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L'avvocato Milio chiede l'assoluzione
di Aaron Pettinari

Per il generale Mori chiedo dichiararsi il proscioglimento ex.art 649 cpp (divieto di un secondo giudizio). Per Mori e Subranni l'assoluzione perché il fatto non sussiste o per non aver commesso il fatto. E per entrambi il proscioglimento perché l'azione penale non poteva essere esercitata a monte”. Si è conclusa con queste richieste, dopo sei udienze, l'arringa dell'avvocato Basilio Milio, legale assieme all'avvocato Musco dei due ex ufficiali del Ros. Una discussione dove, ovviamente, sono state riprese a piene mani le motivazioni della sentenza di assoluzione di primo grado Mori-Obinu. “Il processo sulla trattativa - ha detto il legale - è una bufala senza prove. Dopo l’assoluzione del generale i pm invece di lasciare hanno deciso di raddoppiare chiedendo la condanna a 15 anni di carcere per il generale Mori”. Ed ha aggiunto: “Auspico che voi giudici, e sono certo che lo farete, possiate emettere una sentenza veritiera e onesta uniformandovi ai giudici che vi hanno preceduto”.
Nella sua ricostruzione Milio, per l'ennesima volta, ha rimarcato le sprezzanti accuse contro i Pm che a suo dire sono autori di una vera e propria persecuzione nei confronti dei suoi assistiti. Ha parlato del “tormento” (proprio di una “persona nel cui animo ci sono sia le informazioni vere sia quelle false, oggettivamente, false o distorte che vengono ancora propinate dai pm”) fino a paragonarsi al giovane ragazzo di piazza Tienammen che, nel 1989, senza paura, si piazzò fermando i carri armati. “Io sono come questo ragazzo - ha detto nella sua conclusione - Non era la Procura ad essere isolata, come hanno detto i pm durante la requisitoria, anzi ero io a essere isolato. Ero solo, a 35 anni, ad affrontare la storia d’Italia, vicende che si sono verificate quando avevo 3 anni”.
Parole che si commentano da sole di fronte ai ripetuti attacchi, mediatici e non, ricevuti da quei magistrati che comunque sia non hanno fatto altro che il proprio dovere per cercare di ricostruire quei fatti che ad oltre venticinque anni di distanza ancora presentano non pochi lati oscuri.
In precedenza l'avvocato dei due carabinieri è tornato a parlare delle mancate proroghe dei 41 bis, avvenute nel novembre del 1993. Una scelta che l'ex ministro Conso, oggi deceduto, disse di aver preso “in piena autonomia”. Tra i 334 detenuti a cui il carcere duro non venne rinnovato vi erano figure come Diego Di Trapani, Giuseppe Fidanzati, Giuseppe Gaeta, Nenè Geraci, Giuseppe Grassonelli, Luigi Miano, Antonio Pulvirenti, Francesco Spadaro, Vito Vitale ed altri. Secondo l'accusa quella “risposta” era figlia di quei “segnali di distensione” auspicati con la nota del 26 giugno 1993, a firma di Adalberto Capriotti, capo del Dap al posto di Nicolò Amato. Un documento in cui si citava l'importanza di “non inasprire il clima degli istituti di pena” con tanto di proposta di ridurre del 10% il numero dei soggetti al 41bis, di prorogare di soli 6 mesi agli altri detenuti affinché passi questo “segnale di distensione”. Secondo la ricostruzione dei pm un ruolo nell'ammorbidimento del 41 bis lo avrebbe avuto anche il vice capo del Dap Francesco Di Maggio ma per il legale di Mori “le testimonianze raccolte nel processo, i documenti, e le sentenze dimostrano che sui 41 bis Di Maggio era stato esautorato e che era invece un duro”. Inoltre, secondo quanto ricostruito da Milio, “55 dei 41 bis che furono revocati vennero poi risottoposti a distanza di mesi”. E come Di Maggio, anche Parisi “era per il 41 bis. Le sue esternazioni riguardavano l'attenzione per l'ordine pubblico, anche nelle carceri”. Anche le note della Dia, dove si informava l’allora ministro dell'Interno, Nicola Mancino, di come “un’eventuale revoca anche solo parziale dei decreti che dispongono l’applicazione dell’Art. 41 bis” avrebbe potuto “rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla stagione delle bombe”, e quella dello Sco dell'agosto 1993, dove si scrive che “l'obiettivo della strategia delle bombe sarebbe quello di giungere a una sorta di trattativa con lo Stato per la soluzione dei principali problemi che attualmente affliggono l'organizzazione: il 'carcerario' e il 'pentitismo'” sono state sminuite dal difensore.
