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de gennaro processo trattativadi Lorenzo Baldo e Aaron Pettinari
In un’informativa del 12 agosto 1993 anche lo Sco aveva ravvisato come “Obiettivo della strategia delle bombe sarebbe quello di giungere a una sorta di trattativa con lo Stato per la soluzione dei principali problemi che attualmente affliggono l´organizzazione: il "carcerario" e il "pentitismo””. Lo Sco rivelava anche che “Nel corso di riservata attività investigativa funzionari dello servizio hanno acquisito notizie fiduciarie di particolare interesse sull´attuale assetto e sulle strategie operative di Cosa nostra”.

Di quella fonte fiduciaria Manganelli e De Gennaro, che era direttore della Dia, parlarono senza entrare però nello specifico. “Manganelli mi disse che aveva una fonte attendibile - ha detto oggi in aula rispondendo alle domande del pm Nino Di Matteo - Io neanche chiesi chi era. Non mi pare di averne parlato. Ma era una cosa comunque nota che vi fosse qualcosa perché già in giugno vi era un appunto interno al dipartimento di sicurezza. E quell’appunto era anche in possesso degli analisti della Dia che poi hanno redatto il nostro documento”.
A quel punto il pm Di Matteo ha fatto notare che la legge diceva che “tutti gli ufficiali dovevano comunicare alla Dia… elementi investigativi di cui siano venuti in possesso” evidenziando come parlando della fonte non si sarebbe violato alcuna regola”. Tuttavia De Gennaro ha glissato, dicendo di non aver mai saputo chi fosse la fonte e che comunque anche oggi accade che ufficiali dei carabinieri o di polizia non hanno certi tipi di interlocuzioni con la Dia.
Inoltre De Gennaro, sempre rispondendo alle sollecitazioni del pm, ha ricordato anche le dichiarazioni del pentito Annacondia: “Io pensavo che fosse un collaboratore… che aveva parlato di iniziative di tipo stragistico… non ricordo se fossero colloqui investigativi… ma sono ricordi lontani nel tempo. Ma mi pare che ne abbiamo parlato anche nella nostra analisi citandolo”.
Tornando al convincimento della matrice mafiosa per le stragi del 1993 il pm Di Matteo ha chiesto: “Se fino al 30 luglio c’è una grande confusione della prospettazione di causali sugli autori delle stragi come poi si arriva al 6 agosto e al 10 agosto in cui invece questa confusione sembra essere svanita e si va sulla pista mafiosa? Fondamentalmente in questo 10 giorni che cosa ha determinato questo cambio di indicazione precisa in riferimento alla causale sulla matrice mafiosa?” Sulla vicenda però De Gennaro non ha fornito ulteriori elementi che potessero spiegare concretamente i motivi. “Nelle primissime battute c’era una forte difficoltà a individuare una matrice. Sono certo che all’interno dell’ufficio che dirigevo si è maturato il convincimento che anche una dinamica era compatibile con l’organizzazione mafiosa. Quindi si arrivò al convincimento  che non poteva non essere una continuità. Permaneva ancora una gamma di ipotesi, ancora in sede parlamentare si discuteva di ipotesi diverse”.
Sempre rispondendo alla domanda del pm Di Matteo se “come direttore della Dia seppe che il Sismi nell’agosto del ’93 prospettò al ministro dell’interno di aver acquisito notizia di prosecuzione di strategia stragista con omicidio di Napolitano o Spadolini” il teste ha dichiarato: “A quel tempo no, l’ho letto solo recentemente sul giornale. Nessuno ci informò, almeno per mia conoscenza”. De Gennaro ha poi detto di non ricordarsi se fosse stato informato o meno dell’esposto di sedicenti familiari di detenuti a Pianosa e l’Asinara rivolto a Scalfaro contenente minacce nei confronti di Nicolò Amato allora direttore del Dap.
In merito alle interviste dell’allora ministro Nicola Mancino in cui si annunciava un imminente arresto di Totò Riina De Gennaro ha detto che la Dia non poteva avere “nessuna cognizione e consapevolezza. Tanto che l’ho appreso dalla tv e dall’ansa. Non ricordo le parole di Mancino, certamente non ne parlò con me. Come non ho mai saputo dell’arresto di Santapaola, o Madonia”.


