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di Aaron Pettinari
Tra acquisizione di documenti, riapertura di dibattimento e eccezioni di competenza ieri le richieste presentate alla Corte d'Assise d'appello

La richiesta era nell'aria da tempo: i legali di Marcello Dell'Utri vorrebbero chiamare a testimoniare l'ex Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi al processo trattativa Stato-mafia, giunto al secondo grado di giudizio. Ieri gli avvocati Francesco Centonze e Francesco Bertorotta (a cui nel collegio si aggiunge anche Tullio Padovani, ndr) hanno presentato le proprie richieste alla Corte d'assise d'appello presieduta da Angelo Pellino. Gli avvocati hanno preso la parola dopo che il giudice a latere, Vittorio Anania, ha terminato di esaminare i motivi di appello delle parti processuali rappresentate da Giuseppe De Donno, Mario Mori e Marcello Dell'Utri. Di fatto, era già emerso anche in precedenti udienze. Quasi tutte le difese, così come avevano fatto anche durante il primo grado, hanno annunciato di voler rappresentare l'eccezione di incompetenza sul processo e alla prossima udienza entreranno nel merito. Già nel luglio 2013 la Corte d'assise presieduta da Alfredo Montalto aveva respinto tutte le eccezioni sollevate dai legali degli imputati. Ora sul punto sarà anche chiamata a decidere la Corte di secondo grado (prossima udienza l'8 luglio, ndr).
Tornando alle richieste della difesa di Marcello Dell'Utri, che già sta scontando una condanna a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa e che è stato condannato in primo grado a 12 anni, dal principio ha chiesto la rinnovazione del dibattimento in appello e la citazione a deporre dell'ex premier Silvio Berlusconi. L'istanza era già stata indicata nell'atto di impugnazione. I giudici di primo grado, nelle motivazioni della sentenza, hanno confermato il ruolo di “cinghia di trasmissione” di Dell'Utri tra Cosa nostra e l'ex premier. E, si legge, nonostante non vi sia “prova diretta dell'inoltro della minaccia mafiosa da Dell'Utri a Berlusconi, perché solo loro sanno i contenuti dei loro colloqui, ci sono ragioni logico-fattuali che inducono a non dubitare che Dell'Utri abbia riferito a Berlusconi quanto di volta in volta emergeva dai suoi rapporti con l'associazione mafiosa Cosa nostra mediati da Vittorio Mangano”.
Secondo la difesa, il fatto che Berlusconi non sia mai stato sentito in aula, né in fase di indagine, rappresenta un vulnus da sanare. "E' indispensabile la testimonianza diretta del fatto o vittima della minaccia, Silvio Berlusconi - hanno sostenuto - in grado di riferire in merito all'eventuale minaccia che Marcello Dell'Utri ebbe a trasmettergli nel corso del 1994".
"La Corte - aveva spiegato l'avvocato nell'atto di appello per motivare la richiesta della citazione testimoniale -, con doti divinatorie, prima profetizza che Silvio Berlusconi, se chiamato a deporre si sarebbe certamente avvalso della facoltà di non rispondere e, poi, deduce da questo dato futuribile e privo di qualsiasi aggancio nell'istruttoria la superfluità e comunque la non assoluta necessità della sua testimonianza". "Si tratta evidentemente di argomentazioni prive di qualsiasi rilevanza rispetto ai presupposti di attivazione del potere-dovere del giudice di disporre un'integrazione probatoria - aveva proseguito - che, giova ribadirlo, ha lo scopo fondamentale di assicurare la 'completezza dell'accertamento probatorio'".
Tra le altre richieste presentate dalle parti vi sono anche quelle della difesa Cinà, per sentire i direttori delle carceri di Opera e Tolmezzo, ed ascoltare l'ex Presidente del Senato Grasso e Prestipino sulla vicenda della collaborazione con la giustizia mancata di Pino Lipari. A chiedere di risentire quest'ultimo è stato Giovanni Anania, legale di Leoluca Bagarella, che ha anche presentato richiesta di ascoltare nuovamente monsignor Fabbri dopo l'intervista andata in onda su Rai2 a seguito della visione del film di Sabina Guzzanti "La Trattativa".

