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riina aulabunker ucciardone c getty images franco origliaLa valutazione delle intercettazioni in carcere nelle motivazioni della sentenza Stato-mafia
di Aaron Pettinari
"La Corte, esaminate attentamente le trascrizioni delle intercettazioni sopra soltanto sintetizzate, non esita a ritenere che, dopo le note dichiarazioni di Tommaso Buscetta che per la prima volta squarciarono il velo sulla struttura di 'cosa nostra' oltre che su molti delitti, si è in presenza del più importante documento di valore storico utile a comprendere l'evoluzione del fenomeno mafioso nel trentennio che ha visto, dalla metà degli anni sessanta, l'ascesa e la conquista del potere in "cosa nostra" da parte dei C.d. 'corleonesi'". E' questa la valutazione che i giudici del processo trattativa Stato-mafia fanno delle parole dette dal Capo dei capi, Salvatore Riina, nei colloqui registrati durante l'ora d'aria con il capomafia pugliese Albero Lorusso.
In quelle intercettazioni del 2013, il boss corleonese affronta le vicende relative alla sua "ascesa" criminale, "dall'infanzia a Corleone e dai primi rapporti con il noto capo mafia Luciano Liggio, sino a quando, rompendo ogni indugio, decise sostanzialmente di scatenare la "guerra" contro coloro che fino ad allora avevano guidato Cosa nostra (i capimafia Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti, ndr), accentrando su di sé ogni potere.
Nelle motivazioni della sentenza quelle conversazioni vengono ritenute rilevanti partendo dal presupposto che Riina "certamente ignorava di essere intercettato". Un convincimento che si ricava "dal contenuto delle confidenze fatte al suo interlocutore anche riguardo ai suoi più efferati crimini e ad episodi della sua vita familiare e personale, nonché, in qualche caso, persino a beni acquistati con i proventi illeciti mai individuati".
Ma Riina ha anche parlato dei crimini più efferati "l'omicidio del Procuratore Scaglione (del quale, per la prima volta, viene indicato uno degli esecutori materiali in Bernardo Provenzano), l'omicidio del Col. Russo, l'omicidio di Stefano Bontate, l'omicidio del Gen. Dalla Chiesa e della moglie, la strage del 30 novembre 1982 nella quale furono decimati gli esponenti delle cosche palermitane che si contrapponevano ai corleonesi, la strage di via Pipitone Federico nella quale perse la vita anche il Cons. Chinnici, l'attentato non riuscito dell'Addaura ai danni del Dott. Falcone, l'omicidio Lima e, infine, le più recenti stragi di Capaci e di via D'Amelio". "A ciò - prosegue la corte nella valutazione - si aggiungano i riferimenti alla vicenda dei c.d. "scappati", risalente agli anni ottanta, ma che ha avuto anche più recenti sviluppi di grande interesse per la visione delle dinamiche interne a Cosa nostra, ai rapporti con i politici con la conferma dell'appoggio dato al Partito Socialista in occasione delle elezioni politiche del 1987 e la delusione per la successiva opera dell'On. Martelli, la conferma dell'estorsione ai danni di Silvio Berlusconi e del pagamento, da parte di quest'ultimo, di ingenti somme di denaro a "Cosa nostra", nonché alle vicende che hanno riguardato l'On. Andreotti o l'arresto dello stesso Riina". E non si può dimenticare che, sempre in quei colloqui, il sanguinario boss corleonese ha esplicitato vere e proprie condanne a morte nei confronti del pm Nino Di Matteo ("E allora organizziamola questa cosa! Facciamola grossa e non ne parliamo più" - e di don Luigi Ciotti.
Così, uno dopo l'altro, dalla Corte sono stati messi in fila quelli elementi che ritiene rilevanti per il processo.
Dal "Riina dixit" i giudici trovano conferme sulla decisione dello stesso capomafia, "di compiere le stragi del 1992 e ciò non soltanto per dare esecuzione ad una 'condanna a morte' di questi ultimi risalente nel tempo ma, almeno quanto al Dott. Falcone, per vendicarsi degli interventi attribuiti a quest'ultimo finalizzati alla sostituzione del designato Presidente della Corte di Cassazione sul quale Cosa nostra faceva affidamento".
Ugualmente importante il dato che "ad un certo momento, Salvo Lima aveva detto che non era più in grado di parlare con Giulio Andreotti", e che "mentre l'esecuzione della strage di Capaci è stata pianificata, studiata ed organizzata con largo anticipo, la strage di via D'Amelio è stata eseguita a seguito di una improvvisa accelerazione maturata nei giorni immediatamente precedenti".
Dalle conversazioni con Lorusso emergono anche le informazioni "relative alla contrarietà alla decisione stragista, seppur non accompagnata da un'effettiva dissociazione per timore della reazione di Riina, manifestata tanto da Provenzano, peraltro, definito, in generale, come soggetto da qualche tempo divenuto 'titubante' a commettere delitti cosÌ eclatanti e, quindi, 'ombra di se stesso'". La Corte evidenzia anche che, dalle parole di Riina, si evince "che nella abitazione tardivamente perquisita, contrariamente a quanto ancora in questo processo ha tentato di sostenere la difesa dell'imputato Mori, v'era effettivamente una cassaforte". Il boss corleonese dice anche che nella cassaforte non vi era nulla perché "teneva tutto a mente". Una dichiarazione secondo i giudici "smentita dal fatto che alcune annotazioni scritte, chiaramente riferibili ad attività dell'associazione mafiosa, vennero rinvenute in possesso del Riina in occasione del suo arresto". Quella negazione, è scritto nella sentenza, "va piuttosto ricondotta, anche in questo caso, alla esaltazione del capo infallibile che in più occasioni il detenuto ha voluto rappresentare al proprio interlocutore". Inoltre la Corte evidenzia come "lo stesso Riina ebbe a percepire l'anomalia della mancata perquisizione della sua abitazione in occasione del suo arresto, tanto da manifestare evidente meraviglia perché in tal modo era stato consentito alla moglie ed ai figli di allontanarsi da quella casa ed ai nipoti addirittura di svuotarla".

