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bianco ganzer c ansadi Aaron Pettinari e Francesca Mondin
La ricerca del boss corleonese Bernardo Provenzano, l'operato del Ros, la gestione della fonte Ilardo ed i rapporti con l'ex vice Capo del Dap Francesco Di Maggio. Sono questi solo alcuni degli aspetti su cui oggi si è soffermato l'esame del generale Giampaolo Ganzer, ex comandante del Ros, chiamato a testimoniare dalla difesa di Mori, Subranni e De Donno, al processo trattativa Stato-mafia. Una testimonianza in cui non sono mancate alcune contraddizioni rispetto a quanto aveva riferito al processo Mori-Obinu su quanto avvenne il 30 ottobre 1995 quando Riccio si recò da Mori per avvisare che il giorno dopo Ilardo avrebbe incontrato Provenzano. Se in un primo momento aveva attribuito al solo Riccio la responsabilità della scelta di non compiere alcun tipo di intervento, grazie alle contestazioni del pm Roberto Tartaglia è emerso che non fu Riccio a proporre di non intervenire. Secondo il teste, dunque, “in quel momento non venne presa in considerazione l'ipotesi di intervento”. Un ricordo che non combacia con quanto riferito da Riccio sulla possibilità di utilizzare delle attrezzature tecniche con sistemi di rilevamento Gps. Sempre dopo una contestazione Ganzer ricorda che “Riccio disse che parallelamente alle attrezzature tecniche del Ros si poteva vedere se attraverso gli americani vi fosse qualcosa miniaturizzato. Ma l'idea era di non fare nulla perché si temeva che potesse essere perquisito e quell'incontro doveva essere prodromico a successivi”. Alla fine l'incontro tra Ilardo e Provenzano si tenne in un casolare a Mezzojuso e Ilardo tornò con un gran numero di informazioni sui soggetti che erano impegnati nella gestione di quella latitanza. Tuttavia, prima che su questi fossero avviate delle attività d'indagine, passarono diversi mesi anche se Ganzer ha detto di non ricordare riscontri “di tipo particolare”.

I colloqui con Ciancimino e le relazioni mancanti
Con le dichiarazioni di Cancemi nel '93 viene sfatata l'ipotesi sulla morte di Provenzano che “circolava negli ambienti istituzionali palermitani, siccome non era mai comparso per anni su nessun filone su di lui”.  Alla domanda del pm Nino Di Matteo se Mori in quell'occasione “riferì del contenuto degli incontri con Vito Ciancimino, avvenuti l'anno prima, relativo all'esistenza in vita di Provenzano nel '92” il teste risponde secco “no, assolutamente no”. In riferimento a quei colloqui intavolati tra l'ex sindaco mafioso e gli ufficiali del Ros De Donno e Mori lo stesso Mori al processo di Firenze raccontò che chiese a Ciancimino spiegazioni su questo “muro contro muro” messo in atto da Cosa nostra. “In questi termini non me ne hanno mai parlato - spiega il teste Ganzer - quello che io ho recepito è che questi contatti avevano lo scopo per ottenere notizie per ricercare i latitanti”.
Di questi colloqui però lo stesso Ganzer ricorda che “non risulta ci fossero relazioni a riguardo”.
Eppure la norma interna al Ros quando si incontrava una fonte confidenziale “era che venissero annotati perlomeno gli estremi dell'incontro anche per poter ricostruire in termini logici e cronologici gli eventi” spiega il teste. Una volta emersi questi dialoghi “non ha chiesto a Mori perchè non avessero lasciato alcuna traccia scritta al Ros?” chiede incalzante il pm Di Matteo. “No ovviamente no - risponde secco Ganzer - essendo la cosa oggetto di indagine giudiziaria mi sono astenuto da queste richieste”.

