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dalla chiesa carlo alberto 600di Miriam Cuccu
Al processo trattativa insieme all’ex ministro Andò

Sulla nomina del generale Carlo Alberto dalla Chiesa a prefetto di Palermo (assassinato dopo soli cento giorni dal suo insediamento) c’erano “mugugni” e “lamentele”. A ricordarlo è stato Virginio Rognoni, ex ministro democristiano, interrogato al processo trattativa Stato-mafia insieme all’ex ministro socialista Salvo Andò. “C’era qualche preoccupazione da parte di alcuni parlamentari, anche del mio partito”, ha esordito Rognoni, in particolare “ricordo un incontro al Viminale con l’onorevole D’Acquisto”. Rognoni ha anche ripercorso un colloquio tra lui e il generale, nel quale quest’ultimo "disse:‘farò il mio dovere, ma magari mi scontrerò con qualche componente anche del suo partito’, ed io risposi ‘vada avanti e non guardi in faccia a nessuno, faccia il suo dovere’”. In quell’occasione dalla Chiesa parlò specificamente a Rognoni “di corrente andreottiana” e “fece il nome dell’onorevole Gioia (il democristiano Giovanni Gioia, ndr)”.
Andò ha invece ricordato, seppure non sapendolo collocare con certezza nel tempo, il suo incontro con Paolo Borsellino quando il primo parlò al secondo dell’informativa, al giudice sconosciuta, che definiva entrambi come soggetti ad altissimo rischio. Una circostanza, questa, di cui il teste non ha mai parlato, né prima né dopo la strage di via d’Amelio, prima di essere interrogato dai magistrati, salvo che “con Parisi (ex capo della Polizia, ndr) per essere il mio interfaccia naturale e per il rapporto di amicizia” e con Oscar Luigi Scalfaro, allora Presidente della Repubblica e “per me unico anello istituzionale ineludibile, ancor più del Presidente Amato”.

Sequestro Moro, sconfitta di Stato
Il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro, ha continuato Rognoni, “è stata una sconfitta dello Stato” per poi ricordare che nel novembre del ’79 l'allora Presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella, due mesi prima di essere assassinato da Cosa nostra a Palermo, andò a trovare il teste, all’epoca ministro dell'interno e “mi disse: 'Sto combattendo una battaglia difficile, cerco di rovesciare la situazione, soprattutto sui lavori pubblici' e mi fece il nome di Vito Ciancimino come un nome che contrastava questa sua politica”. Rognoni parlò del fatto con il generale dalla Chiesa: “È stata l'occasione più importante in cui Ciancimino entrò nei colloqui che avevo avuto con dalla Chiesa” ha precisato.

Di governo in governo
rognoni dalla chiesa c ansaRognoni ha ricordato la regola imposta sull’incompatibilità tra la posizione di parlamentare e quella di ministro come una “novità introdotta da Forlani” per “frenare il gioco delle correnti”. In merito al passaggio dal governo Andreotti al governo Amato (quello in cui Martelli fu riconfermato al ministero della giustizia, mentre Scotti fu sorprendentemente sostituito in quello degli interni da Nicola Mancino), secondo Andò non c’erano “indicazioni personali” sulla rosa dei nomi, ma “decisioni di carattere istituzionale”. Una volta nominato ministro degli esteri, ha spiegato Andò, “Scotti si trovava di fronte ad una scelta sulla base dell’incompatibilità tra incarichi ministeriali e status di membro del Parlamento, e scelse di rimanere in Parlamento” ma secondo il teste non parlò della sua mancata conferma al ministro degli interni, cosa che Scotti invece sottolineò durante il suo esame al medesimo dibattimento.

Conso e i decreti del 41 bis
Tra Rognoni e l’ex capo della Polizia Parisi, ha continuato il teste, i contatti sono poi “diventati rari”, mentre per l’ex ministro Conso – colui che non prorogò oltre 300 provvedimenti di carcere duro per altrettanti boss di Cosa nostra – l’ex ministro nutriva “molta stima”: “Ricordo c’era questo provvedimento di allentamento”, di cui Rognoni seppe “in ambito parlamentare”, seppure non in riunioni formali. Tuttavia, ha spiegato il teste, l’apprezzamento nei confronti di Conso “mi dispensava da una critica” in merito. Nemmeno Andò parlò con Conso delle mancate proroghe: “Era una personalità di cui tutti avevamo grandissima considerazione, e non avevo lo stesso rapporto che ebbi con Martelli”.
Rognoni ha poi negato, così come Andò, di aver mai ricevuto pressioni, in merito a provvedimenti a favore di Cosa nostra, da parte di ufficiali del Ros. Quanto all’entrata in vigore del decreto legge sul 41 bis: “Ci furono delle riserve di tipo formalistico – ha affermato Rognoni – ma poi prevalse l’idea che fosse conveniente insistere nella misura antimafia”. Poi il teste ha ricordato di quando venne diffusa la disposizione sul rischio di una prosecuzione di ulteriori attentati della criminalità organizzata la destabilizzazione, in vista delle elezioni: “Lo ricordo come un fatto importante, che però non ha avuto all’interno del mio partito una particolare attenzione e una discussione in proposito, e nel governo neanche”. E sull’omicidio del democristiano Salvo Lima: “È stato visto con grande sconcerto” ma non emerse l’ipotesi che potesse essere il primo di una serie di delitti eccellenti, seppur la probabilità era “tenuta in conto”.

Dossier Processo trattativa Stato-Mafia

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