Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

amato mori ciancimino aulabunkerL'ex segretario generale di Palazzo Chigi ascoltata al processo
di Lorenzo Baldo e Aaron Pettinari
Ventidue luglio e ventotto dicembre 1992. Sono queste le date segnate nelle agende di Fernanda Contri, ex consigliere del Csm ed ex sottosegretario generale di Palazzo Chigi, che questa mattina ha deposto al processo trattativa Stato-mafia. Date in cui la Contri incontrò personalmente il generale Mario Mori.
E' in una di queste occasioni che il Comandante del Ros gli disse espressamente degli incontri con l'ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino. “A luglio mi ero recata a Palermo con il Presidente Scalfaro in occasione dei funerali degli uomini della scorta di Borsellino. Mori mi spiegò che stava avendo degli incontri con Ciancimino (alludendo al padre, ndr). Non mi chiese niente, alcun appoggio. E poi aggiunse: 'Mi sono fatto l'idea che è uno dei capi se non il capo della mafia'”. Grazie alle contestazioni ed alle domande dei pm Francesco Del Bene e Nino Di Matteo è stato possibile chiarire un aspetto fondamentale sul quando si sarebbe tenuta questa conversazione, ovvero in luglio. Nel dicembre 1992, infatti, Vito Ciancimino si trovava in carcere (venne arrestato il 19, ndr) e la stessa Contri ha ricordato in aula che in occasione di quel secondo incontro il tema principale della conversazione con Mori era l'arresto di Bruno Contrada. “Ricordo esattamente quel periodo – ha dichiarato – Ricordo che quando ci fù l'arresto venne il Capo della Polizia Parisi che era fuori di sé e che voleva parlare con Amato. Il tema del dialogo con Mori in quel giorno? Era la lotta alla mafia in generale e anche Contrada”. Non solo. Riferendosi all'incontro di luglio la Contri non è riuscita a chiarire con esattezza chi prese l'iniziativa per incontrarsi a pochi dalla strage di via d'Amelio. Quel che è certo è che “di sicuro volevo sapere se c'erano novità sulla vicenda, ma se ha chiamato lui per prendere l'appuntamento o l'ho chiamato io questo non lo ricordo anche se capisco che è rilevante”. Tuttavia basta incrociare alcuni dati e rileggere la testimonianza resa per la prima volta ai pm nisseni, nel giugno 2010.
“Io - ha aggiunto la Contri - di tutti questi colloqui ho sempre riferito al Presidente del Consiglio Giuliano Amato ma non ho riferito alcuna richiesta, perché a me Mori non ha fatto richieste”. Alla domanda se riferì al Premier anche degli incontri Mori-Ciancimino ha risposto: “Sicuramente sì, riferivo a lui quotidianamente le cose più importanti e questa era sicuramente una di quelle. Dissi che stava svolgendo questo incontro ma non ci furono commenti da parte di Amato”.
Un ricordo diverso da quello che lo stesso “dottor Sottile” aveva riferito lo scorso giugno quando, sentito in trasferta a Roma, disse di aver saputo degli incontri tra la segretaria generale e il generale ma non fece alcun riferimento a don Vito.
Quindi l'ex consigliera del Csm ha anche spiegato il motivo per cui nel 2010 decise di andare a parlare con i magistrati di Caltanissetta. “In me era maturata l'idea che potessi essere utile – ha spiegato – Andai a parlarne con la mia amica Anna Canepa, della Procura nazionale antimafia. Le dissi che io avevo avuto degli incontri all'epoca con diversi personaggi e le chiesi se poteva essere utile. Lei mi accompagnò da Piero Grasso, che allora era a capo della Procura nazionale antimafia che una volta ascoltato il mio racconto mi disse: 'fatti viva con la Procura di Caltanissetta che stanno cercando cose'. Fu una mia iniziativa”. Alla domanda su quale fu l'incipit che le permise di ricordare certi fatti a tanti anni di distanza la donna ha risposto che “sicuramente leggendo la stampa, che vi erano processi e che erano stati ascoltati dei testimoni, ma non per particolari dichiarazioni di tizio, caio o sempronio”. In quel periodo l'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia aveva già raccolto le dichiarazioni di Martelli, della Ferraro e di Violante, tutti spinti a “ricordare” dopo le dichiarazioni di Massimo Ciancimino sugli incontri avuti dal padre con i carabinieri.

