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mancino napolitano c imagoeconomicadi Miriam Cuccu
Sono classificate come “irricevibili” le sollecitazioni avanzate da Nicola Mancino all'allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano quando, nel 2012, l'ex ministro lamentava l'assenza di un coordinamento investigativo nelle indagini condotte dai pm di Firenze, Palermo e Caltanissetta. È scritto nero su bianco nelle motivazioni della sentenza trattativa Stato-Mafia che, sebbene abbia assolto Mancino dall'accusa di falsa testimonianza, ha dedicato ampio spazio al fatto che “ad un certo momento, tra gli scopi perseguiti dal Mancino abbia assunto rilievo principale anche quello di sottrarsi ad un ulteriore confronto con l'Onorevole Martelli (relativo ai colloqui tra i carabinieri del Ros e Vito Ciancimino, che lo stesso Martelli avrebbe fatto a Mancino, ndr) nel timore che si potesse dare credito alla versione dei fatti di quest'ultimo e che da ciò potessero derivare conseguenze negative per lo stesso Mancino in tema di falsa testimonianza” come è poi effettivamente accaduto. Ma anche che “l'intendimento che ha mosso l'imputato sia stato quello di sottrarre, in qualche modo, alla Procura della Repubblica di Palermo le indagini sulla C.d. 'trattativa Stato-Mafia”.
“Non può esservi alcun dubbio”, evidenziano quindi i giudici, che “le sollecitazioni del Mancino si pongono al di fuori di ciò che l'ordinamento consente”. Sollecitazioni che, si legge, non potevano essere cestinate per ragioni di “cortesia istituzionale” nei confronti “della Presidenza della Repubblica che si era fatta tramite per la trasmissione” avendo poi "richiesto di essere informata dell'esito delle stesse seppure con riferimento alla sola questione del coordinamento delle indagini espressamente citata nella lettera del Segretario Generale”. “Tale anomalia - spiega la sentenza - è stata certamente colta sia dagli uffici della Presidenza della Repubblica, sia dalla Procura Generale della Cassazione, sia dal Procuratore nazionale antimafia”. La sollecitazione di Mancino, però, “è rimasta priva di concreto sbocco, poiché tutti i soggetti a vario titolo coinvolti” a partire dall'allora Procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso, che “ebbe decisamente ad escludere la pur ventilata ipotesi dell'avocazione delle indagini in corso a Palermo” sono stati “particolarmente attenti a non travalicare i limiti delle proprie rispettive competenze”. Il comportamento di Mancino, ad ogni modo, ha per i giudici una “posizione di 'neutralità' rispetto alla odierna contestazione di falsità della testimonianza” in quanto appare “compatibile anche con lo stato d'animo di un soggetto che si sente ingiustamente accusato di non dire il vero”.
“Certo, non v'è dubbio - è la considerazione finale - che la laurea in giurisprudenza, la rivendicata professione di avvocato e la pregressa titolarità di cariche istituzionali, avrebbero dovuto consentire al Mancino di percepire l'inammissibilità - oltre che l'inopportunità - delle sue sollecitazioni”.

