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La difesa De Donno chiede l’assoluzione per i carabinieri
di Aaron Pettinari
“I generali Mario Mori e Antonio Subranni e il colonnello Giuseppe De Donno vanno assolti dai reati loro ascritti perché il fatto non sussiste”. Con queste parole l’avvocato Francesco Romito ha concluso la propria arringa difensiva nel processo sulla trattativa tra Stato e mafia in corso davanti alla Corte d’assise di Palermo. Una discussione in cui l’avvocato, così come aveva già fatto il legale di Mori e Subranni, ha accusato la Procura di mettere in atto una “persecuzione giudiziaria basata su congetture” contro gli ufficiali dell’Arma che erano ai vertici del Ros, di essersi “innamorata” della versione riferita dal testimone-imputato Massimo Ciancimino e di essersi persa in un “labirinto”.
In particolare Romito ha chiesto l’assoluzione “perché il fatto non sussiste” ed in subordine il “proscioglimento perché l’azione penale non poteva essere esercitata non potendosi contestare le aggravanti del 339 e dell’articolo 7”.

Il "solito” Ciancimino
Ovviamente al centro della discussione del legale vi è la posizione di Massimo Ciancimino, uno dei principali accusatori degli ex ufficiali del Ros, dipinto “soggetto istrionico che tende alla bugia patologica” ed una “persona disposta a tutto pur di recuperare la credibilità perduta”.
Secondo Romito, al contrario da quanto sostenuto dalla Procura e dalla difesa del figlio di don Vito, non è vero che lo stesso ha agito disinteressatamente riguardo alle dichiarazioni rilasciate all’autorità giudiziaria “tanto da aver cambiato la versione in relazione allo sviluppo del dibattimento”. Quindi l’avvocato ha definito come “pezzi di carta” e non “prove” i documenti consegnati da Ciancimino jr, riferendosi in particolare al “papello” ed al “contropapello”, cioè la lista delle richieste che i corleonesi avrebbero fatto allo Stato per mettere fine alle stragi.
ciancimino aulabunker 20160212Nel 'papello' Cosa nostra chiedeva allo Stato la revisione della sentenza del maxiprocesso; l'annullamento del decreto legge 41 bis; la revisione della legge Rognoni-La Torre; la Riforma della legge sui pentiti; il riconoscimento dei benefici dissociati (Brigate rosse) per condannati di mafia; gli arresti domiciliari dopo i 70 anni di età; la chiusura delle supercarceri; carcerazioni vicino le case dei familiari; niente censura posta familiari; misure di prevenzione e sequestro: non familiari; arresto solo in flagranza ("nel testo fragranza", come sottolineato dal legale) di reato; e togliere le tasse dei carburanti come in Svizzera. Secondo il figlio di Ciancimino, il documento sarebbe stato consegnato al colonnello dei carabinieri del Ros, Mario Mori. Che, però, ha sempre smentito.
Nel secondo documento, stilato dall’ex sindaco mafioso di Palermo, secondo l’accusa sarebbero le richieste allo Stato “ammorbidite” da don Vito. Si leggono l’abolizione del 416 bis (il reato di associazione mafiosa); poi ancora "Strasburgo maxi processo" (l'idea di Ciancimino era quella di far intervenire la Corte dei diritti europei per dare diverso esito al più grande procedimento contro i vertici di Cosa nostra); "Sud partito"; e infine "riforma della giustizia all'americana, sistema elettivo...".
Quei documenti - ha detto Romito - sono slegati tra loro. Uno è anonimo ed è stato impossibile attribuirne la paternità ad alcuno. L’altro è autografo di Vito Ciancimino ma appare al massimo una la trascrizione dei punti di una sorta di programma elettorale pensato da Vito Ciancimino e destinato magari a qualche compagno di partito. Certamente non sono utilizzabili in una sede processuale”.