Le decisioni di Scalfaro
Nella sua deposizione, in cui non sono mancati i classici “non ricordo”. Per alcuni di questi si fa decisamente fatica a pensare che determinati dettagli non si possano ricordare. Un esempio lampante è quando il Pm Di Matteo è tornato ad affrontare la questione degli attentati di Roma e Milano e il black-out del centralino di Palazzo Chigi. “Ricorda se Ciampi parlò di avere temuto un colpo di Stato?”. “Non lo ricordo. Più di uno di noi ebbe questo timore. Non ricordo di averlo sentito esprimere in questi termini”. Di Matteo ha insistito: “Il Consiglio dei Ministri venne informato di una nota dei Serviziche riguardava un attentato annunciato nei confronti di Napolitano e Spadolini?”. “Non mi ricordo. So che girava per Roma la storia di San Giorgio al Velabro e San Giovanni con riferimento a Napolitano e Spadolini, ma questa era una storia quasi da bar, girava nei mesi successivi... ma non ricordo di un rapporto dei Servizi...”. Di Matteo ha chiesto quindi alla Contri se sapesse se l'ex Presidente Ciampi avesse tenuto un'agenda per quanto concerneva la sua funzione. “Non saprei”. E poi ancora. “La dottoressa Ferraro le ha mai detto di aver ricevuto la visita del capitano De Donno?”. “No”. “E di Ciancimino?”. “No mai lo escludo”. “Della notizia degli incontri tra Mori e Ciancimino, lei sa se qualcuno abbia informato il ministro degli interni?”. “Io non lo dissi e la cosa rimase tra me e Amato”. “Mai interloquito con Nicola Mancino su questi argomenti?”. “No”.
“Dopo la strage di via D'Amelio lei parlò con Gianni De Gennaro in merito alla strage?”. “No”, ha replicato secca la Contri, che però ci ha tenuto a raccontare l'episodio della nomina di De Gennaro a capo della Dia dopo il trasferimento di Tavormina. Dopo che era stato proposto il nome di De Gennaro la stessa Contri era andata dall'allora Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, per sondare la sua opinione. “Andai dal presidente della Repubblica a proporgli il nome, lui disse che c'erano difficoltà in quanto era troppo giovane. Io dissi: 'non è mai troppo presto per mandarli a morire e lo è per dirigere un ufficio!?”. Fatto sta che a suo dire a quel punto Scalfaro decise di nominarlo a capo della Dia.
Era un fatto “normale”, dunque, che le nomine più importanti del Paese venissero decise in concerto con il Presidente della Repubblica. Un intervento, quello del Capo dello Stato, che vi fu anche nella sostituzione dei vertici del Dap.

La delusione di Falcone e la “lotta contro il tempo” di Borsellino
Durante la deposizione l'ex segretaria generale di Palazzo Chigi ha anche ricordato le tensioni vissute da Giovanni Falcone sul finire degli anni Ottanta: “Non avevo mai visto Giovanni Falcone così deluso e colpito come quando non fu approvata dal Csm la sua nomina a capo dell'ufficio istruzione. Mi disse: 'Avete capito che mi avete consegnato alla mafia?' Era scosso, impaurito. In quei giorni - ha proseguito - Falcone disse quella frase che poi diventò famosa: 'Quando uno Stato lascia solo un suo servitore diventa un facile obiettivo'. Di sicuro è stato un periodo difficilissimo, la tensione era palpabile”. Nel 1989, poi, c'era stato il fallito attentato all'Addaura. “Ricordo che mi recai quell'estate presso la sua abitazione – Dopo il fallito attentato all'Addaura a Giovanni Falcone fu messa in giro la voce che se l'era fatto da solo. Volevo dare un segnale per dimostrare che non tutti all'interno del Csm pensavano questo. Arrivavano anche delle telefonate in casa e Francesca rispondeva al telefono ma dall'altra parte non rispondeva mai nessuno”.
E proprio a fronte dei commenti di Giovanni Falcone sulle “menti raffinatissime” il Pm ha chiesto quindi al teste se fosse stata a conoscenza delle voci che avevano minimizzato la potenzialità dell'esplosivo utilizzato. Un paio di anni fa al processo di Appello per la mancata cattura di Provenzanol'accusa, rappresentata dai pg Roberto Scarpinato e Luigi Patronaggio, aveva puntato il dito nei confronti della controinformazione che “verosimilmente 'imbeccata' anche da fonti istituzionali, cercò di minimizzare l'episodio (il fallito attentato all'Addaura, ndr)”. Secondo Scarpinato e Patronaggio, Mori, al processo di merito, così come l'Alto Commissario Domenico Sica, il dottor Di Maggio ed il Giudice Misiani, “adombrò ufficialmente delle perplessità sull'accaduto dichiarando che un consistente numero di chili di esplosivo messo lì senza alcuna possibilità di deflagrare era una minaccia molto relativa e che aveva pensato ad un tentativo intimidatorio più che ad un attentato mirato ad annientare il Giudice Giovanni Falcone”. Le perizie effettuate invece avevano dimostrato “l'assoluta capacità distruttiva dell'esplosivo posto sulla scogliera dell'Addaura”. Laconica la risposta dell'ex Segretario generale della Presidenza del Consiglio a riguardo: “Non mi ricordo”. Poi però ha ammesso che dopo aver sentito parlare di “menti raffinatissime” il suo pensiero era andato a Bruno Contrada.
Dopo la strage di Capaci la Contri incontrò il giudice Borsellino a Roma, circa una decina di giorni prima che fosse ucciso: “C'eravamo dati appuntamento nell'albergo in cui entrambi alloggiavamo. Mi pregò di intervenire presso il Governo per accelerare i tempi di approvazione di certe leggi, quella sui pentiti in particolare. Mi disse: 'Io ne sto interrogando nove, vado avanti e indietro dalla Germania e ho bisogno che questi approvino certe leggi'. Io chiesi se si riferiva alla conversione di un decreto, ma lui mi rispose: 'La mia è una lotta contro tutti i tempi e tu hai capito benissimo cosa voglio dire'. Era tristissimo".
Nel concludere l'esame il pm ha anche cercato di capire se in ambito istituzionale si discusse delle parole dette in conferenza stampa, nel gennaio 1993, dal gen. di Brigata Giorgio Cancellieri in seguito alla cattura di Totò Riina.
“Ricorda dell'arresto di Riina?” ha chiesto il Pm. “Ricordo di aver visto in tv una scena”. “Ma il giorno dell'arresto di Riina, voi, come Governo, siete stati messi a conoscenza che alla conferenza stampa fu detto di una 'trattativa' e si utilizzò il termine 'barattare'. Qualcuno chiese a questo alto ufficiale cosa intendesse per baratto o trattativa per far cessare le stragi?”. “Non lo so. Non ho visto la conferenza stampa. L'avrò letta poi giorno dopo sui giornali”. “La tranquillizzo – ha concluso Di Matteo – Quelle frasi non erano riportate sui giornali. Non c'erano”.

