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di Lorenzo Baldo e Aaron Pettinari

L'ex ministro della Dc esulta ma non viene smentita la trattativa
“Non colpevole”, “Assolto”, “Giustizia è fatta”. Saranno questi alcuni dei titoli che tg, giornali e programmi d'approfondimento metteranno in evidenza nel raccontare la sentenza di quest'oggi al processo in abbreviato sulla trattativa Stato-mafia che vede come imputato l'ex ministro della Dc Calogero Mannino, difeso dagli avvocati Grazia Volo, Marcello Montalbano, Carlo Federico Grosso e Nino Caleca. Il Gup del Tribunale di Palermo, Marina Petruzzella, si è presa circa un'ora di Camera di consiglio per decidere. Poi la lettura del dispositivo: “L'imputato è assolto per non avere commesso il fatto” in base all'articolo del codice di procedura penale 530 comma secondo. Una formula che ricalca la vecchia assoluzione per “insufficienza di prove” e che viene applicata quando la prova del reato “manca, è insufficiente o è contraddittoria”.
Ed è proprio dal documento del Giudice, in attesa di leggere le motivazioni della sentenza, che si deve partire per esprimere alcune considerazioni. Lo stillicidio nei confronti del processo trattativa Stato-mafia, che comunque prosegue in ordinario (dove imputati sono gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni, Giuseppe De Donno e Mauro Obinu, l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino con l'accusa di falsa testimonianza, l’ex parlamentare di Forza Italia Marcello Dell’Utri, ma anche i boss Salvatore Riina, Leoluca Bagarella e Antonino Cinà a cui si aggiungono il pentito Giovanni Brusca e Massimo Ciancimino), e dei pm che ne rappresentano l'accusa è già iniziato.
Lo stesso Mannino ha iniziato le danze parlando di “mania di carattere teatrale dei pm”, di “atteggiamenti ostinati di pubblici ministeri”, prendendosela in particolar modo con il procuratore aggiunto Vittorio Teresi e con il sostituto Antonino Di Matteo. Su quest'ultimo ha aggiunto: “Il pm Di Matteo nel processo per la strage di via d'Amelio ha fatto condannare persone innocenti per colpa della sua ostinazione. Forse con me voleva fare lo stesso”. E poi ancora: “Non credo si sia trattato di un processo politico tranne Ingroia che poi è 'fuggito', questi pubblici ministeri non hanno una dimensione politica. Hanno dimostrato di avere delle debolezze. Qualcuno di questi pubblici ministeri, come Di Matteo, peraltro è assuefatto alla ostinazione accusatoria, lo ha dimostrato a Caltanissetta”. Parole ipocrite che si commentano da sole di fronte al dovere del magistrato di indagare ed accertare se certi fatti hanno una rilevanza penale quando si è in presenza di una notizia di reato (spesso si dimentica che vi è un Gip che ha ritenuto sufficienti le prove per iniziare un processo, ndr) ed anche rispetto alla storia personale di un magistrato come il pm Di Matteo.

FOTOGALLERY © Michele Naccari/Studio Camera


Di fronte ad un attacco che è già iniziato resta il dispositivo della sentenza che nella sua interezza permette già di evidenziare alcuni aspetti.
L'impianto accusatorio nei confronti di Mannino è noto così come il reato contestato disciplinato dagli articoli 338 e 339 del codice penale, ovvero violenza o minaccia ad un corpo politico dello Stato. Secondo l'accusa avrebbe dato il primo input, dopo l’omicidio Lima, al dialogo che, tramite i carabinieri del Ros, ha visto protagonisti pezzi delle istituzioni e mafiosi.
In cambio si sarebbe adoperato per garantire un'attenuazione della normativa del carcere duro. L'ex ministro democristiano si è sempre difeso negando ogni coinvolgimento nelle vicende che gli sono state contestate ma sullo sfondo restano degli enormi punti interrogativi su certe condotte tenute. Perché Mannino non ha mai denunciato ufficialmente le minacce subite i primi mesi del 1992? Perché dopo la sentenza del Maxiprocesso e prima della morte di Lima lo stesso Mannino, che aveva ricevuto nel febbraio a casa una corona di crisantemi, arriva a dichiarare al generale Guazzelli “Ora uccidono me o Lima”? Perché dopo la morte di Guazzelli, nell'aprile 1992, l’ex ministro si è incontrato più volte a Roma con il generale Subranni, alla presenza anche dell’ex numero 3 del Sisde Bruno Contrada? Un dato, quest'ultimo, che si ricava proprio dalle agenda di Contrada dove vi è l'annotazione su un incontro con Mannino per “parlare segnalazione cc e minacce di pericolo di cui si trova”.
Si dovranno poi leggere le motivazioni della sentenza, il cui deposito è previsto entro novanta giorni, per capire in che misura sono state valutate anche le prove acquisite in corso di dibattimento come l'acquisizione della sentenza Scalone, necessaria per la ricostruzione delle vicende sulla Falange Armata (su cui è stata anche acquisita la nota della Dia del marzo '94), e tutti quegli atti relativi al Corvo 2 le modalità di svolgimento di indagine sul rapporto mafia-appalti. Tasselli che spiegano anche il contesto storico di quei primi anni Novanta.
E' ovvio che l'assoluzione stabilita dal Gup “perché l'imputato non ha commesso il fatto”, di fronte ad una richiesta di condanna presentata dalla Procura a nove anni di carcere, rappresenta una sconfitta momentanea che inevitabilmente andrà anche ad incidere su quell'impianto accusatorio che oggi si trova al vaglio della Corte d'Assise. Mannino è il primo imputato di un'inchiesta, avviata nel 2008 ed iniziata nel 2013 tra mille difficoltà, ad essere giudicato. Al tempo stesso però si può riflettere su un altro dato, ovvero che sono esclusi gli altri due casi, ovvero che “il fatto non sussiste” e che il “fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato”. Due diciture che avrebbero avuto un impatto ben più devastante sul processo in ordinario ma che non sono presenti nel dispositivo.
Ciò significa che il fatto esiste, che il “teorema trattativa” (così come lo chiamano certi denigratori che si definiscono benpensanti) è tutt'altro che distrutto. L'opposizione a questa (assurda) assoluzione appare più che dovuta.

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