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La Corte d'Assise conferma che quel dialogo indusse Cosa Nostra a compiere nuovi eccidi

“E’ ferma convinzione della Corte che senza l'improvvida iniziativa dei Carabinieri e cioè senza l'apertura al dialogo sollecitata ai vertici mafiosi che ha dato luogo alla minaccia al Governo sotto forma di condizioni per cessare la contrapposizione frontale con lo Stato, la spinta stragista meramente e chiaramente di carattere vendicativo riconducibile alla volontà prevaricatrice di Riina, si sarebbe inevitabilmente esaurita con l'arresto di quest'ultimo nel gennaio 1993”. E’ decisamente un record quello stabilito oggi dalla Corte d'Assise di Palermo. Che, nei 90 giorni previsti per legge, ha depositato le motivazioni della sentenza sulla trattativa Stato-mafia. Basterebbe questo passaggio per comprendere l’importanza storica di questa sentenza. L’eccezionalità di depositarla proprio il giorno dell’anniversario della strage di via D’Amelio rappresenta inoltre un segnale inequivocabile. Che immancabilmente si pone di contraltare alle strumentali delegittimazioni nei confronti del pool di Palermo, in particolare verso il pm Nino Di Matteo, la cui persona è stata ingiustamente accostata al capitolo del depistaggio delle prime indagini sulla strage di via D’Amelio. Ma quelle che contano ora sono le pagine della sentenza firmata dal Presidente della Corte d'Assise Alfredo Montalto, dal giudice a latere Stefania Brambille e da sei giudici popolari.

L’estrema gravità
Per spiegare “la gravità dei fatti ricondotti alla fattispecie criminosa per la quale va riconosciuta la responsabilità penale degli imputati condannati” i giudici entrano nel dettaglio. Per farlo focalizzano il fattore temporale e cioè quando si è realizzata questa trattativa Stato-mafia: “all'indomani di una delle più gravi stragi della storia della Repubblica, qual è stata quella di Capaci, e mentre venivano reiterate non meno gravi stragi (da quella di via D'Amelio sino a quelle del 1993, senza dimenticare il tentativo dello stadio Olimpico di Roma che, se fosse riuscito, avrebbe verosimilmente messo definitivamente in ginocchio le Istituzioni), sia per le complessive modalità dell'azione tipiche del ricatto mafioso elevato qui, però, all'ennesima potenza”. Non ha alcuna remora la Corte d'Assise quando evidenzia il “danno” e il “pericolo” che questa trattativa ha comportato alle Istituzioni “sia per le materiali conseguenze che ne sono derivate (non solo le stragi, ma anche gli innumerevoli attentati omicidiari che hanno caratterizzato il biennio 1992-1994 tutti collegati, a vario titolo, alla strategia mafiosa che, parallelamente alla minaccia, mirava ad ottenere il cedimento dello Stato), sia per la compromissione del funzionamento delle più alte Istituzioni preposte alla vita democratica del Paese fortemente influenzate dall'incombente minaccia mafiosa”.

I “salvatori della Patria”
Vengono di seguito ricordati alcuni passaggi delle arringhe dei difensori dei Carabinieri imputati: Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno. Era stato ritenuto che la specifica “iniziativa” dei loro assistiti (i contatti e il dialogo con Cosa Nostra, ndr) avrebbe “scongiurato più gravi lutti allo Stato” e quindi avrebbero dovuto meritarsi il riconoscimento di “salvatori della Patria”. Nulla di più falso. “E’ ferma convinzione della Corte - si legge nel documento - che senza l'improvvida iniziativa dei Carabinieri e cioè senza l'apertura al dialogo sollecitata ai vertici mafiosi che ha dato luogo alla minaccia al Governo sotto forma di condizioni per cessare la contrapposizione frontale con lo Stato, la spinta stragista meramente e chiaramente di carattere vendicativo riconducibile alla volontà prevaricatrice di Riina, si sarebbe inevitabilmente esaurita con l'arresto di quest'ultimo nel gennaio 1993”. I Giudici ribadiscono quindi che “in assenza del precedente segnale di cedimento dello Stato percepito dai mafiosi (percezione determinata unicamente dall'azione dei Carabinieri che dicevano - o facevano credere - di essersi mossi a nome del Governo), non avrebbe trovato terreno fertile la speranza di potere ottenere benefici dall'azione stragista che sino quel momento aveva prodotto soltanto l'inasprimento del regime carcerario e, appunto, l'arresto di Salvatore Riina. Per poi sottolineare con forza: “E, invece, al contrario, è stata proprio la constatazione che le stragi del 1992 avevano smosso qualcosa nell'apparentemente granitica fermezza che da qualche tempo, grazie all'impulso incessante di Giovanni Falcone, il Governo della Repubblica aveva manifestato e stava attuando, che ha reso possibile ipotizzare che qualche altro ‘colpo’ (cioè qualche altra strage, quali quelle che, poi, furono effettivamente realizzate nel corso del 1993) avrebbe potuto fare crollare la resistenza statuale”. Siamo di fronte ad un terribile dato oggettivo: i morti delle stragi del ‘93 potevano essere evitati. Per farsi un’idea di quell’orrore basta pensare ai quattro componenti della famiglia Nencioni, tra cui due bambine di 8 anni e 50 giorni. Tutti morti nella strage di Firenze assieme al giovane studente Dario Capolicchio: uccisi dalle bombe di un dialogo Stato-mafia.

Giano Bi-fronte
E’ il volto di un Giano Bi-fronte quello che riaffiora nelle pagine della sentenza. Da una parte Cosa Nostra nella persona di Leoluca Bagarella condannato a 28 anni di reclusione. Per lui i Giudici scrivono testuale: “Trattandosi dell'alter ego di Salvatore Riina col quale ha condiviso tutte le strategie sanguinarie e, specificamente, l'intransigente linea del ricatto allo Stato senza alcun cedimento sulle condizioni che il medesimo Riina aveva posto, non potendo neppure immaginarsi altra minaccia al Governo più grave di quella che è stata attuata nel caso in esame”. Dall’altro lato c’è il volto dello Stato impersonato in primis dagli ex generali dei Carabinieri Mario Mori e Antonio Subranni, condannati entrambi a 12 anni di reclusione. Per Subranni i Giudici parlano del suo “ruolo di primo ideatore dell'istigazione al reato e per Mori del ruolo essenziale svolto per l'attuazione della condotta criminosa, nonché della personalità negativa emersa sia, specificamente, nella vicenda Bellini, sia, in generale, per il suo ‘modus operandi’”.

Reticenze e falsità
“Numerose sono le testimonianze, acquisite nel corso dell'istruttoria dibattimentale, per le quali, come si è visto nelle motivazioni di questa sentenza, sono emersi forti dubbi - ed, in alcuni casi, l'assoluta certezza - di reticenze e di falsità rispetto ad altre contrastanti emergenze probatorie”. Ed è leggendo questo ulteriore passaggio che tornano in mente le tante deposizioni di ex potenti “smemorati di Stato” a dir poco vergognose. I Giudici ribadiscono che “tutti i singoli casi sono stati di volta in volta evidenziati” e quindi i pm valuteranno “caso per caso”. L’ipotesi di nuovi procedimenti penali per tutti coloro che hanno mentito spudoratamente è più che mai valida. Ma in un’Italia dove l’impunità è dilagante resta pur sempre un’utopia

Foto © ACFB

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