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mancino nicola telecamera c imagoeconomicadi Aaron Pettinari
Era stato accusato di falsa testimonianza. La sentenza diventa definitiva

Assolto dall'accusa di falsa testimonianza perché “il fatto non sussiste”. Così la Corte d'assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto, lo scorso 20 aprile aveva assolto l'ex ministro Dc, Nicola Mancino, alla lettura della sentenza del processo trattativa Stato-mafia. Una sentenza divenuta definitiva in quanto né la Procura di Palermo né la Procura generale ha appellato la sentenza di assoluzione dopo che, durante il processo, ne avevano chiesto la condanna a 6 anni di carcere. Il termine per l'impugnazione scadeva oggi e, come era logico aspettarsi, tutti gli altri imputati condannati hanno impugnato la sentenza. In particolare tutti i soggetti che rispondono di minaccia aggravata a Corpo politico dello Stato e che hanno avuto in primo grado pene molto pesanti: si tratta dei boss Leoluca Bagarella (28 anni) e Nino Cinà (Totò Riina, pure imputato, è morto lo scorso anno), di Massimo Ciancimino (8 anni per calunnia aggravata e di un'accusa poi caduta, quella di concorso in associazione mafiosa), Marcello Dell'Utri (12 anni), e degli alti ufficiali del Ros dei carabinieri Mario Mori (12 anni), Antonio Subranni (12 anni) e Giuseppe De Donno (8 anni).
Secondo l'accusa Mancino avrebbe detto il falso, negando che l'allora Guardasigilli Claudio Martelli, già nel '92, gli avesse accennato dei suoi dubbi sull'operato dei carabinieri di Mori e sui suoi rapporti con l'ex sindaco mafioso Vito Ciancimino.
Nelle motivazioni della sentenza su questo punto si legge che "ben potrebbe il teste Martelli non ricordare con precisione e completezza l'incidentale riferimento fatto a Mancino sull'attività del R.O.S. (e, quindi, anche il cenno a Vito Ciancimino) nel contesto di un incontro nel quale vennero affrontati molti argomenti e ben potrebbe Mancino, a sua volta, non ricordare il medesimo incidentale riferimento riguardante una problematica per lui, in quel momento, sicuramente secondaria rispetto ai gravosi impegni che lo attendevano alla sua prima esperienza di Ministro per di più in un dicastero particolarmente esposto sul versante dell'ordine pubblico. Ma, sia in un caso che nell'altro, non potrebbe di certo pervenirsi alla affermazione della sussistenza del reato di falsa testimonianza ipotizzato a carico di Mancino”.
E poi ancora scrivono i giudici che "non è stato possibile acquisire sufficienti elementi” sul fatto che il Ministro dell'Interno Vincenzo Scotti fosse stato defenestrato in favore di Mancino “per volere del Presidente della Repubblica Scalfaro o di coloro che all'interno della Democrazia Cristiana auspicavano un ammorbidimento della politica di forte e intransigente contrasto al fenomeno mafioso”.
Nelle motivazioni, comunque, si evidenzia anche che le sollecitazioni avanzate da Nicola Mancino all'allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano quando, nel 2012, l'ex ministro lamentava l'assenza di un coordinamento investigativo nelle indagini condotte dai pm di Firenze, Palermo e Caltanissetta, erano "irricevibili" anche se quel comportamento
per i giudici aveva una “posizione di 'neutralità' rispetto alla odierna contestazione di falsità della testimonianza” in quanto appare “compatibile anche con lo stato d'animo di un soggetto che si sente ingiustamente accusato di non dire il vero”.

Foto © Imagoeconomica

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