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borsellino paolo c shobha 900Il pentito nisseno parla del legame tra la strage di via d’Amelio e il patto Stato-mafia
di Lorenzo Baldo

Palermo. Le stragi del ‘92? “Dopo quella di Capaci Giovanni Napoli (fedelissimo di Bernardo Provenzano) mi disse che Peppino Comparetto (uomo d’onore di Prizzi, nel palermitano) aveva avvicinato il presidente del tribunale di Palermo Piraino Leto, suocero di Paolo Borsellino, e gli aveva detto che Borsellino si doveva mettere da parte, Piraino Leto lo aveva però mandato a quel paese”. E’ l’ex boss di Vallelunga (Cl) Ciro Vara, fedelissimo del capomandamento del nisseno Piddu Madonia, a deporre al processo trattativa. Il collaboratore di giustizia è tranciante: tra le due stragi si era cercato di avvisare Borsellino di “mettersi da parte”. Ma da cosa? Da una trattativa che era in corso tra Stato e mafia. E se anche quel termine a suo dire non sarebbe mai uscito dalla bocca di alcun mafioso, per il collaboratore nisseno è del tutto evidente che sia quella la motivazione dell’accelerazione della strage del 19 luglio 1992. Vara si ricorda bene quella conversazione con Giovanni Napoli avvenuta nel carcere di Trapani pochi anni dopo il biennio stragista. Il pentito rammenta che quel tentativo di approccio tra Comparetto e Piraino Leto era avvenuto “nel momento in cui in parlamento c’erano le polemiche sul 41bis”; mentre sembrava che il decreto Scotti-Martelli si sarebbe arenato c’era chi continuava a limare quel “patto” tra Stato e mafia. Vara sottolinea quindi che la strage di via D’Amelio - così a ridosso di quella di Capaci - avrebbe inevitabilmente comportato “un danno per Cosa Nostra”. Eppure era stata fatta. A sentirlo parlare in videoconferenza tornano in mente le dichiarazioni dell’ex boss di Porta Nuova, Salvatore Cancemi (il pentito è deceduto nel 2011). Era stato proprio Cancemi a raccontare agli inquirenti quella riunione della Cupola, a cui lui stesso aveva partecipato dopo l’eccidio di Capaci, nella quale Totò Riina aveva chiesto di fare subito la strage di via d’Amelio; di fronte ai timori di una reazione forte da parte dello Stato della maggior parte dei boss riuniti, Riina aveva rassicurato i presenti dicendo: "State tranquilli, mi hanno garantito che è un bene per tutta Cosa Nostra”. Ma quali erano quelle entità esterne alla mafia che avevano il potere di fornire certe garanzie al capo di Cosa Nostra? A tutt'oggi sono state fatte diverse ipotesi investigative sulle quali si continua a scavare. Certo è che nel 2010 Ciro Vara aveva sentito l’urgenza di chiarire questo episodio con il pm Nino Di Matteo “per la verità storica dei fatti”.

Forza Italia
Alla domanda sui “collegamenti politici di Cosa Nostra” Ciro Vara non si tira indietro. I limiti imposti alla sua testimonianza sono alquanto rigidi. Seppur non entrando nel merito di quanto già dichiarato al Borsellino Quater sui contatti tra Cosa Nostra e Forza Italia, il pentito ricorda di una riunione di Cosa Nostra a Riesi (Cl) dove si era deciso di votare Forza Italia: “Anch’io mi sono prodigato ad aprire un circolo di Forza Italia. A fine ‘93 mi sono incontrato con Antonino Giuffrè (ex boss, ora collaboratore di giustizia), c’era tanto entusiasmo in Cosa Nostra per votare questo movimento politico”.

Provenzano e quel canale attraverso la Chiesa per svuotare il 41bis
Il pm Di Matteo gli chiede quindi se nel corso del ‘93, o anche prima, ha avuto modo di parlare con altri uomini d’onore in merito al 41bis e anche al trasferimento di capimafia verso le supercarceri di Pianosa e dell’Asinara. La domanda mira a chiarire se qualcuno gli ha parlato di un “canale per alleggerire o eliminare quella condizione”. “In carcere se ne parlava - replica Vara -. Poi nell’ottobre del ‘93, quando sono stato scarcerato, mi sono incontrato con Mimmo Vaccaro (alter ego del boss Piddu Madonia) che mi aveva detto di essere stato una settimana con Provenzano, io gli avevo chiesto di farmi sapere sul 41bis e lui mi aveva risposto che Provenzano stava vedendo attraverso la Chiesa di poter fare qualcosa”. Vara lo ripete due volte: “Provenzano aveva detto a Vaccaro che aveva un canale attraverso la Chiesa per poter fare qualcosa sul 41bis”. Su quel “canale” ecclesiastico si sono fatte diverse ipotesi investigative, soprattutto per quanto riguarda l’ingerenza oggettiva dei cappellani militari nella sostituzione dell’ex capo del Dap Nicolò Amato.
Di seguito il collaboratore ribadisce che quando Giovanni Napoli era detenuto nella casa circondariale di Trapani “utilizzava il cappellano del carcere per mandare delle missive all’esterno tramite posta normale”. “Missive indirizzate anche a Provenzano?”, chiede Di Matteo. “Erano per la famiglia, per fargli sapere delle situazioni all’esterno, il riferimento era sempre a Provenzano... e c’entrava anche Pino Lipari” (l'ex ministro dei lavori pubblici di Bernardo Provenzano, ndr).

