorato. Così come gli stessi Riccardo Guazzelli e Giuseppe Tavormina. Così come le pregnanti dichiarazioni dell’ex vicedirettore dell’Espresso Antonio Padellaro e della giornalista de Il Fatto Quotidiano Sandra Amurri.

lima salvo vito ciancimino

Salvo Lima e Vito Ciancimino


Mannino sapeva
“Tutte le fonti di prova esaminate - aveva sentenziato la Corte -, seppure di eterogenea natura (dichiarazioni di collaboranti di Giustizia, dichiarazioni testimoniali e risultanze documentali), convergono univocamente sulla logica conclusione che l'On. Mannino, ben consapevole della vendetta che ‘Cosa nostra’ intendeva attuare anche nei suoi confronti per non essere egli riuscito a garantire l'esito del maxi processo auspicato dai mafiosi, si sia rivolto, non già a coloro che avrebbero potuto rafforzare le misure già adottate per la sua sicurezza, bensì ad alcuni Ufficiali dell'Arma ‘amici’ e, innanzitutto, tra questi, al Gen. Subranni, al quale lo legava, essendo questi conterraneo, un rapporto di risalente conoscenza”. Per i Giudici vi era un ulteriore dato oggettivo: “Il Gen. Subranni, allora a capo del R.O.S., non aveva alcuna competenza per adottare concrete e specifiche misure dirette a preservare l'On. Mannino da eventuali attentati ed, infatti, non risulta che si sia adoperato, direttamente e quale Comandante del R.O.S. ovvero intervenendo su coloro che avevano quelle competenze, per migliorare o rafforzare le misure di protezione per I'On. Mannino medesimo. Costituisce, allora, logica ed inevitabile conclusione che l'intendimento dell'On. Mannino allorché ebbe a rivolgersi al Gen. Subranni non fosse quello di ottenere un miglioramento o rafforzamento delle misure di protezione (che, d'altra parte, come detto, nel suo pensiero, non lo avrebbero comunque ‘salvato’), ma quello diverso di attivare un canale che, per via info-investigativa, potesse, sì, acquisire più dettagliate notizie sugli intendimenti e sui movimenti di ‘Cosa nostra’, ma, inevitabilmente, perché altrimenti non avrebbe addirittura del tutto rinunziato alle misure di protezione assicurategli dalla Polizia di Stato, anche operare affinché il corso degli eventi per lui sfavorevole potesse essere in qualche modo mutato”.

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Il generale del Ros Antonio Subranni


Stato e mafia
“Ora - avevano evidenziato i Giudici della Corte d'Assise -, non è dato sapere come sia stata recepita ed attuata da Subranni quella più o meno esplicita sollecitazione del Mannino”, ma “è un dato di fatto incontestato che, dopo la strage di Capaci, tra la fine di maggio e l'inizio di giugno 1992, un ufficiale del R.O.S., l'odierno imputato De Donno, autorizzato - rectius, sollecitato dai suoi superiori Subranni e Mori - contatta Vito Ciancimino ed inizia a porre le basi di quel discorso che bene può racchiudersi in quella frase che, poi, ad un certo punto, sarebbe stata rivolta dal Col. Mori a Vito Ciancimino: ‘Ma signor Ciancimino, ma cos'è questa storia qua? Ormai c'è muro, contro muro. Da una parte c'è Cosa Nostra, dall'altra parte c'è lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente?”. Il riferimento esplicito è a quel passaggio riportato nella sentenza della Corte d'Assise di Firenze del 6 giugno 1998. “Si tratta, - avevano evidenziato i Giudici - di un approccio del tutto coerente con l'intendimento più o meno chiaramente esplicitato dal Mannino con la sua condotta fattuale, laddove, non può essere dubbio che l'approccio col Ciancimino nella sua qualità di possibile referente dei vertici mafiosi (perché questa, dichiaratamente, era la ragione di quel contatto all'indomani della strage di Capaci) costituiva un oggettivo invito all'apertura di un possibile dialogo con i vertici medesimi e, quindi l'accantonamento della strategia mafiosa nell'ambito della quale si collocava anche la possibile uccisione dell'On. Mannino”. Per la Corte d'Assise di Palermo quindi “la valutazione logica dei fatti” portava alla seguente conclusione: “Anche le preoccupazioni dell'On. Mannino non siano state estranee nella maturazione degli eventi poi definiti come ‘trattativa Stato-Mafia’”. Si trattava quindi di “un quadro probatorio già formato” in merito alla “esistenza dei fatti nei loro aspetti essenziali”, con tanto di prove “dirette”, o “indirette”, così come di “deduzioni di tipo logico”. “Può ragionevolmente ritenersi - avevano sottolineato i Giudici - che anche tale omicidio (del M.llo Guazzelli, ndr) si pone come antecedente logico-fattuale dell'iniziativa che di lì a poco Subranni, unitamente a Mori, avrebbe deciso di intraprendere per tentare un contatto diretto con i vertici dell'associazione mafiosa nelle persone dei suoi capi assoluti Salvatore Riina e Bernardo Provenzano”.

de donno mori ciancimino


Quell’insufficienza di prove
Alla sentenza di assoluzione in abbreviato del 2015, a dir poco “illogica e confusa”, così come era stata definita dal pool nel loro ricorso in appello, che ripercorreva il solco del vecchio articolo 530 per “insufficienza di prove”, si affianca quindi quella odierna sullo stesso ibrido binario. Va comunque ricordato che nel 2014 la Cassazione aveva respinto la richiesta di risarcimento di Mannino per ingiusta detenzione. I supremi giudici avevano ribadito che Mannino aveva “accettato consapevolmente l’appoggio elettorale di un esponente di vertice dell’associazione mafiosa (il boss Antonio Vella, ndr) e, a tale fine, gli aveva dato tutti i punti di riferimento per rintracciarlo in qualsiasi momento”. Diversi verdetti che contrassegnano l’epopea giudiziaria di Calogero Mannino sono indubbiamente contrastanti tra loro. Come è noto nel 2005 la Corte di Cassazione aveva annullato la precedente sentenza della Corte d'Appello di Palermo, quella che, ribaltando il verdetto di primo grado, aveva condannato il senatore a 5 anni e 4 mesi di reclusione. Le Sezioni unite della Suprema corte avevano sancito che in assenza del concretizzarsi di una condotta in favore dell'organizzazione mafiosa il reato di concorso esterno non poteva essere ravvisato. Ma se il demonio si vede nel dettaglio vale la pena evidenziare questa sfumatura, così come aveva fatto nel 2015, l’ex procuratore di Palermo, Giancarlo Caselli dopo la sentenza di assoluzione in abbreviato. “È un dato di fatto - aveva sottolineato l’ex magistrato - che all’assoluzione di Mannino (del 2005, ndr) si arriva perché la Cassazione - a processo in corso - modifica il proprio orientamento rispetto a quello vigente all’inizio del processo sul concorso esterno in associazione mafiosa. Mentre prima per il delitto di concorso esterno era sufficiente provare l’esistenza di un patto tra mafia e accusato, col nuovo orientamento la Cassazione richiede anche la prova di un ‘ritorno’ del patto in termini di effetti favorevoli all’imputato”.
Ogni commento risulta superfluo. Se la fiducia dei cittadini verso la magistratura è stata minata pesantemente dal recente scandalo del Csm targato Palamara, l’assoluzione odierna di un ex potente come Mannino - per insufficienza di prove - non fa che alimentare la disillusione collettiva che la legge non sia effettivamente uguale per tutti; con la conseguente equazione di una giustizia forte con i deboli e debole con i forti.

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