Sono 'analisi', così come raccontato durante il processo dall'ex prefetto Gianni De Gennaro e la 'trattativa' viene fissata come obiettivo della fazione stragista, non che era stata siglata”. Quelle analisi però non erano solo successive alle bombe di Roma e Milano ma traevano origine da un'ulteriore nota riservata dello Sco, firmata da Antonio Manganelli, inviata nel giugno 1993 al servizio centrale di Polizia criminale e successivamente trasmessa, nel luglio dello stesso anno, alla Dia. Un documento in cui si parlava della creazione di una spaccatura all'interno di Cosa nostra “tra un'area moderata ed una più sanguinaria”, si dava avviso dell'esistenza di una “fonte fiduciaria”, e si indicava un “interesse a creare il panico forse per costringere le istituzioni a trattare con Riina dopo l'ennesima autobomba (dopo quella di Firenze, ed il fallito attentato a Costanzo, ndr)”.
Particolarmente discutibili le considerazioni sui fatti di Terme Vigliatore, battezzata anche come “la mancata cattura” del boss Benedetto Santapaola. Una vicenda in cui gli uomini del Ros si resero protagonisti di un inseguimento di un incensurato (scambiandolo, dissero, per il trentaquattrenne boss Pietro Aglieri) dove l'allora capitano Sergio De Caprio, anche noto come Ultimo, sparò verso il ragazzo dei colpi di pistola mancandolo di pochissimo. Contestualmente, uomini dello stesso reparto eseguivano una irruenta perquisizione nella villa di famiglia del giovane incensurato di cui sopra. Entrambe le azioni avvenivano proprio il giorno dopo (ed a pochi metri dal luogo) in cui Nitto Santapaola veniva intercettato dal Ros. “Quel ragazzo usciva di casa in maniera guardinga - ha detto Milio - per questo viene seguito dai militari del Ros, gli intimano l'alt, lui non si ferma e quindi lo inseguono fino ad arrivare alla sparatoria. Se il ragazzo si fosse fermato non sarebbe accaduto nulla”. Come se la “colpa” di tutto fosse del giovane Imbesi. Ma la tanto citata sentenza Mori interviene sulla questione. Infatti i giudici della Corte d'appello misero in evidenza come “sia rimasta non accertata la ragione per la quale i militari del Ros guidati dal De Caprio si siano trovati a Terme Vigliatore il 6/4/1993”. Non solo. “Le notevoli perplessità derivanti dalle rilevate divergenze nella ricostruzione dei fatti da parte dei diretti protagonisti - aggiungevano i giudici - appaiono ulteriormente accresciute dal rilievo che l'erroneo riconoscimento dell'Aglieri nella persona dell'Imbesi Fortunato è circostanza scarsamente verosimile, ove si consideri la davvero poca somiglianza tra i due che, a prescindere dalla differenza di età tra costoro (comunque pari a circa nove anni), emerge chiaramente dai confronti dei tratti somatici dei medesimi, quali risultanti dalle fotografie prodotte dal Procuratore generale e risalenti all'epoca della vicenda in esame”. Tuttavia, nonostante la presenza di “superiori elementi, pur idonei ad ingenerare serie perplessità in merito allo reale svolgimento dei fatti ed alle ragioni che avevano portato il De Caprio a Terme Vigliatore” questi “non assumono un valore univoco, tale da dimostrare la fondatezza dell'assunto accusatorio (secondo cui, in buona sostanza, si sarebbe trattato di una messa in scena per mettere sull'allarme il Santapaola ed indurlo ad allontanarsi dalla zona, così da garantirne la latitanza), sussistendo ulteriori elementi di indubbio segno contrario”. Nell'emettere la sentenza