Processo trattativa, De Gennaro: ''Dissociazione? Se ne parlava ma espressi contrarietà''
di Lorenzo Baldo e Aaron Pettinari
“Alla fine del ’93, il 29 dicembre feci una relazione perché il vescovo di Acerra Monsignor Riboldi si era rivolto al capo della Polizia proponendo l’ipotesi che si potesse dare corso a una dissociazione di alcuni camorristi appartenenti al clan Moccia. Credo che fosse giunta dai cappellani del carcere questa richiesta a monsignor Riboldi. Io spiegai al vescovo che non era concepibile l’istituto della dissociazione. Misi in guardia dal fatto che questo potesse essere un modo per sfuggire alle maglie della giustizia”. E’ questo il ricordo di Gianni De Gennaro, oggi teste al processo trattativa Stato-mafia, in merito alla dissociazione che avrebbe permesso ai mafiosi di non rinunciare ai propri patrimoni né tentomeno denunciare i propri crimini e quelli della consorteria mafiosa.
Rispondendo alle domande del pm Vittorio Teresi De Gennaro non ha escluso che al Comitato di sicurezza del 30 luglio e del 10 agosto 1993 fosse presente Mario Mori. “E’possibile che fosse al seguito del comandante generale. Era sicuramente presente al gruppo di lavoro del Cesis. Non ho un ricordo specifico, ma non mi meraviglierebbe affatto” ha detto De Gennaro che ha comunque escluso di aver mai avuto cognizione di dialoghi aperti con i corleonesi per via di Vito Ciancimino (“se erano contatti di natura confidenziale non c’era un obbligo di riferirlo”) né delle rimostranze di Martelli su questi contatti.
Tornando a parlare del 41 bis De Gennaro ha ricordato che sul finire di ottobre 1993 anche alla Dia venne richiesto un parere sull’applicazione del 41bis. “Abbiamo sempre dato un parere negativo sulla non applicazione - ha aggiunto rivolgendosi alla Corte - In quel documento il Dap raccomandava una selettività sull’applicazione del 41bis. Quando mi chiesero cosa si dovesse fare dissi di rispondere nei tempi che erano possibili”. E’ poi noto che successivamente vi fu la mancata proroga di più di 300 decreti di 41bis”.