Riina veniva "cercato"
I giudici, in riferimento all'intercettazione in cui il Capo dei capi sostiene di non aver intavolato alcuna trattativa con il Ministro Mancino e più in generale con le Istituzioni, spiegano che "va precisato che la prima affermazione sulla negazione della trattativa (in generale, non col Ministro Mancino, che effettivamente, in termini così personalizzati, non v'è mai stata, come si è già detto e ancora si dirà nella sentenza) va evidentemente ricondotta al ruolo autoattribuitosi dal Riina di colui che non chiedeva e che veniva 'cercato' e, quindi, imponeva le sue condizioni con la minaccia stragista".

I dubbi sul Papello
E se Riina sostiene di non aver scritto nessun papello la Corte conferma che il collaboratore di giustizia Brusca, in realtà, non ha mai visto alcun "papello". Inoltre, per quanto riguarda il documento fornito da Massimo Ciancimino, si rilevano diversi dubbi ipotizzando anche una probabile falsificazione del documento, senza che "però, ciò escluda che altri (e, tra questi, anche Cinà prima e Vito Ciancimino poi) abbiano potuto, ad un certo punto, trascrivere le condizioni poste da Salvatore Riina per veicolarle a coloro che le avevano, di fatto, sollecitate dicendo di rappresentare le Istituzioni nelle più alte sue espressioni".

Il ruolo di Provenzano
Ancora i giudici sottolineano altri elementi che sono tracciati dalle conversazioni in carcere di Riina. Ad esempio il fatto che questi aveva lasciato a Provenzano "disposizioni affinché continuasse nella strategia stragista, per la quale vi erano uomini di valore disponibili, ma che Provenzano aveva sposato la linea trattativista con i Carabinieri non condivisa dallo stesso Riina" mentre successivamente "Provenzano era stato indotto da qualcuno ad abbandonare la strategia di violento contrasto con lo Stato voluta dallo stesso Riina".
Ed è sempre Riina, nel suo flusso di coscienza durante la socialità, a spiegare come "Provenzano, contrario a proseguire nella strategia stragista, poi, aveva convinto Bagarella a compiere le stragi fuori dalla Sicilia". Un cambio di rotta non condiviso da 'U curtu, "che avrebbe voluto che si continuasse la strategia stragista in Palermo". Vi erano stati anche i commenti su Bagarella che "aveva assecondato l'iniziativa trattativista di Provenzano attendendo la risposta alle richieste di quest'ultimo".

"Vendere morti"
E tra i passaggi più significativi individuati nelle varie conversazioni viene considerata come una "straordinaria conferma" per la condotta di minaccia o attentato a Corpo politico dello Stato, la frase detta da Riina il 18 agosto 2013: "io o' guviernu c'è vinniri (inc.) muorti c'è vinniri, o' guviernu muorti c'hannu a dari...". Una dichiarazione chiave che dimostra come la strategia stragista era finalizzata ad ottenere cedimenti da parte del Governo della Repubblica.

Quel contatto con Berlusconi
Sempre nelle dichiarazioni di Riina, per i giudici vi è la conferma che dopo il suo arresto "Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella cercarono di contattare Berlusconi tramite Dell'Utri e Vittorio Mangano"; "che Vittorio Mangano ebbe effettivamente a recarsi più volte a Milano per contattare, attraverso Dell'Utri, Berlusconi"; "che Vittorio Mangano ebbe effettivamente a parlare con Dell' Utri col quale, peraltro Riina aveva già da prima instaurato un proprio contatto così trovando conferma quanto riferito da Salvatore Cancemi secondo cui, ad un certo momento, Riina lo aveva sollecitato a dire a Vittorio Mangano di mettersi da parte nei rapporti con Dell'Utri e Berlusconi perché questi erano già 'nelle mani' dello stesso Riina"; "che effettivamente, fino a quando era stato arrestato, Riina aveva "snobbato" Berlusconi non ritenendo che fosse abbastanza importante, pur confermando pienamente il ruolo di intermediario svolto dal DelI'Utri ed il conseguente pagamento di ingenti somme di denaro da parte di Berlusconi"; "che anche Riina aveva riposto le proprie speranze sul Governo Berlusconi".

