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ciancimino carabinieriPomicino contro Scotti: “Scelse di non restare al Viminale”
di Miriam Cuccu - Audio
E' il 17 febbraio 2005 quando i Carabinieri irrompono nell'abitazione di Massimo Ciancimino all'Addaura, in mano un mandato di perquisizione per l'inchiesta sui tesori del padre e gli affari di Ciancimino junior. Il figlio di don Vito è in Francia, ma è lì che le forze dell'ordine ritrovano il famoso “papello” contenente le dodici richieste di Totò Riina allo Stato. Su quanto accadde dopo, però, esistono più versioni: una è quella di Giammarco Sottili, all'epoca comandante del Reparto Operativo a Palermo e oggi teste al processo trattativa Stato-mafia: “Vennero da me Gosciu (il maggiore Francesco Gosciu, ndr) e Angeli (il tenente colonnello Antonello Angeli, ndr), – racconta – non ricordo se lo stesso giorno della perquisizione o quello dopo. Angeli aveva in mano il manoscritto fotocopiato con scritto sopra 'i Carabinieri'. Lo scorsi velocemente e ritenni che fosse importante. Dissi loro di farmi una fotocopia per portarla in procura e andai dai magistrati competenti per quell'indagine”. Quel giorno, afferma il teste, “andai dal procuratore aggiunto Giuseppe Pignatone con la dottoressa Sava o la dottoressa Buzzolani, o entrambe”. Con Pignatone, continua Sottili, casualmente “c'era il dottor Michele Prestipino e i due magistrati “mi dissero che quel documento era il compendio di un verbale fatto da Gian Carlo Caselli a Vito Ciancimino. Credo che Pignatone mi disse di averlo pure acquisito”. Dell'accaduto, al processo, parlarono lo stesso Angeli e l'appuntato Samuele Lecca con il maresciallo Saverio Masi (il quale ha denunciato di essere stato ostacolato da Sottili nelle sue indagini su Provenzano e Messina Denaro). Versioni, quelle dei due teste, che non coincidono tra loro né corroborano i ricordi di Sottili. Angeli, infatti, sostenne di aver chiamato il maggiore Gosciu dopo il ritrovamento delle carte di Ciancimino (tra le quali c'era anche una minaccia a Silvio Berlusconi), mentre Masi disse di aver saputo che l'ufficiale della telefonata era Sottili. “Che Angeli abbia chiamato me – commenta Sottili – non sta né in cielo né in terra. Non ero io a tirare le fila della perquisizione” poiché “il comandante del Nucleo Operativo era il colonnello Gosciu (sottoposto di Sottili, ndr) colui che dispose ed organizzò” l'operazione.

Il mistero della cassaforte
E' lo stesso Ciancimino ad aver raccontato al processo trattativa dell'esistenza di una cassaforte nella sua abitazione all'Addaura, secondo il figlio di don Vito contenente, tra le altre carte, anche il “papello”. Di quella cassaforte, però, non c'è alcuna traccia nei verbali né nei ricordi di chi prese parte alla perquisizione (la deposizione del maresciallo Migliore, o l'interrogatorio del brigadiere Rossetti e del maresciallo Lanzilao). Nemmeno Sottili, in questo, fa eccezione: “Se mi parlarono della cassaforte? Assolutamente no. Se l'avessimo vista l'avremmo aperta. Nessuno di noi pone il dubbio che qualcuno abbia visto la cassaforte e poi se ne sia andato”. Così, i misteri sulla presenza di quella cassaforte persistono.
Tra i fogli ritrovati a casa Ciancimino, poi, anche il riferimento a Silvio Berlusconi (quello in cui viene richiesto all'ex premier di “mettere a disposizione una delle sue reti televisive”, nel cui testo emerge l'intimidazione legata al fatto che se non si fosse dato corso alla richiesta avanzata ci sarebbe stato “il luttuoso evento”). Se al teste venne rappresentata “non me lo ricordo, ma sicuramente sì”, replica Sottili. Se però ci fosse stato o meno qualche accertamento, mentre il processo a Marcello Dell'Utri era ancora in corso, il teste non sa rispondere: “Sarà stato chiesto, ma io non ne sono a conoscenza. Non mi risulta”.

Le parole di Pomicino contro la versione di Scotti
E' invece l'ex democristiano Paolo Cirino Pomicino a snocciolare l'accadere degli eventi prima e dopo l'avvicendamento del nuovo governo nel giugno '92 (quando Scotti racconta di essere stato sostituito alla guida del Viminale da Nicola Mancino a causa delle sue battaglie antimafia). Il teste, però, racconta circostanze che cozzano con la versione di Scotti, poichè secondo Pomicino fu lui “a scegliere di non fare il ministro dell'Interno dal momento che il partito imponeva di optare tra la carica di ministro e quella di deputato. Mi disse lui che non aveva alcuna intenzione di restare al Viminale senza lo scudo dell'immunità parlamentare che la carica di deputato garantiva”.
“Scotti – racconta ancora Pomicino – non mi ha mai parlato delle sue battaglie antimafia, né mi ha detto che avrebbe preferito restare al Viminale. Il suo obiettivo era rimanere deputato”, tanto che “d'accordo con l'allora premier Giuliano Amato, che l'aveva nominato ministro degli Esteri nel suo Governo, Scotti aveva pensato di dimettersi dalla carica di ministro. Il progetto prevedeva che le sue dimissioni sarebbero state rifiutate dal presidente del Consiglio, così lui avrebbe apparentemente obbedito alla linea della Dc che imponeva di scegliere tra gli incarichi di governo e quelli parlamentari, restando deputato”. Ma saputa la cosa, che a Pomicino venne riferita direttamente da Amato, l'allora presidente Scalfaro e l'allora segretario della Dc Arnaldo Forlani si sarebbero opposti, obbligando Amato ad accettare le dimissioni di Scotti dalla Farnesina.
Intanto, la decisione se rinunciare o meno alla testimonianza del capo dello Stato Sergio Mattarella dovrà ancora attendere: sarà il prossimo 28 aprile, infatti, che si pronuncerà la difesa dell'ex ministro Mancino.

Ascolta l'audio dell'udienza