De Gennaro: ''La nota Dia dove si parla di tacita trattativa? Obiettivo attacco allo Stato era il cedimento''
di Lorenzo Baldo e Aaron Pettinari
Prosegue con l’approfondimento sulla nota della Dia, del 10 agosto 1993, inviata al Ministro degli Interni Mancino dove si evidenziava come “un’eventuale revoca anche solo parziale dei decreti che dispongono l’applicazione dell’Art. 41 bis” avrebbe potuto “rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla stagione delle bombe”.
In quel documento si identificava il perché delle stragi: “La perdurante volontà del Governo di mantenere per i boss un regime penitenziario di assoluta durezza ha concorso alla ripresa della stagione degli attentati. Da ciò è derivata per i capi l’esigenza di riaffermare il proprio ruolo e la propria capacità di direzione anche attraverso la progettazione e l’esecuzione di attentati in grado d’indurre le Istituzioni a una tacita trattativa”. Ed è proprio su quel termine usato, che il pm Vittorio Teresi ha posto l’attenzione in particolare chiedendo all’ex capo della Dia, Gianni De Gennaro,  come lo stesso si leghi allo “scontro frontale e violento con le istituzioni”.
“Faccio fatica a trovare una risposta - ha detto De Gennaro - il documento va letto nella sua interezza… che ci fosse uno scontro frontale con le istituzioni è innegabile. Certamente è un’azione che mira alla resa delle istituzioni ed in questi termini viene letta l’azione stragista”. “Per l’ufficio - prosegue l’ex capo della Polizia - non bisognava dare alcun segnale di cedimento… indebolire il convincimento istituzionale di indebolire questa fermezza era un obiettivo remunerativo a distanza… tacita significa che non è espressa… dalla lettura complessiva doveva intendersi come un cedimento dello Stato”
A quel punto Teresi, ricordando come all’interno della nota si fa riferimento proprio alla revoca del 41 bis come “primo concreto cedimento dello stato intimidito dalle bombe” ha chiesto se proprio questo tema potesse essere espressione della “tacita trattativa”.
“Era intesa come resa alle misure di contrasto - ha spiegato De Gennaro - che poi l’applicazione del 41bis fosse vissuto come un fatto dannoso per l’organizzazione emerge con chiarezza. Il 41bis determinava delle proteste nel carcerario, ma soprattutto determinava il cedimento di questi detenuti che iniziarono a collaborare con la giustizia. Tutto questo non poteva non essere mantenuto”.
De Gennaro ha ricordato che sul 41 bis in quegli anni ci fosse una certa discussione: “Che il 41bis fosse una misura non condivisa questo esisteva. Non ricordo se nell’analisi del Cesis o della Dia c’è un riferimento al fatto che queste stragi fossero successive alla conferma di numerosi provvedimenti di 41bis, era un fatto rilevato in sede di analisi. Siccome erano stati confermati il 20 luglio si voleva continuare a confermarli. Anche da un punto di vista organizzativo si fossero pronunciati esponenti delle istituzioni questo è vero. Non era un’applicazione facile questa del 41bis”.
De Gennaro, sollecitato dal pm, ha poi ricordato anche l’anonimo del febbraio 1993, giunto alla Dia di Milano, in cui si faceva riferimento a progetto di attentati per avanzare proprio una richiesta di allentamento della pressione sia investigativa che nell’ambito carcerario.
Nella nota della Dia, inoltre, si parla anche dell’omicidio Borsellino dove si evidenziava come l’attentato “pur essendo stato riconducibile a Cosa nostra presentasse mandanti da perseguire che andavano al di là degli interessi esclusivi di Cosa nostra”.
“Fin dalle prime analisi della strage di via d’Amelio - ha spiegato De Gennaro - agli analisti era risultata impropria questa strage, si era cominciato a ipotizzare che a fianco dell’organizzazione criminale avessero potuto aver condiviso realtà criminali di tipo diverso. Non vengono individuati quali fossero gli interessi diversi ma poi si fece riferimento alla destabilizzazione… come attacco alle istituzioni”.


Processo Trattativa, De Gennaro: “Era in corso un attacco allo Stato”
di Lorenzo Baldo e Aaron Pettinari
Dopo il Comitato nazionale di sicurezza del 30 luglio fu istituito un gruppo al Cesis per capire la matrice delle stragi. Il pm Teresi, durante l’esame, ha chiesto dei chiarimenti, basandosi anche su parte del materiale depositato ieri dall’avvocato Basilio Milio, sui resoconti di diverse riunioni. Il procuratore aggiunto ha ricordato che il capo della Polizia Parisi evidenziava come “si dovesse ormai pensare ad una struttura progettuale e operativa con presenza della mafia e che presenta una intelligenza non solo mafiosa” e fu proprio Parisi a proporre l’istituzione del gruppo “a cui avrebbe dovuto partecipare anche un rappresentante del Dap”. Questo mentre nel Parlamento “si tendeva ad escludere la matrice terroristica mafiosa, c’era un atteggiamento irridente e si accusano i servizi segreti”. De Gennaro ha quindi risposto: “C’era questo scetticismo anche se non lo ricordavo in questi termini. C’era chi diceva anche di Servizi Segreti stranieri che operavano in Italia… Nel mese di settembre ’93 alla commissione stragi c’erano parlamentari che facevano riferimento alla pista islamica”. 
Di quel lavoro al Cesis De Gennaro ha ricordato di non aver partecipato direttamente ma che “il dottor Micalizio mi disse che era prevalsa come linea l’ipotesi della Dia. Se parlammo di ricatto allo Stato? Di attacco allo Stato sì… di ricatto non credo di averlo sentito in questi termini… Rapporto di do ut des?Non in questi termini… non se ne è parlato nel comitato del 28 luglio dove si parlava di un’aggressione destabilizzante delle istituzioni e nemmeno nel comitato del 30 luglio. Il 30 luglio se ancora non c’era una convergenza sull’ipotesi di matrice mafiosa si è discusso di una possibile azione destabilizzante con matrice da definire… non si poté parlare di azione di ricatto…”.
A quel punto Teresi ha citato un passaggio del verbale fatto da direttore del Cesis in cui si parlava di “destabilizzazione del Paese… mancanza di garanzie in Italia da parte della mafia”. Ma nel merito De Gennaro non ha aggiunto altro.


