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trattativa paraventodi Giorgio Bongiovanni e Aaron Pettinari
Le urla del legale di Riina, Luca Cianferoni, le polemiche tra pm ed avvocati, il presidente della Corte d'assise, Alfredo Montalto, costretto per due volte ad interrompere il dibattimento per “placare gli animi”. Probabilmente di questo, ammesso e non concesso che si darà spazio al processo tratttiva, parleranno i giornali di domani. Eppure nelle ultime due udienze sono accadute cose molto più rilevanti che suscitano più di un quesito. A salire sul pretorio è stato infatti, Pino Lipari (ex ministro dei lavori pubblici di Bernardo Provenzano).
Questi, nella giornata di ieri, per la prima volta in un processo ha riferito quanto appreso direttamente da Vito Ciancimino, Antonino Cinà e Provenzano, sui contatti tra l'ex sindaco mafioso ed i carabinieri ed il papello che sarebbe stato consegnato agli ufficiali del Ros. Un'udienza fiume, durata fino al tardo pomeriggio, in cui tutti i capimafia imputati hanno “insolitamente resistito” fino al termine dell'udienza, dimostrando di non volersi perdere neanche una parola di quello che è stato “consigliori” dei corleonesi. Lipari, coperto da un paravento, a differenza da quanto fatto in passato quando si avvalse della facoltà di non rispondere, non si è tirato indietro. Domanda dopo domanda ha confermato, seppur con qualche difficoltà, le dichiarazioni che aveva reso nel 2002 all'allora Procuratore capo di Palermo, Piero Grasso.
Una sua eventuale collaborazione con la giustizia sarebbe potuta essere davvero devastante per Cosa nostra eppure quelle dichiarazioni non furono valutate attendibili dall'attuale Presidente del Senato che, addirittura ad un'apertura dell'anno giudiziario, parlò di Lipari come di un depistatore. Riserve comprensibili alla luce delle intercettazioni che vennero svolte durante i colloqui tra il geometra ed alcuni familiari. Una vicenda evidenziata durante il controesame delle difese con l'intento di depotenziare totalmente la portata di certe dichiarazioni che forniscono un riscontro a Massimo Ciancimino che di quella parte di trattativa è stato testimone oculare. Ascoltata la due giorni di deposizione non mancano gli interrogativi. Perché uno come Lipari, dopo essere stato bollato come inattendibile e dopo aver scontato ogni condanna, decide comunque di confermare sostanzialmente quanto disse allora? Del resto avrebbe potuto trincerarsi dietro a “fiumi di non ricordo”, come spesso hanno fatto i tanti “testimoni istituzionali” che via via si sono succeduti in questi tre anni di processo, ma così non è stato. Cosa lo ha portato a rompere nuovamente il silenzio? Forse la morte di Bernardo Provenzano, quest'estate, può aver contribuito a dare un nuovo impulso per raccontare la sua verità? Perché nel 2002 si decise di bollare immediatamente come inattendibili certe dichiarazioni senza alcuna verifica ulteriore? Forse vi è stata troppa fretta? Il teste oggi in aula ha riferito che a lui non fu mai prospettata la possibilità di entrare nel programma di protezione.
E' noto che quegli interrogatori tra novembre e dicembre 2002 non erano inseriti in un contesto di collaborazione con la giustizia. Tenuto conto che, dalle stragi ad oggi, non mancano i pentiti i quali, specie nelle prime fasi, hanno dimostrato delle ambiguità poi superate, grazie al gran numero di riscontri forniti in altri temi. Anche questo poteva essere il caso? Chissà. A distanza di tanti anni tutto diventa più difficile da dimostrare. Specie se lo “sport nazionale” è demolire chiunque parli di “trattativa” Stato-mafia, di “papelli” o di accordi raggiunti dopo le bombe esplose nel '92 e nel '93. Eppure, è un dato di fatto, dopo il fallito attentato all'Olimpico (gennaio '94) le stragi sono cessate. Come per "decreto".


Focus su Pino Lipari
di Lorenzo Baldo
Il 5 novembre 2002 Pino Lipari inizia a collaborare. Ad ascoltarlo ci sono il procuratore Pietro Grasso e i sostituti Guido Lo Forte, Marzia Sabella e Michele Prestipino. Agli inquirenti l’ex ministro dei lavori pubblici di Provenzano spiega i motivi che lo hanno spinto a fare questa scelta “dolorosa” e “pericolosa”. Dice che il principale è quello “di ridare un’immagine di sé ai figli, ai discendenti, diversa da quella di imputato di mafia”. L'altro motivo “è di farla finita e di dare un messaggio anche ad altri che sono o in carcere o in qualche modo implicati in Cosa Nostra, di cedere le armi, di arrendersi definitivamente e dedicarsi alle proprie attività in maniera democratica, in maniera legittima e legale”. Lipari afferma anche di essere disposto a pagare un annuncio su un giornale per pubblicare una “lettera aperta a Bernardo Provenzano”. Cosa gli direbbe? “Consegnati, non fare il passo che ho fatto io, ogni settimana ti puoi vedere con la famiglia, lascia liberi quei ragazzi (i figli, ndr) di continuare a studiare e farsi la loro vita. Siamo vecchi e se te la devi prendere con me, lascia stare i miei figli che non c'entrano niente. Hanno già pagato il loro prezzo: sono io il pentito e non loro”. Poi però, nei colloqui intercettati con la moglie e la figlia Cinzia, Lipari rassicura: “Non vi preoccupate perché io con Provenzano ho un rapporto bello”. Dopo un paio di mesi la Procura lo “licenzia” a tutti gli effetti in quanto ha violato gli obblighi dell'aspirante pentito. Certo è che dall'ascolto delle intercettazioni con moglie e figli gli inquirenti hanno dedotto che l'intento di Lipari non sarebbe stato condizionato da una regia occulta ai vertici di Cosa Nostra. L’aspirante collaboratore di giustizia non sarebbe stato mandato da Bernardo Provenzano per depistare le indagini, ma avrebbe solo tentato di alleggerire la sua posizione processuale. In ogni caso un grave passo falso. Che indubbiamente Lipari ha pagato a caro prezzo. A distanza di 14 anni, per l’uomo che è stato a stretto contatto con il potere assoluto di Riina e Provenzano c’è la possibilità di avvalorare la veridicità delle sue dichiarazioni. La sua deposizione al processo sulla trattativa Stato-mafia lo ha posto nuovamente al centro dell’attenzione con tutti i pro e i contro del caso. E questa volta ha realmente l’opportunità di comprovare l’autenticità del suo “messaggio” del 2002 rivolto a coloro che “sono in carcere, o in qualche modo implicati in Cosa Nostra” affinché possano “arrendersi definitivamente”. La prima persona a cui il messaggio sembra rivolto è proprio uno degli attori principali della vicenda del “papello” che lo stesso Lipari ha raccontato: Antonino Cinà. La sua ostinata scelta di rimanere in silenzio lo accomuna immancabilmente a un boss stragista come Totò Riina. Che preferisce finire i propri giorni al 41-bis piuttosto che “arrendersi” a quello Stato con cui ha trattato. Ma Cinà non è come Riina, e di fronte ad autentici rappresentanti delle istituzioni potrebbe trovare il senso di invertire la rotta della sua strategia silente. Questo Pino Lipari lo sa, e lo sanno anche i denigratori di questo processo.

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