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Marcello Dell'Utri © Imagoeconomica

Particolarmente articolate, corredate da una lunga serie di acquisizione di atti, le richieste degli avvocati del generale Mario Mori (Basilio Mio) e Giuseppe De Donno (Francesco Romito).
Ad esempio è stato chiesto nuovamente di acquisire le sentenze della Corte d'Assise di Catania del 2006, divenuta irrevocabile, e quella del Borsellino quater (primo grado), in cui si evidenzierebbe, a parere dei due difensori, in maniera inequivocabile che le motivazioni per cui vi è stata l'accelerazione della morte di Paolo Borsellino non è da ricondursi nella trattativa Stato-mafia, come invece hanno valutato i giudici del primo grado.
Ancora una volta il tentativo è quello di dimostrare che il reale motivo per cui il giudice palermitano sia stato ucciso è da ricercarsi nel famoso rapporto mafia-appalti e per farlo è già stata annunciata la richiesta di acquisizione di altri documenti come delle relazioni delle audizioni davanti al Csm in cui si parlerebbe del fatto che vi fu una riunione molto accesa il 14 luglio 1992, il giorno dopo la richiesta di archiviazione del fascicolo, in cui anche Paolo Borsellino avrebbe chiesto conto ai colleghi delle indagini portate avanti dai carabinieri.
Leggendo le motivazioni della sentenza del Borsellino quater si legge che "la sentenza n. 24/2006 della Corte di Assise di Appello di Catania ha esplicitato che la precedente pronuncia n. 1/2002 si è "limitata ad ipotizzare, senza peraltro pervenire ad alcun riscontro certo, quali possano essere stati i motivi che hanno impresso un'accelerazione improvvisa alla realizzazione della strage di via d'Amelio. Precisamente: l'intervento di potentati economici disturbati nella spartizione degli appalti; la presenza di forze politiche interessate alla destabilizzazione; la necessità di umiliare lo Stato in modo definitivo e plateale". Inoltre la sentenza della Corte di Assise di Appello di Catania aveva anche "sottolineato che i suindicati motivi, come rilevato dalla sentenza di annullamento con rinvio della Corte di Cassazione, non vengono a creare una frattura rispetto a quelli che determinarono la decisione della strategia stragista, ma si aggiungono ad essi. Inoltre, sempre la sentenza n. 24/2006 della Corte di Assise di Appello di Catania ha osservato come le ragioni dell’anticipata uccisione del giudice Borsellino siano state precisate dal collaborante Antonino Giuffrè, il quale, sulla base delle notizie apprese dopo la sua uscita dal carcere, aveva potuto comprendere come i timori di 'Cosa Nostra fossero basati essenzialmente su due motivi: la possibilità che il dott. Borsellino venisse ad assumere la posizione di Capo della Direzione Nazionale Antimafia, e, soprattutto, la pericolosità delle indagini che egli avrebbe potuto svolgere in materia di mafia e appalti".
Ma si dice anche che, in merito all'uccisione di Borsellino, "se la finalità fosse stata soltanto quella di eliminare un magistrato 'scomodo', non sarebbe stato necessario commettere un attentato di proporzioni gigantesche, come la strage di Via D’Amelio. Nella citata sentenza del 22 aprile 2006 della Corte di Assise di Appello di Catania è stato reiteratamente messo in luce l’obiettivo che costituisce il 'movente generale' del piano stragista e che consiste nel 'destabilizzare' la compagine statale: 'destabilizzazione che, è evidente, non poteva essere fine a sé stessa ma che doveva condurre alla ricerca di nuovi referenti istituzionali in sostituzione di quelli precedenti, dimostratisi del tutto inidonei'".

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Via d'Amelio fotografata dall'alto nei momenti successivi all'eplosione della bomba

Il movente del delitto e la trattativa
Dunque perché Paolo Borsellino fu ucciso? Il magistrato palermitano "rappresentava un pesantissimo ostacolo alla realizzazione dei disegni criminali non soltanto dell’associazione mafiosa, ma anche di molteplici settori del mondo sociale, dell’economia e della politica compromessi con 'Cosa Nostra'".
I giudici, riprendendo le parole scritte dai pm nella memoria conclusiva, affermano che "appare incontestabile come la strage di Via D’Amelio, inserita nella complessiva strategia stragista di cui si è ampiamente riferito, oltre a soddisfare un viscerale istinto vendicativo, si proponesse il fine di “spargere terrore” allo scopo di “destare panico nella popolazione”, di creare una situazione di diffuso allarme che piegasse la resistenza delle Istituzioni, così costringendo gli organi dello Stato a sedere da 'vinti' al tavolo della 'trattativa' per accettare le condizioni che il Riina ed i suoi sodali intendevano imporre". Secondo la Corte d'Assise, dunque, nella strage di Via D’Amelio, "era sicuramente riscontrabile la finalità di incutere terrore nella collettività con un’azione criminosa diretta contro Paolo Borsellino per tutto quello che egli rappresentava per la società italiana e volta a destabilizzare pesantemente le istituzioni, scuotendo la fiducia nell'ordinamento costituito. Ne consegue che la finalità terroristica è sicuramente riscontrabile nella strage di Via D’Amelio, la quale non fu soltanto un fatto di mafia, ma un fatto di terrorismo mafioso".
Tornando sempre alle dichiarazioni di Giuffrè si evidenzia come lo stesso ex boss di Caccamo ha riportato una significativa indicazione sul ruolo di Vito Ciancimino, espressa da Bernardo Provenzano allo stesso Giuffrè prima che quest’ultimo fosse in arresto, nel 1992: in un contesto nel quale cominciava a serpeggiare la voce che il Ciancimino fosse "uno sbirro", il Provenzano gli aveva comunicato: "Vito è in missione e si occupa, cerca di occuparsi dei nostri problemi".