Processo trattativa, De Gennaro: ''Dopo le stragi di luglio Ciampi particolarmente preoccupato''
di Lorenzo Baldo e Aaron Pettinari
“Nell’immediato l’attentato del 27 e 28 luglio fu visto come un ulteriore salto in avanti. Dava l’impressione di un attentato terroristico a Roma e Milano”. Così Gianni De Gennaro ricorda quanto accaduto nell’estate 1993 in merito agli attentati e a quel comitato di ordine e sicurezza che fu immediatamente riunito: “Ricordo una riunione nella sala degli arazzi, non ricordo se c’era anche il direttore del Dap. Ho data per scontata la presenza del direttore del Dap al Comitato nazionale ordine e sicurezza pubblica… Raggiungendo Palazzo Chigi mi fermai a uno dei due luoghi dell’attentato, fu sicuramente una riunione ricognitiva delle prime impressioni… Quegli attentati li rendevano difficilmente riconducibili tout-cour solamente a Cosa nostra e dissi che non mi sentivo proprio di esprimermi. Ciampi era seriamente preoccupato. C’era una valenza organizzativa di attentati collegabili tra loro. Ciampi era preoccupato, in particolare rispetto all’episodio del black-out telefonico. Non so le ragioni del mancato funzionamento del centralino, aveva temuto un sovvertimento notevole dell’ordine pubblico. Non so se abbia detto ‘colpo di Stato’”.
La sera del 30 luglio, poi, vi fu un nuovo Comitato con una riunione che De Gennaro ha detto di ricordare “affollatissima”. “Il contesto successivo di qualche giorno era più approfondito di quello dell’immediatezza dei fatti. C’era la percezione di una difficoltà a ricondurre all’unicità degli attentati di luglio… diventava abbastanza difficile escludere qualche altra pista… C’era chi parlava di nuove organizzazioni criminali, di organizzazioni terroristiche per modificare lo Stato… Ricordo che fu decisa la costituzione di un gruppo di lavoro per mettere assieme le esperienze per dare una risposta seppur prematura a quale potesse essere la matrice. C’era ancora viva la preoccupazione del terrorismo domestico. All’orizzonte c’era il terrorismo internazionale…”.
Rispondendo alle domande del pm Teresi l’ex capo della Polizia ha detto di ricordare le rivolte in carcere rispetto alla normativa del regime carcerario duro, il 41 bis. “Questi fermenti sul 41 bis vi furono all’interno delle carceri ma anche all’esterno - ha detto -
Ricordo che c’erano state delle rivolte in carcere da parte dei detenuti. Questo poteva determinare preoccupazioni in riferimento all’ordine pubblico. Uno dei motivi della protesta era la difficoltà con le famiglie la mia deduzione era in riferimento alla detenzione nelle isole. Non ho ricordo di episodi specifici”.