Controesame Masi
L'udienza si è conclusa con il controesame del maresciallo dei carabinieri Saverio Masi, già sentito la scorsa settimana. Il militare ha di fatto confermato quanto già dichiarato in precedenza dicendosi convinto che il capitano Angeli, che diresse la perquisizione nell'abitazione di Ciancimino, gli parlò del papello e che probabilmente gli fece anche il nome di Berlusconi. “Disse che era preoccupato – ha detto rispondendo alle domande dell'avvocato Di Peri – parlò di una documentazione scottante. Il documento con il riferimento a Berlusconi? Mi parlò di parecchia documentazione, credo di sì ma non ne ho la sicurezza assoluta. Nel 2009 lo escludo? Io ricordo che il nome di Berlusconi emergesse già nel primo colloquio che abbiamo fatto”.
Rispondendo alle contestazioni dell'avvocato Basilio Milio ha spiegato il motivo per cui, dopo aver visto Matteo Messina Denaro a bordo di un'auto a Bagheria, ha impiegato due mesi per scrivere la relazione di servizio ai superiori: “Io non mi fidavo più di Sottili. Quindi prima di depositare la relazione di servizio avviai attività indagine per avere riscontri ed inserirli nella stessa, compresa l'identificazione della persona che vidi vicino alla macchina che guidava Messina Denaro”. E poi ancora: “Io dissi a Gosciu e Sottili che era mia intenzione andare alla Procura a raccontare quel che era accaduto qualora non mi avessero messo a mio agio per catturare Messina Denaro. Questo lo dissi dopo l'arreesto di Provenzano. Contavo di trovare manforte dal colonnello Angeli ma poi passano altri tre anni. Per due anni io fui trasferito in prima sezione senza far nulla e poi al reparto scorte, dove vado su mia richiesta perché non mi facevano più lavorare. Avevo paura di ritorsioni, lo ammetto, per questo non ho denunciato immediatamente”.
Masi ha anche rispiegato che le sue indagini su Provenzano e Messina Denaro nascevano da una sua iniziativa in un secondo momento concertata con l'autorità giudiziaria: “Io posso prendere l'iniziativa in quanto ufficiale di polizia giudiziaria poi devo rapportarmi. Lo feci con Prestipino con tanto di informativa non firmata da me ma compilata con dettatura da un altro mio collega. Fu trasmessa all'autorità giudiziaria e da lì partirono le intercettazioni. I risultati che ottenemmo sono anche negli atti di Grande Mandamento. La Polizia scrive e fa riferimento alla relazione di servizio, alla mia informativa. Da lì parte il pedinamento di uno dei contadini che gestiva Provenzano”.

ARTICOLI CORRELATI

Processo Mori: Borsellino sapeva. Questa e' l'unica cosa certa

Borsellino quater: il silenzio di Mori e De Donno