Dischetti sequestrati e restituiti
Giovanni Napoli mi disse che avevano fatto una perquisizione a casa sua dopo che era stato arrestato nel ‘98 e avevano trovato dei dischetti, dopo qualche giorno il comandante dei Carabinieri di Mezzojuso (Pa) glieli aveva restituiti... Lo stesso Napoli mi diceva che doveva esserci qualcosa di interessante in quei dischetti. Lui li aveva aveva fatti registrare per Provenzano…”. Di Matteo fa notare che in un verbale precedente aveva specificato che poteva trattarsi di interessi economici in comune tra Giovanni Napoli e Bernardo Provenzano in merito alla vendita di alcuni immobili a San Vito Lo Capo (Tp).  Alla domanda del pm se avesse mai incontrato Massimo Ciancimino, Vara corregge le precedenti dichiarazioni e dichiara di aver incontrato il fratello Giovanni (e non Massimo) che sarebbe stato il tramite di una tangente tra politici e mafiosi.

Un covo a Mezzojuso è per sempre

Il mistero della mancata cattura di Provenzano a Mezzojuso (Pa) nel ‘95 torna quindi sotto i riflettori. “Provenzano era arrivato a Mezzojuso già nel ‘94 - esordisce Vara -, Giovanni Napoli andava dal dottore Antonino Cinà (già condannato per associazione mafiosa, attualmente alla sbarra nel processo Trattativa per il suo ruolo di intermediario tra Stato e Cosa Nostra, ndr) per dirgli che Provenzano stava male e Cinà gli dava dei consigli sulle medicine da prendere. Dal ‘94 al 2001 Provenzano continuava ad avere incontri in quella zona. Qualche volta si spostava per spostamenti brevi, ma poi tornava sempre a Mezzojuso”. Quindi, in sostanza: nel ‘95 si è a un passo dalla cattura di Provenzano a Mezzojuso, nel ‘96 viene ucciso il confidente del colonnello dei Carabinieri Michele Riccio che aveva fornito tutte le indicazioni per la cattura del capo di Cosa Nostra sempre a Mezzojuso, e Provenzano che fa? Resta indisturbato in quella stessa zona per altri 5 anni fino a quando nel 2001, sempre lì, viene arrestato il suo braccio destro Benedetto Spera. “Dopo l’uccisione di Luigi Ilardo anche la stampa pubblicò la notizia che era stato un confidente. Con Giovanni Napoli avete mai discusso del perché Provenzano non si spostò da quella zona?”, insiste Di Matteo. “Quando si è saputo dalla stampa che Ilardo era un confidente, Napoli portava il giornale a Provenzano che diceva: ‘lascia stare... quelli sono gli sbirri che fanno uscire queste cose...’. Provenzano diceva che non era vero... Giovanni Napoli non si capacitava che dall’ottobre del ‘95 all’estate del ‘96, dopo che erano uscite queste notizie su Ilardo, lui (Napoli, ndr) avesse potuto continuare ad andare dal dottore Cinà senza che fosse stato predisposto un pedinamento a suo carico...”. La certezza dell’assenza di qualsivoglia attività investigativa a suo carico era dovuta alla lettura delle carte giudiziarie che lo riguardavano, in questo caso il rapporto “Grande Oriente”. Ma per quale ragione si era verificata quella che appare come una vera e propria inerzia investigativa? Nel 2013 durante la requisitoria al processo di primo grado contro gli ex ufficiali del Ros Mario Mori e Mauro Obinu il pm Di Matteo aveva illustrato che secondo la tesi dell’accusa solamente dopo la cattura di Spera “il capomafia (Provenzano, ndr) si rese conto che era saltato il sistema. Che in un contesto investigativo gestito fino ad allora solo dai carabinieri aveva fatto irruzione la polizia riuscita in un mese a catturare Spera e ad arrivare ad un passo da lui”. Lo scorso anno al processo di appello contro Mori e Obinu i pg Roberto Scarpinato e Luigi Patronaggio avevano ulteriormente circostanziato la questione evidenziando come “nonostante l'Ilardo avesse fornito nell'immediatezza il numero di targa di quell'autovettura ed indicato il nome di battesimo (Giovanni) di quella persona, non era stata attivata per mesi alcuna indagine per individuare il proprietario dell'autovettura”. Solamente a cinque mesi di distanza dai fatti, su delega inviata il 12 marzo 1996, firmata proprio da Mori, veniva avviata l’indagine: semplicemente immettendo i dati forniti da Michele Riccio ed Ilardo nel database del Ministero degli Interni. Un colpevole ritardo frutto di un do ut des molto più ampio? Per la Cassazione non è assolutamente così, tanto che lo ha sancito ufficialmente confermando l’assoluzione per i due imputati. Che si ritrovano - per lo meno uno - nuovamente alla sbarra in quest’altro processo dove su certe ombre bisogna ancora fare luce.

Foto © Shobha

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