De Gennaro: “Dopo Lima e Capaci percepimmo escalation”
di Lorenzo Baldo e Aaron Pettinari
Il teste al processo trattativa: “Dopo via d’Amelio pensammo a complicità di altre componenti criminali”
“Pochi giorni dopo la strage di Capaci vi furono delle riflessioni dell’ufficio e si ripensò a omicidio Lima come ad un inizio di una strategia. Questa percezione non si ebbe con l’Addaura. Dopo Capaci la Dia, e non solo, pensò che da Lima era iniziata una sorta di escalation da parte dell’organizzazione mafiosa. All’inizio si riconduceva quell’omicidio solo in una sorta di vendetta di Cosa nostra in riferimento alla condanna definitiva del maxi processo”. Così Gianni De Gennaro sta spiegando quelle che furono le analisi degli attentati che bagnarono le strade di sangue nell’estate del 1992. L’ex capo della Dia ha ricordato che vi era un forte timore di ulteriori attentati: “In quel periodo vi era una fase pre elettorale che destò particolare attenzione nella sicurezza pubblica e quindi il ministero dell’Interno fece circolari di allerta. Ho visto che quelle circolari di allerta porta il n. di protocollo 224 e cioè polizia di prevenzione e non di quella criminale. In quei telegrammi c’erano richiami all’esigenza di tutelare persone a rischio se erano dei politici. La scorsa volta non mi ricordavo se erano anche per Mannino. In effetti in quei telegrammi che ho riletto tempo fa si faceva riferimento a  Mannino, Vizzini, al presidente del Consiglio, al capo dello Stato. Mentre prima di Capaci c’erano richiami di attenzione in riferimento alla pubblica sicurezza, rischi di disordine e tutela delle persone”.
In merito all’attentato di via d’Amelio De Gennaro ha ricordato che furono fatte valutazioni nell’immediatezza dei fatti anche se “non hanno la pretesa di una valenza”. “La strage - ha ricordato - era quasi inaspettata secondo le dinamiche di Cosa nostra perché era parso quasi un boomerang… in fondo così come è scritto in quell’ analisi, quella strage fece da accelleratore a misure repressive che vennero approvate e che invece stentavano a essere approvate. Fu sottolineata l’anomalia nella nostra analisi per un’organizzazione che mirava al massimo risultato con un minino danno. C’era una preoccupazione di una evoluzione dell’attività reattiva dell’organizzazione contro lo Stato. In riferimento a quella anomalia pensavamo ad una complicità di altre componenti criminali”.
De Gennaro ha anche ricordato che fu fatta una richiesta dell’ufficio al Procuratore nazionale antimafia di 26 misure di custodia cautelare di sospetti aderenti all’associazione mafiosa. “L’allarme - ha riferito - scaturiva dal ritrovamento di un lanciamissili e altre armi in provincia di Catania si parlava di una possibilità di un attentato ad un aereo dell’Alitalia. Quella richiesta non ebbe esito”.
L’ex capo della Polizia non ha escluso di aver avuto confronti con appartenenti del Ros e dello Sco sugli attentati anche se “non in termini di riunioni. Con Subranni qualche volta abbiamo avuto modo perché veniva a trovare Tavormina ed era logico che si parlasse di questi fatti… Ricordo che Subranni dopo la strage di Capaci era colpito dalle modalità dell’attentato. Disse: ‘ma siamo proprio sicuri che sia stata Cosa nostra?’”.
Parlando della Falange Armata De Gennaro ha ricordato “che rivendicò tutto e il contrario di tutto, non fu mai considerata una rivendicazione da attribuire ad un gruppo politico ma ad un depistaggio e disinformazione. Non mi sono occupato di questo tipo di indagini, ricordo però una nota del Cesis”.


Processo trattativa, De Gennaro: ''Quando la Dia venne istituita ricordo resistenze''
di Lorenzo Baldo e Aaron Pettinari
“La Dia doveva essere un organismo specializzato per svolgere indagini su reati collegati al crimine organizzato. Fu dall’84 che venne avvertita questa esigenza di un ufficio centrale con competenza”. La nascita della Dia, l’idea di Falcone che si era trasferito all’Ufficio affari penali al ministero. Di questo sta parlando Gianni De Gennaro rispondendo alle domande del pm Vittorio Teresi. “Non escludo che nell’idea originaria ci dovesse essere un ufficio che si dovesse occupare in via esclusiva dei reati collegati al crimine organizzato. Anche se era difficile avere un’esclusività - ha detto - Se si va a vedere nell’iter legislativo fino a quando non diventa legge c’erano stati accomodamenti. Rimanevano nella loro piena attività le strutture nazionali investigative. Questo obbligo delle forze di polizia di informare la Dia è quando la Dia fa indagine collegata”. E’ a quel punto che lo stesso Teresi legge l’articolo quattro della legge dove si fa riferimento al fatto che “tutti devono informare costantemente il personale della Dia degli elementi investigativi cui siano venuti a conoscenza”. “Dalla iniziale intenzione di costituire un organismo unico si arrivò alla sopravvivenza degli altri apparati - ha ricordato ancora l’ex capo della Polizia - Nelle attività investigative dei singoli reparti delle forze di polizia ci può essere l’esigenza di tutelare la riservatezza delle indagini in corso. Mentre in riferimento alle indagini preventive erano indagini di analisi documentale o di fatti acquisiti sulle modalità operative dell’organizzazione Criminale”. Alla domanda se vi furono resistenze del Ros, Sco e Gico perché si trovasse quel punto di equilibrio De Gennaro ha confermato di ricordare un’intervista del comandante dei Carabinieri che parlò apertamente dell’inutilità del nuovo organismo. Una maggiore adesione fu data dalla Guardia di finanza, ricordo una riunione sull’apporto che bisognava dare tra le forze di polizia. La Guardia di finanza disse che partecipava con un terzo. C’era una resistenza fisiologica. Inizialmente poi io entrai come vice capo direttore anche se non la presi con grande piacere ma obbedii. Il direttore era il generale Tavormina”.