Lorusso solo una "dama di compagnia"?
I giudici si sono infine interrogati sul ruolo del compagno di socialità del "Capo dei capi", Alberto Lorusso. Una figura che aveva attirato anche le attenzioni degli inquirenti che, perquisendo la sua cella, ritrovarono una lettera scritta con l'alfabeto fenicio e in cui comparivano parole come “Attentato”, “papello” e “Bagarella”.
I giudici della Corte d'Assise di Palermo spiegano che quello del boss pugliese è un ruolo "non semplicemente riconducibile a quello dell'occasionale co-detenuto del carcere cui soltanto casualmente è toccato il compito di fare da 'dama di compagnia' al più noto detenuto Salvatore Riina". I giudici, dunque, rilevano che il tenore delle conversazioni spesso introdotte o provocate dal boss pugliese e le conoscenze che questi manifesta, non soltanto su questioni giuridico-sociali di ampio respiro, ma soprattutto su vicende processuali concernenti la mafia siciliana e l'imputato Riina, "certamente trascendono quelle che possono essere acquisite da un soggetto detenuto comunque appartenente ad un contesto criminale ben diverso sotto molteplici profili".
Dubbi che aumentano proprio a causa del complessivo atteggiamento del Lorusso che "in modo ora accondiscendente, ora esaltatorio, ora adulatorio, chiaramente 'provoca' Riina conducendolo a parlare delle vicende personali".
A prescindere dal ruolo di Lorusso, "anche fosse stato quello di 'agente provocatore' a tal fine istruito", la Corte ritiene che, "comunque, non possa residuare alcun dubbio sulla assoluta spontaneità e genuinità delle risposte e dei racconti del suo interlocutore, l'imputato Salvatore Riina".

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Salvatore Riina e Alberto Lorusso durante l'ora d'aria nel carcere di Opera


Le dichiarazioni raccolte dagli agenti del "GOM"
Da ultimo la Corte ha espresso le proprie valutazioni sulle dichiarazioni raccolte dagli agenti del GOM Michele Bonafede e Francesco Milano.
I due avevano redatto una relazione di servizio su alcune esternazioni che il capomafia aveva fatto il 21 ed il 31 maggio del 2013.
Ed è in una di queste occasioni che Riina disse "Io non ho cercato a nessuno, erano loro che cercavano me".
Secondo la Corte, tenuto conto anche di quanto emerso nel controesame con le contestazioni su quanto riferito inizialmente da Bonafede, "può escludersi che in quella occasione Riina abbia anche aggiunto le parole 'per trattare'". Un ricordo "impreciso", probabilmente "fuorviato, a distanza di tempo dall'accaduto, dal significato che egli allora attribuì alla esternazione del Riina perché avvenuta nel contesto della sua traduzione per partecipare all'udienza, appunto, sulla c.d. 'trattativa'". "Tuttavia - si legge ancora - proprio per tale contesto nel quale è stata pronunziata la frase prima ricordata, non può esservi alcun dubbio che Riina, dicendo che era stato 'cercato', si sia riferito alla 'trattativa', perché altrimenti, se si fosse riferito, ad esempio, alla sua latitanza nel ricordare che 'erano loro che lo cercavano', non avrebbe alcun senso logico la frase precedentemente, ma in continuazione, pronunziata secondo cui, invece, egli 'non aveva cercato nessuno'". La Corte poi rileva che una tale conclusione trova conferma anche da un'intercettazione del 10 ottobre 2013, laddove Riina disse a Lorusso: "... Riina fù trattatu ... no chi Riina trattava ... fù Riina trattatu ... vui atri trattauvu a Riina ... ".
Per quanto riguarda le dichiarazioni raccolte dall'agente Cosimo Chiloiro, infine, la Corte le ritiene di "scarsa rilevanza ed utilità nel presente processo se non nelle parti in cui confermano da un lato il giudizio poco lusinghiero di Riina su Provenzano ("...mio cognato mi ha detto che Bino era uno sbirro...")". Tra registrazioni, trascrizioni, audio e verbali anche Riina, che salvo qualche eccezione non ha quasi mai saltato un'udienza, ha detto la sua in questo processo. Un contributo all'accertamento della verità tanto inatteso quanto importante.

Foto di copertina © Getty Images/Franco Origlia

Dossier Processo trattativa Stato-Mafia

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