Le parole di Mori e De Donno
Nel corso del suo intervento l'avvocato ha anche ricordato quanto detto dai vertici del Ros imputati in altre sedi giudiziarie e cioè che Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo, venne sì avvicinato dai carabinieri dopo la strage di Capaci, ma l'intenzione dell'Arma era "indurlo a collaborare" ed “avere informazioni per la cattura di latitanti”. Una versione che i due ufficiali hanno sempre sostenuto sin dai tempi della loro testimonianza davanti al Tribunale di Firenze. Una sentenza che Romito ha voluto sminuire “perché mancano prove, come la stessa deposizione dei due Ciancimino che non fu ammessa”.
Ma nelle motivazioni di quella sentenza si parla a più riprese dell’operato del Ros, riportando proprio le dichiarazioni degli stessi.
Il racconto di Mori sul suo dialogo con Vito Ciancimino, riportato nella sentenza, si commenta da solo. “Ma signor Ciancimino, ma cos'è questa storia qua? Ormai c'è muro, contromuro. Da una parte c'è Cosa Nostra, dall'altra parte c'è lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente? La buttai lì convinto che lui dicesse: 'cosa vuole da me colonnello?' Invece dice: 'ma, sì, si potrebbe, io sono in condizione di farlo'. E allora restammo... dissi: 'allora provi'. E finì così il secondo incontro, per sintesi ovviamente”. (…) “Lui capì a modo suo, fece finta di capire e comunque andò avanti. E restammo d'accordo che volevamo sviluppare questa trattativa”. (…) “Si rividero, sempre a casa di Ciancimino, il 18-12-92. In questa occasione Ciancimino gli disse: ‘Guardi, quelli accettano la trattativa, le precondizioni sono che l'intermediario sono io - Ciancimino - e che la trattativa si svolga all'estero. Voi che offrite in cambio?’”. Nella motivazione della sentenza i giudici fiorentini erano stati chiarissimi: “allo stato, infatti, non v’è nulla che faccia supporre come non veritiere le dichiarazioni dei due testi qualificati sopra menzionati (Mori e De Donno, ndr), salvo alcune contraddizioni logiche ravvisabili nel loro raccontoromito francesco skytg24 (non si comprende, infatti, come sia potuto accadere che lo Stato, ‘in ginocchio’ nel 1992 - secondo le parole del gen. Mori - si sia potuto presentare a ‘Cosa nostra’ per chiederne la resa; non si comprende come Ciancimino, controparte in una trattativa fino al 18-10-92, si sia trasformato, dopo pochi giorni, in confidente dei Carabinieri; non si comprende come il gen. Mori e il cap. De Donno siano rimasti sorpresi per una richiesta di ‘Show down’, giunta, a quanto appare logico ritenere, addirittura in ritardo)”. (…) “Sotto questi profili non possono esservi dubbi di sorta, non solo perché di ‘trattativa’, ‘dialogo’, ha espressamente parlato il cap. De Donno (il gen. Mori, più attento alle parole, ha quasi sempre evitato questi due termini), ma soprattutto perché non merita nessuna qualificazione diversa la proposta, non importa con quali intenzioni formulata (prendere tempo; costringere il Ciancimino a scoprirsi o per altro) di contattare di vertici di ‘cosa nostra’ per capire cosa volessero (in cambio della cessazione delle stragi)”.
Considerazioni logiche, a cui si preferisce non guardare.
Al processo Mori-Obinu, De Donno fu sentito come teste e disse: “Verosimilmente ci siamo inseriti in un quadro di trattativa che altri stavano conducendo” salvo poi precisare che si trattava di “deduzioni di fonti giornalistiche”.
Una parola, trattativa, usata impropriamente per definire questo processo ma che ha da sempre dato fastidio.
Ed ovviamente il difensore non ha fatto riferimento al documento riconducibile alla grafia di don Vito Ciancimino in cui lo stesso commenta le dichiarazioni rese da Mori e De Donno al processo di Firenze per le stragi. Un testo in cui l’ex sindaco mafioso, di suo pugno, annota testualmente: “hanno reso falsa testimonianza”. Secondo quanto detto in aula dal legale, però, Vito Ciancimino, può essere preso per buono per non confermare il figlio dal momento in cui non parla di “papello”. Ciancimino jr, per la difesa dei carabinieri, è un “bugiardo” e “non veri” sarebbero anche i pizzini che questi ha attribuito al boss Provenzano. Inoltre Romito ha sminuito i contributi dei collaboratori di giustizia, in particolare Brusca e Lipari, ed ha affrontato la questione “mafia-appalti” sostenendo che, “il rapporto non era epurato dal nome dei politici. Lo ha detto anche Siino e lo confermano le informative in cui si fa riferimento a Mannino consegnate alla procura nel 1991”.