Processo trattativa, De Gennaro: ''L’attentato all’Addaura? Falcone aveva alzato il tiro con le sue indagini''
di Lorenzo Baldo e Aaron Pettinari

“La notte stessa dell’attentato all’Addaura (giugno 1989) andai a casa di Giovanni Falcone. Andai da Falcone in veste personale, il prefetto Parisi sollecitò questa mia andata. Nel 1989 ero al Nucleo Centrale Anticrimine. Sentii il capo della Polizia quel pomeriggio. Andai a casa di Falcone all’Addaura, non c’era la Morvillo, rimasi a dormire con lui quella notte e la mattina ripartii per Roma”. E’ iniziato l’esame dell’ex capo della Dia, Gianni De Gennaro, al processo trattativa Stato-mafia, in corso all’aula bunker dell’Ucciardone di Palermo. Rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Vittorio Teresi (accompagnato in aula dai pm Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene) De Gennaro ha ricordato i contenuti del colloqui avuto con lo stesso Falcone in quella notte: “Furono conversazioni tra due persone che svolgevano stessa attività se pur con compiti diversi. Falcone era preoccupato per l’attentato e per alcune indagini che stava facendo con il magistrato svizzero (Carla Del Ponte). Se vi erano anche delle vicende su Contrada? No non ci furono considerazioni in quel contesto, di Contrada non si parlò, ma ricordo che Giovanni diceva di aver alzato il tiro delle sue indagini”. De Gennaro, oggi presidente di Finmeccanica ha anche ricordato, su sollecitazione del pm, il concetto che Falcone espresse sulle “menti raffinatissime”. “Quella frase Giovanni Falcone la disse in un’intervista successivamente - ha ricordato - Ad una specifica domanda in sede di audizione alla Commissione parlamentare antimafia su quale era il riferimento alle menti raffinatissime parlai di poteri occulti, organizzazioni segrete sul modello delle logge massoniche trapanesi, ma era per fare capire il contesto”. In merito alle polemiche ed i commenti anche istituzionali sul mancato attentato De Gennaro ha aggiunto: “Ricordo dei commenti amari di Falcone quando da qualche parte fu ipotizzata la non autenticità dell’attentato. Falcone era una persona esposta e scomoda per il suo modo di lavorare intransigente e scrupoloso e convinto dell’unicità dell’organizzazione mafiosa. Non ho memoria di qualche argomento specifico che potesse far alludere a determinate persone. Il nostro commento fu di indignazione. Dissero anche che la bomba se l’era messa lui? Si. Non ricordo chi la disse”. De Gennaro ha anche ricordato alcune polemiche in merito alle attività investigative dell’Alto Commisario della lotta alla mafia che sul piano investigativo “poteva provocare un’invasione di campo”.