d'appello, però, la Corte aveva anche disposto “la trasmissione alla Procura di Palermo di copia dei verbali e delle trascrizioni delle deposizioni rese da Mauro Olivieri, Francesco Randazzo, Pinuccio Calvi, Giuseppe Mangano, Roberto Longu e Sergio De Caprio (meglio noto come “Ultimo”), per valutare l'eventuale sussistenza del reato di falsa testimonianza”. Un atto che a detta di Milio “era dovuto in quanto l'aveva chiesto il Procuratore generale” ma la realtà è che i giudici scrissero nel merito che “ciò che tuttavia è emerso dalle dichiarazioni dei predetti militari - e che appare indubbiamente singolare ed in definitiva inquietante - è l'estrema difficoltà dagli stessi manifestata nel corso delle loro deposizioni nell'indicare e chiarire in modo plausibile le ragioni della loro presenza a Terme Vigliatore, incorrendo anche in palesi contraddizioni”.

La vicenda Mezzojuso
Successivamente Milio ha affrontato anche la vicenda del mancato blitz a Mezzojuso. “Mori è stato assolto per questi fatti perché 'il fatto non costituisce reato'. Non entro nel merito delle vicende perché ci sono le motivazioni della sentenza. Una vicenda che non ha nulla a che vedere con la minaccia al Governo”. Nella sua ricostruzione Milio ha ricordato l'esame testimoniale del dottor Pignatone il quale disse che quando incontrò Riccio il 1 novembre non gli fu detto nulla dell'incontro di Provenzano ma gli parlò di Nicolò Greco ed evidenziando la decisione della IV sezione penale di rispedire i verbali di Massimo Ciancimino e Michele Riccio alla Procura. Va ricordato, però, che la posizione di Riccio è stata archiviata e che lo stesso colonnello, sentito al processo aveva ricordato come già sei mesi prima di ottobre aveva inviato una nota in cui parlava dell'incontro con Greco ("Sono al corrente del fatto che Pignatone dice che non parlammo di Ilardo, ma si sbaglia. E' l'unica cosa che ricorda male. Credo abbia confuso gli argomenti. Dell'incontro tra Nicolò Greco ed Ilardo gli parlai sì, con una relazione che trasmisi ma diverso tempo prima. Quell'incontro infatti era di 6 mesi precedente e a Bagheria. Che senso ha che io parlo con lui di queste cose a tanta distanza?"). Il che rende improbabile l'esser tornato sul punto sei mesi dopo.
Nella tanto decantata sentenza Mori, inoltre, non mancano le perplessità sull'operato dei carabinieri.
Nella sentenza emessa dalla IV sezione penale del Tribunale di Palermo è scritto che “…può, ad avviso del Tribunale, ammettersi che nell’arco di tempo oggetto della contestazione siano state adottate dagli imputati scelte operative discutibili, astrattamente idonee a compromettere il buon esito di una operazione che avrebbe potuto procurare la cattura di Bernardo Provenzano". E nel giudizio di appello si aggiunge che “le scelte tecnico-investigative adottate dagli imputati…, a maggior ragione ove si consideri che esse vennero adottate da esperti Ufficiali di Polizia giudiziaria, inducono più di un dubbio sulla correttezza, quantomeno dal punto di vista professionale, dell’operato dei due e lasciano diverse zone d’ombra…”; e ancora: “Rimane davvero razionalmente inspiegabile - né gli imputati lo hanno spiegato in qualche modo - perché tutte le attività di indagine… furono compiute in modo tardivo, non coordinato, e soprattutto burocratico… e, soprattutto, senza che da parte degli imputati fosse dedicata l’attenzione che la particolare delicatezza del caso senza ombra di dubbio richiedeva”.