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di Aaron Pettinari
L'accusa ha esibito verbali in cui il pentito Bisconti parla dell'ex ministro

A luglio prevista la sentenza

Se non è un "colpo di scena" poco ci manca. Al processo d'Appello contro l'ex ministro Calogero Mannino, accusato di minaccia a corpo politico dello Stato (assolto in primo grado), che si celebra in abbreviato davanti al collegio presieduto da Adriana Piras, la Procura generale ha presentato nuove prove e di fatto ha richiesto alla Corte di valutare la riapertura del dibattimento per ascoltare il collaboratore di giustizia Filippo Salvatore Bisconti, ex boss di Belmonte Mezzagno arrestato a dicembre scorso nell'ambito dell'operazione dei carabinieri denominata "Cupola 2.0". "La Procura di Palermo - ha detto Fici in apertura di udienza - con una nota del 26 aprile 2019 e 2 maggio 2019 ci ha trasmesso i verbali di interrogatorio di Filippo Bisconti, effettuati in data 14 marzo e 21 marzo 2019, in cui il neo collaboratore ha riferito di avere appreso da Rosario Lo Bue che Calogero Mannino era affidato alla famiglia mafiosa del suo paese di origine di Agrigento. Mettiamo a disposizione della corte questi atti per le eventuali iniziative d'ufficio, ovvero la possibile riapertura del dibattimento per sentire il collaboratore di giustizia". Rosario Lo Bue, condannato nel 2007 ad 8 anni di reclusione, non è un capomafia qualunque. E'considerato membro della famiglia mafiosa di Corleone, per conto della quale ha gestito la latitanza di Bernardo Provenzano, fino all'arresto di quest'ultimo, avvenuto l'11 aprile 2006 in località Montagna dei cavalli, alle porte di Corleone.
Il sostituto procuratore generale Fici alla scorsa udienza aveva chiesto la condanna a 9 anni a conclusione della requisitoria ed oggi si sono concluse le discussioni delle parti civili, dopodiché a prendere la parola è stato il collegio difensivo di Mannino rappresentato dagli avvocati Carlo Federico Grosso, Grazia Volo, Marcello Montalbano e Carlo Bianchini. Collegio difensivo che si è opposto categoricamente alla riapertura dell'istruzione dibattimentale ritenendo la nuova prova "non attinente al capo di imputazione".
Come aveva già fatto in primo grado è stato il professore Carlo Federico Grosso a mettere in discussione la contestazione del reato (l'articolo 338): "Fin da subito voglio affermare la totale estraneità dell'onorevole Calogero Mannino in riferimento a quanto gli viene contestato. Per quanto riguarda la questione di diritto a mio parere l'articolo 338 non è applicabile, non è legittimo. Di certo è paradossale che la minaccia venga punita più pesantemente della violenza a corpo politico dello Stato".
Eppure già la sentenza di assoluzione di Mannino con la formula "per non aver commesso il fatto" dimostra che lo stesso giudice di primo grado ha ravvisato l'esistenza del reato.
Inoltre, come ribadito dalla sentenza della Corte di Cassazione del 2 settembre 2005. Con riferimento all’articolo 338 gli ermellini hanno di fatto sancito che: “Per corpi politici vengono intesi quegli organismi che svolgono una funzione politica, come il Parlamento, il Governo e le Assemblee Regionali, purché il fatto se configurabile non realizzi l’ipotesi del reato di cui all’art. 289, che sanziona invece la condotta quando essa sia impeditiva e non soltanto turbativa dell’attività del corpo politico minacciato”.
"Noi non abbiamo parlato della trattativa, perché non ci riguarda perché gli eventi non riguardavano Mannino - ha proseguito l'avvocato Grosso - Questa era stata la nostra scelta difensiva - ha aggiunto - nel processo di primo grado. I sette personaggi (tra cui la giornalista Sandra Amurri, l'ex presidente della Camera Luciano Violante, l'ex boss e collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, ndr), sentiti in seguito alla riapertura del dibattimento in appello, sono stati un flop totale. Si è cercato, da parte della pg, di tirar fuori il sangue dalle rape ma non vi è stato alcun elemento nuovo a supportare la tesi dell'accusa".
In realtà, però, durante la deposizione dell'ex boss di San Giuseppe Jato, Brusca, che ha riferito del progetto di attentato in confronti dell'ex ministro Dc, qualche elemento di novità era emerso nel momento in cui ha riferito di aver saputo che Mannino "era stato cercato da parte di Riina per alcune richieste, per aiutarlo ad aggiustare qualche processo o qualche altro favore. Tra gli anni '80 e '90 aveva cercato un contatto con lui tramite un tale notaio Ferraro, di Castelvetrano. L'interesse in particolare riguardava il processo Basile, con imputati Giuseppe Madonia, Vincenzo Puccio e Armando Bonanno".
Ugualmente, secondo la difesa Mannino, la Corte d'Appello è "vincolata a confermare la sentenza di primo grado non essendo emerse ulteriori prove decisive in seguito alla deposizione dei testi ammessi con la riapertura parziale del dibattimento". Anche l'avvocato Grazia Volo ha ribadito alcuni concetti per confermare la sentenza di primo grado: "Dal 1991, tra processi mediatici e giudiziari, Calogero Mannino è in servizio permanente di imputato, a combattere per dimostrare la propria innocenza. Penso che le vicende giudiziarie debbano avere un punto certo. Questo processo comincia nel 2012, ci troviamo impelagati in questa vicenda per molti aspetti incomprensibili: un processo che - ha proseguito - è fuori di dubbio, sta in piedi, dal punto di vista del diritto, in maniera piuttosto incerta, debole e inconsistente. E vista la inconsistenza dell'accusa, la scelta dell'abbreviato ci sembrava la più appropriata". La Volo ha poi criticato l'operato della Procura generale parlando di "scandalo intellettuale, oltre che ovviamente processuale" nel momento in cui "la requisitoria di primo grado sia stata utilizzata dalla Procura generale nell'atto di impugnazione per l'appello". Ugualmente la Volo ha anche parlato della sentenza del processo Stato-mafia nel procedimento con il rito ordinario dove "non si individuano gli estremi del concorso di Mannino. Anche se pudicamente dicono che la questione non li può riguardare perché il dibattimento non si può celebrare davanti a loro". In realtà i giudici di quel processo davano atto del dato che “tutte le fonti di prova esaminate, seppure di eterogenea natura (dichiarazioni di collaboratori di Giustizia, dichiarazioni testimoniali e risultanze documentali), convergono univocamente sulla logica conclusione che l'On. Mannino, ben consapevole della vendetta che ‘Cosa nostra’ intendeva attuare anche nei suoi confronti per non essere egli riuscito a garantire l'esito del maxi processo auspicato dai mafiosi, si sia rivolto, non già a coloro che avrebbero potuto rafforzare le misure già adottate per la sua sicurezza, bensì ad alcuni Ufficiali dell'Arma ‘amici’ e, innanzitutto, tra questi, al Gen. Subranni, al quale lo legava, essendo questi conterraneo, un rapporto di risalente conoscenza”. Ed è a partire da quella consapevolezza che, secondo l'accusa, Mannino avrebbe dato input alla trattativa, per salvarsi la vita.
La Corte presieduta da Adriana Piras ha rinviato il processo al 22 luglio sia per sciogliere la riserva sull'eventuale riapertura del processo, proposta in apertura dalla procura generale, che per entrare in camera di consiglio e poi emettere la sentenza.

Foto © Imagoeconomica

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