Processo trattativa, De Gennaro sul banco dei testimoni
di Aaron Pettinari
L'ex Capo della Dia, oggi Presidente di Finmeccanica, sarà sentito sulla nota dell'agosto '93

Febbraio 2013. Aula bunker del carcere romano di Rebibbia. L'ex capo della Polizia, Gianni De Gennaro (foto © Imagoeconomica), viene ascoltato dall'allora gup di Palermo, Piergiorgio Morosini, in qualità di teste, all'udienza preliminare del processo sulla trattativa Stato-mafia. Oggi, a distanza di quasi tre anni, torna a salire al pretorio dello stesso processo dove è anche parte civile per la presunta calunnia subita dall'imputato Massimo Ciancimino. Nel mezzo una deposizione nel febbraio 2014 al processo Borsellino quater.
Quella odierna non può essere certo una deposizione come tante. Basta scorgere il curriculum del teste, oggi Presidente di Finmeccanica, per capire l'importanza della sua testimonianza.
Ai tempi delle stragi, nei primi anni Novanta, è stato vice direttore della Polizia, nel 1993 è divenuto poi capo della Direzione Investigativa Antimafia, nel 1994 è passato alla guida della Criminalpol mentre nel 1997 è stato nominato vice-capo vicario della Polizia per poi diventare capo dal 2000 al 2007. Negli ultimi anni capo del Dis, coordinamento dei servizi segreti, e poi nel governo Monti sottosegretario alla Presidenza del consiglio con delega ai servizi. Nel suo “curriculum” vi è anche una macchia con l'accusa nel 2001, in quanto capo della Polizia durante i fatti del G8 di Genova, di istigazione alla falsa testimonianza nell’ambito dei processi che sono seguiti all’assalto notturno alla scuola Diaz e alle violenze nella caserma di Bolzaneto, è stato assolto dalla Cassazione nel novembre del 2011.

La nota della Dia dell'agosto 1993
Tema caldo sarà sicuramente la relazione di 24 pagine della Dia, del 10 agosto 1993, dove si informava il ministero dell'Interno Nicola Mancino di come “un’eventuale revoca anche solo parziale dei decreti che dispongono l’applicazione dell’Art. 41 bis” avrebbe potuto “rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla stagione delle bombe”.
Un documento eccezionale dove per la prima volta proprio il termine “trattativa” veniva utilizzato per descrivere quello che stava accadendo nell'immediato post stragi. Erano passati pochi giorni dalle bombe di Roma e Milano, e si parlava di una strategia “Per insinuare nell’opinione pubblica il convincimento che in fondo potrebbe essere più conveniente una linea eccessivamente dura per cercare soluzioni che conducano ugualmente alla resa di Cosa Nostra a condizioni in qualche modo più accettabili per Cosa Nostra”. Inoltre gli analisti della Dia nella nota aggiungevano: “La perdurante volontà del Governo di mantenere per i boss un regime penitenziario di assoluta durezza ha concorso alla ripresa della stagione degli attentati. Da ciò è derivata per i capi l’esigenza di riaffermare il proprio ruolo e la propria capacità di direzione anche attraverso la progettazione e l’esecuzione di attentati in grado d’indurre le Istituzioni a una tacita trattativa”.
Eppure, nonostante quel nero su bianco, De Gennaro in questi anni ha sempre negato di aver mai sentito parlare di trattative. “Nessuno mi parlò mai di trattativa. Né degli approcci per un contatto con Vito Ciancimino. E poi sarei stata l'ultima persona a cui sarebbe stata fatta una tale confidenza” aveva detto al Borsellino quater. “Non so” e “non ricordo” che avevano già costellato l'esame all'udienza preliminare: “Non fui a conoscenza di rapporti tra il Ros e Vito Ciancimino nel ‘92″. “Di solito non si dava notizia di tali iniziative”. E, ancora, “non mi risulta che Martelli mi abbia parlato dei contatti del Ros con Ciancimino”.
Allo stesso modo aveva detto di non ricordare se dopo il delitto Lima e la strage di Capaci si fosse avvertito il pericolo di altri attentati a uomini politici, così come ha detto di non ricordare pericoli di attentati a Mannino dichiarando di non aver mai parlato con Mancino di attenuazione del carcere duro per i mafiosi. Eppure quella nota dell'agosto del 1993 evidenzia altre considerazioni.