L’arresto di Riina e Terme Vigliatore
Successivamente l’avvocato di De Donno è tornato sulle dichiarazioni dell’accusa laddove hanno chiesto alla Corte di non atomizzare i vari episodi ma di considerarli in maniera complessiva.
Tra questi episodi passati in rassegna vi sono anche l’arresto di Riina, la mancata perquisizione del covo di via Bernini ed i fatti di Terme Vigliatore.
Analizzando il secondo episodio Romito ha riletto la parte di sentenza Mori-Obinu in cui si dice che gli elementi emersi “non assumono un valore univoco, tale da dimostrare la fondatezza dell'assunto accusatorio (secondo cui, in buona sostanza, si sarebbe trattato di una messa in scena per mettere sull'allarme il Santapaola ed indurlo ad allontanarsi dalla zona, così da garantirne la latitanza), sussistendo ulteriori elementi di indubbio segno contrario” ma ha di fatto giustificato la presenza degli uomini del Ros a Terme Vigliatore anche se nella medesima sentenza d’appello si parla di “superiori elementi, pur idonei ad ingenerare serie perplessità in merito allo reale svolgimento dei fatti ed alle ragioni che avevano portato il De Caprio a Terme Vigliatore” e vengono sottolineate le divergenze sul punto dei vari testimoni ascoltati nel corso del dibattimento. Infatti non si è capito se “ciò sia avvenuto casualmente durante il trasferimento da Messina a Palermo (come sostanzialmente riferito dai testi Randazzo, riina salvatore arresto c ansaMangano e dallo stesso De Caprio) o se ciò sia avvenuto nell'ambito di un servizio programmato, per il quale era stato ordinato ai militari operanti di convergere appositamente nella zona in questione (come risulterebbe dalle dichiarazioni dei testi Olivieri, Longu e - pur tra molte incertezze - dello stesso Calvi, che in sostanza, parzialmente modificando o non confermando quanto dichiarato al Procuratore generale in data 23/9/2014, non ha chiarito le ragioni per cui, pur trovandosi in quei giorni di servizio a Milano si fosse recato a Messina, e fosse nella zona di Terme Vigliatore, per incontrare il De Caprio)”. “Le notevoli perplessità derivanti dalle rilevate divergenze nella ricostruzione dei fatti da parte dei diretti protagonisti - aggiungevano i giudici - appaiono ulteriormente accresciute dal rilievo che l'erroneo riconoscimento dell'Aglieri nella persona dell'Imbesi Fortunato è circostanza scarsamente verosimile, ove si consideri la davvero poca somiglianza tra i due che, a prescindere dalla differenza di età tra costoro (comunque pari a circa nove anni), emerge chiaramente dai confronti dei tratti somatici dei medesimi, quali risultanti dalle fotografie prodotte dal Procuratore generale e risalenti all'epoca della vicenda in esame”. E a queste considerazioni andrebbero aggiunte le contraddizioni degli uomini del Ros, le cui deposizioni sono state trasmesse alla Procura di Palermo “per valutare l’eventuale sussistenza del reato di falsa testimonianza”.
Ma le giustificazioni sull’operato del Ros sono proseguite anche per quanto riguarda la mancata perquisizione del covo di Riina in via Bernini. Anche in questo caso è stata citata la sentenza che ha assolto Mori ed il “Capitano Ultimo” (alias del Colonnello dei Carabinieri Sergio De Caprio). Una sentenza che mise in luce le pecche operative dei due ufficiali, assolse alla fine Sergio De Caprio e Mario Mori dall'accusa di favoreggiamento aggravato alla mafia, perché “il fatto non costituisce reato”. In conclusione, dunque, Romito ha chiesto l’assoluzione del proprio assistito e complessivamente per tutti gli ex ufficiali dell’arma.

Ultimo atto
Con l’udienza odierna si è conclusa una nova fase processuale con la conclusione delle discussioni dei difensori. Al termine della requisitoria l’accusa, rappresentata dai pm Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e Vittorio Teresi, aveva chiesto la condanna a 15 anni per il generale Mario Mori, 12 per il generale Antonio Subranni e il colonnello Giuseppe De Donno. montalto alfredo webDodici gli anni chiesti anche per Marcello Dell’Utri. Fra gli imputati c’è pure l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, accusato di aver detto il falso: per lui la procura chiede una condanna a 6 anni. Una condanna viene chiesta anche per i mafiosi che vollero minacciare lo Stato a suon di bombe: 16 anni per Leoluca Bagarella, 12 per Antonino Cinà. Con ogni probabilità il prossimo 16 aprile i giudici entreranno in Camera di consiglio per emettere la sentenza. A fine udienza, infatti, lo ha annunciato il Presidente della Corte d’assise di Palermo Alfredo Montalto che ha rinviato l’udienza per “eventuali repliche e controrepliche” ma anche per le annunciate dichiarazioni spontanee dell’ex Presidente del Senato Nicola Mancino. E subito dopo i giudici entreranno in Camera di consiglio. L’udienza si terrà direttamente al bunker del carcere Pagliarelli dove i giudici potranno anche trascorrere diversi giorni perché provvisto di foresteria.

In foto dall'alto: il tribunale di Palermo, Massimo Ciancimino durante un'udienza del processo Trattativa, l'avvocato Francesco Romito intervistato da SkyTg24, Salvatore Riina (© Ansa) e il presidente della corte Alfredo Montalto

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