Convergenza d'interessi
I giudici di quel processo, che parlano in maniera diretta di "disegno criminoso", evidenziano come l'occultamento della responsabilità di altri soggetti per la strage di via D'Amelio, nel quadro di una convergenza di interessi tra Cosa nostra e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l'opera del magistrato, potrebbe essere proprio uno dei moventi del depistaggio delle indagini. In particolare la Corte ricorda le parole del collaboratore di giustizia Antonino Giuffrè il quale ha riferito che "prima di passare all'attuazione della strategia stragista erano stati effettuati 'sondaggi' con 'persone importanti' appartenenti al mondo economico e politico". Giuffrè ha precisato che "questi 'sondaggi' si fondavano sulla 'pericolosità' di determinati soggetti non solo per l'organizzazione mafiosa ma anche per i suoi legami con ambienti imprenditoriali e politici interessati a convivere e a 'fare affari' con essa".
Affermazioni che a ben vedere non contrastano con le vicende della trattativa, anche se Giuffrè non ne ha mai sentito parlare. Ci sono altri collaboratori di giustizia che hanno raccontato di quel dialogo e gli stessi carabinieri ne hanno parlato durante le loro testimonianze.
Va ricordato, inoltre, che sono stati proprio gli imputati Mori e De Donno a lasciarsi sfuggire la parola trattativa, descrivendo il contatto con Ciancimino, durante la loro deposizione al processo per la strage di Firenze il 27 gennaio 1998. ("Dissi a Ciancimino, ormai c'è un muro contro muro. Ma non si può parlare con questa gente?") e a dimostrazione che quella non appare come un'attività investigativa va ricordato che non fu mai avvisata l'autorità giudiziaria e che nessun atto o rapporto è stato trovato negli archivi del Ros in merito.
I giudici di primo grado del processo trattativa, rispetto al rapporto mafia-appalti, hanno scritto: "Tale indagine non era certo l'unica né la principale di cui quest'ultimo (Borsellino, ndr) ebbe ad interessarsi in quel periodo (basti pensare che il dottor Borsellino, tra le altre indagini, stava raccogliendo le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia agrigentini e, da ultimo, anche del palermitano Gaspare Mutolo)" scrivono i giudici. Dunque, sul piano logico, i giudici spiegano come non vi è la "certezza che Borsellino possa aver avuto il tempo di leggere il rapporto mafia-appalti e di farsi, quindi, un'idea delle questioni connesse, mentre, al contrario, è assolutamente certo che non vi fu alcuno sviluppo di quell'interessamento nel senso di attività istruttorie eventualmente compiute o anche solo delegate alla P.G., che, conseguentemente possano aver avuto risalto esterno giungendo alla cognizione di vertici mafiosi, così da allarmarli e spingerli improvvisamente ad accelerare l'esecuzione dell'omicidio". Ugualmente non viene valutata come rilevante motivazione dell'accelerazione la possibilità di una sua nomina a Procuratore Nazionale Antimafia.
Ugualmente la difesa di Mori è tornata a chiedere l'acquisizione di una lunga serie di documenti che erano stati ritenuti superflui dai giudici di primo grado.
Prima che l'udienza fosse rinviata al prossimo 8 luglio a prendere la parola è stato anche l'avvocato Luca Cianferoni (legale di Bagarella) che ha insistito affinché la Corte possa fare chiarezza sulle intercettazioni di Riina a suo dire "provocato" da Alberto Lorusso.
Il processo Stato-mafia si è concluso lo scorso anno quando la Corte di assise di Palermo ha condannato, - per violenza e minaccia al corpo politico dello Stato - a dodici anni di carcere, oltre all'ex senatore Dell'Utri anche gli ex carabinieri del Ros Mario Mori e Antonio Subranni; stessa pena per Antonino Cinà, medico e fedelissimo di Totò Riina; otto anni di reclusione per l'ex capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno, 28 per il boss Leoluca Bagarella e 8 anni per Massimo Ciancimino (per la calunnia all'ex capo della Polizia, Gianni De Gennaro). Unico assolto, per il reato di falsa testimonianza, Nicola Mancino. Prescritto il reato per Giovanni Brusca.

Foto di copertina © Imagoeconomica

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