“Non solo Cosa nostra dietro le stragi”
Sempre al Borsellino quater, rispondendo alle domande dei pm, in merito alla relazione della Dia ha dichiarato: “Quella relazione non rappresentava un'ipotesi investigativa ma una serie di valutazioni e sentimenti comuni che raccoglievamo tra gli addetti ai lavori. Non ricordo chi la sviluppò. Dopo Capaci rivedemmo il significato dell'omicidio Lima del marzo 1992. Prima pensavamo ad una semplice vendetta, poi lo valutammo inserendolo in un contesto di azione criminale che andava anche oltre Cosa nostra”. Ed oggi anche di questa percezione si parlerà in aula di fronte alla Corte d'assise presieduta da Alfredo Montalto.

Le funzioni della Dia e la “vicenda Arlacchi”
Altro tema importante sarà poi quello dell'applicazione effettiva della disciplina normativa consacrata nella legge istitutiva della Dia. Su questo punto De Gennaro in passato ha ricordato che “sebbene per legge la Dia dovesse essere un’unica struttura di intelligence che accorpava le altre forze, si poneva come 'altra struttura investigativa' parallela al Ros dei carabinieri, allo Sco della polizia e al Gico della guardia di finanza” nonostante ciò però le informazioni investigative non venivano condivise con la nuova struttura.
In questo contesto si inserirebbero anche le affermazioni che Pino Arlacchi, parlamentare europeo e amico personale di Falcone e Borsellino, ha attribuito allo stesso De Gennaro in merito a Contrada, Mori e ad alcuni contrasti con il Ros, durante un interrogatorio (l'11 settembre 2009) in cui rispondeva ai pm in merito ad un’intervista del giornalista de La Stampa, Francesco La Licata. “Il Colonnello Mori ed il dott. Contrada mi risulta che fossero ambedue in forte contrapposizione col dott. De Gennaro – ha dichiarato Arlacchi ai pm - Io stesso non condividevo il metodo con il quale il colonnello Mori agiva in quel periodo, contrassegnato da un ricorso a confidenti e da un'azione che definirei poco trasparente. Preciso, tuttavia, che il giudizio su Mori e sui soggetti allo stesso vicini non era così negativo come quello che si aveva su Contrada, che ritenevamo davvero pericoloso e capace anche di compiere omicidi... omissis... Dopo le stragi del 1993 si consolidò presso i vertici della D.I.A. l'idea che le stragi avevano una valenza politica precisa, e cioè erano finalizzate a costringere lo Stato a venire a patti ed instaurare una trattativa. Sul punto formulammo insieme a De Gennaro delle ipotesi, ritenendo che il gruppo andreottiano, tramite i suoi referenti di cui ho detto - e cioè il gruppo Contrada - fosse uno dei terminali della trattativa”.
Nel febbraio 2014, De Gennaro, al quarto processo sulla strage di via d'Amelio ha “depotenziato” la portata delle affermazioni disconoscendo il termine contrapposizione.

Dissociazione
Durante l'udienza del 24 settembre scorso l’ex funzionario Dia, Domenico Di Petrillo, ha ricordato che già nel 1992 all'interno della Dia si parlava già del tema della “dissociazione” per i mafiosi che in questa maniera non avrebbero dovuto rinunciare ai propri patrimoni né tentomeno denunciare i propri crimini e quelli della consorteria mafiosa. E proprio su questo punto, sempre di fronte alla corte d'Assise di Caltanissetta al processo Borsellino quater, De Gennaro ha raccontato di aver parlato per la prima volta della questione con il Vescovo di Acerra, don Riboldi che si era fatto portavoce di una richiesta che era pervenuta tramite il cappellano del carcere di Poggioreale il quale aveva raccolto la proposta di dissociazione avanzata da esponenti del clan Moccia.
L'esame dell'ex capo della Polizia verterà comunque su tutti i temi fin qui toccati in questi due anni e più di dibattimento. Questa mattina, inoltre, si concluderà anche l'esame dei periti che hanno compiuto le trascrizioni delle intercettazioni tra il capo dei capi, Totò Riina, e la dama di compagnia Alberto Lorusso, presso il carcere “Opera” di Milano. Infine, all'udienza di ieri, non si è tenuto l'esame del teste Alonzi in quanto lo stesso ha fatto pervenire una certificazione medica che ne impediva la presenza. Il teste verrà quindi escusso il prossimo 15 ottobre.