La defenestrazione di Scotti
“Non è stato possibile acquisire sufficienti elementi”, scrivono i giudici, sul fatto che il Ministro dell'Interno Vincenzo Scotti fosse stato defenestrato in favore di Mancino “per volere del Presidente della Repubblica Scalfaro o di coloro che all'interno della Democrazia Cristiana auspicavano un ammorbidimento della politica di forte e intransigente contrasto al fenomeno mafioso”. “Una lettura diversa della vicenda - sostiene infatti la Corte - è possibile ove questa sia inserita nel contesto delle dinamiche interne di un partito qual era allora quello della Democrazia Cristiana” che non di rado erano caratterizzate da “criteri di regolamento interno dei rapporti di forza tra le diverse 'correnti'” e “con la sola finalità del proprio rafforzamento perseguito con l'accaparramento dei posti di potere che più avrebbero garantito ritorni in termini di consenso elettorale”. “Se non v'è certezza che effettivamente i fatti (quelli relativi all'avvicendamento del Ministro dell'Interno Scotti) si siano svolti secondo la prospettazione accusatoria, - argomenta la sentenza - allora ed evidentemente, non può certo sostenersi che il diverso racconto degli accadimenti a suo tempo offerto dal teste Mancino al Tribunale di Palermo sia falso”. Inoltre, aggiungono i giudici, “non v'è alcuna prova che Mancino abbia chiesto l'attribuzione proprio (ed, eventualmente, esclusivamente) del Ministero dell'Interno con la finalità di scalzare da tale dicastero Scotti”.
Tuttavia, è l'analisi dei giudici, “l'assenza di una comprensibile e pubblica esplicitazione delle reali ragioni di quella sostituzione” di Scotti, autorizzava a ritenere “che si volesse a quel punto cambiare la linea politica del Ministero dell'Interno”. Fatto che indusse da un lato Cosa nostra “a ritenere che un qualche effetto per essa favorevole era stato prodotto dalla strategia culminata sino ad allora nella strage di Capaci e che vi era la possibilità di 'trattare' per ottenere qualche beneficio in cambio della cessazione della strategia stragistica”, dall'altro “taluni esponenti delle Forze dell'Ordine a ritenere che si potesse a quel punto portare avanti una linea investigativa (non apprezzata - e che, quindi, non sarebbe stata mai avallata - da Scotti) di ricerca di contatti con i vertici dell'organizzazione mafiosa per raggiungere il medesimo obiettivo della cessazione delle uccisioni di esponenti politici e delle Istituzioni eventualmente mediante la cattura di quegli esponenti mafiosi che ne apparivano essere gli istigatori (Riina ed i suoi più fidati sodali)”.

La conoscenza della trattativa
Mancino avrebbe inoltre saputo della trattativa, secondo la pubblica accusa, in quanto “questi colloca già nel 1992 la conoscenza della spaccatura interna a 'cosa nostra' tra un'ala militarista facente capo a Riina ed un'ala trattativista facente capo a Provenzano”. Pertanto, sostenevano i pm, “nel 1992 quella divisione interna a 'Cosa nostra' poteva essere nota soltanto a coloro che avevano intrapreso la "trattativa" con i vertici mafiosi attraverso Vito Ciancimino e quindi l'ex ministro “ha mentito quando il 24 febbraio 2012 ha espressamente negato tale conoscenza”. La Corte, tuttavia, ha rilevato che Mancino “ha sovrapposto i ricordi del 1992 con quelli del 1993, fatto non certo inspiegabile stante il lungo tempo trascorso quando ebbe a essere, appunto, audito dinanzi alla Commissione Parlamentare d'Inchiesta sul fenomeno della mafia (oltre diciotto anni dopo)”.

Il dialogo Ros-Ciancimino nei ricordi di Martelli
Quanto all'incontro tra Mancino e l'ex ministro della giustizia Claudio Martelli nel qual si sarebbe parlato dell'operato del Ros, si legge ancora, “ben potrebbe il teste Martelli non ricordare con precisione e completezza l'incidentale riferimento fatto a Mancino sull'attività del R.O.S. (e, quindi, anche il cenno a Vito Ciancimino) nel contesto di un incontro nel quale vennero affrontati molti argomenti e ben potrebbe Mancino, a sua volta, non ricordare il medesimo incidentale riferimento riguardante una problematica per lui, in quel momento, sicuramente secondaria rispetto ai gravosi impegni che lo attendevano alla sua prima esperienza di Ministro per di più in un dicastero particolarmente esposto sul versante dell'ordine pubblico. Ma, sia in un caso che nell'altro, non potrebbe di certo pervenirsi alla affermazione della sussistenza del reato di falsa testimonianza ipotizzato a carico di Mancino”.

Foto © Imagoeconomica

Dossier Processo trattativa Stato-Mafia

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