Gli incontri con Di Maggio
Ganzer poi parla del suo rapporto con l’ex vicedirettore del Dap, Francesco Di Maggio (deceduto nel ’96) riferendo di incontri avuti sia in maniera formale che informale nel 1993. Incontri in cui si discuteva anche di quel che stava avvenendo nella stagione delle bombe vista come un attacco alle istituzioni. “A nostro avviso - spiega Ganzer - non dovevano esserci cedimenti”. Tuttavia, quando nel novembre del 1993 vengono revocati oltre trecento 41 bis con lo stesso ex magistrato non vi furono commenti.
Il teste riferisce anche dell'incontro che ebbe con Mori e Di Maggio nell'ottobre 1993. “In quell'occasione ci recammo dall'ex vice capo del Dap per vedere se tra i detenuti al 41 bis ci fossero soggetti che potevano manifestare segni di cedimento e per verificare la possibilità di nuove collaborazioni”. Non era però quella la prima volta che Mori e Di Maggio si incontravano. Nel luglio dello stesso anno, infatti (il dato si ricava dalle agende di Mori), i due si incontrarono per discutere proprio di “problemi del carcerario”.

Quella voce a Palazzo su Lima e i mafiosi
“Lima in rapporti con ambienti mafiosi? Si, era una voce che circolava ma non veniva ritenuto mafioso”. Gerardo Bianco, presidente del gruppo parlamentare della Democrazia cristiana nel biennio 1992-94, lo dice con tranquillità e senza esitazioni al processo trattativa Stato-mafia, come se essere sospettato di avere rapporti con ambienti mafiosi all'epoca non fosse particolarmente sconvolgente. E questo potrebbe dirla lunga sull'ambiente politico di quegli anni di alcune correnti della Democrazia cristiana.

“Scotti agli esteri per la norma sull'incompatibilità”
Con la nascita del governo Amato, il 28 giugno 1992, Nicola Mancino viene messo al Ministero dell'Interno spostando l'allora Ministro Vincenzo Scotti, (che aveva firmato assieme a Martelli il decreto legge che perfezionava il 41-bis per isolare i boss nel carcere duro) al Ministero degli Esteri. A riguardo l'allora presidente del gruppo parlamentare della Dc dà la sua versione: “Per superare il problema delle correnti interne la Dc si mise una norma interna dove i ministri dovevano dimettersi da parlamentari ma Scotti era contrario nel dare le dimissioni da parlamentare, lui sosteneva che l'incompatibilità parlamentare era necessaria per il Ministro dell'Interno, allora fu questa la base che portò Scotti a ricoprire il ministero degli Esteri, invece che degli interni, ritenendo che doveva comunque far parte del governo Amato”.
Una spiegazione che non convince il pm Teresi: “Dal punto di vista della stretta osservanza della norma dell’incompatibilità, vista la contrarietà espressa di non dimettersi da parlamentare che senso ha non confermarlo nel ministero e darlo ad un altro ministero?”. “Noi gli abbiamo proposto di fare il Ministro degli Esteri dove non c'era l'assoluta necessità” dell'immunità parlamentare, spiega Bianco.
Prima della strage di Capaci, quando ancora Scotti era Ministro dell'Interno rappresentò in Parlamento la paura che in Italia fosse in atto un'offensiva criminale della mafia finalizzata a destabilizzare le Istituzioni e sovvertire l'ordine costituzionale. Una presa di posizione importante di vera e propria denuncia, soprattutto alla luce delle stragi che si susseguirono fino al '93 ma su queste dichiarazioni il teste non si è espresso, spiegando che “l'audizione è antecedente la mia nomina, io allora ero un semplice parlamentare”. “Nemmeno dopo la strage di Capaci si ritenne di discutere nella Dc della denuncia di Scotti ?” chiede il pm Di Matteo. No, dopo il 23 maggio “si discusse sulla tragedia - risponde Bianco - noi sapevamo solo di trovare un modo per rispondere alla lotta alla mafia in modo concreto”.

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