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berlusconi silvio web13Al processo trattativa i pentiti Ciaramitaro e Ferro
di Miriam Cuccu
“Le stragi del ’93 dovevano essere fatte per abolire il 41bis e cambiare la legge sui pentiti”. Più volte il pentito Giovanni Ciaramitaro aveva spiegato alcuni retroscena tra gli ambienti di Cosa nostra, al processo per le autobombe a Firenze, Roma e Milano. Oggi li ribadisce a Palermo, davanti alla Corte d’assise che da quasi due anni celebra il processo per la trattativa Stato-mafia. Una trattativa nella quale la strategia stragista sale di livello nel momento in cui si decide di colpire alcuni dei monumenti italiani, nonché vittime innocenti tra cui donne e bambini. Classe 1960, palermitano di nascita, Ciaramitaro dopo un periodo passato a compiere rapine ai tir (è a questo periodo che risale la sua conoscenza con Salvatore Giuliano) nel ’93 entra a far parte di Cosa nostra, presentato dallo stesso Giuliano come “amico nostro” al gruppo di Brancaccio: Nino Mangano, Gaspare Spatuzza, Vittorio Tutino, Agostino Trombetta ed altri. Da quel momento in poi - racconta - “fui incaricato di furti di macchina, estorsioni, bruciare negozi, rapine. Giuliano mi dava questi pizzini con annotati vari negozi. Ho partecipato pure a un omicidio: l’abbiamo legato e interrogato, mi sembra fosse accusato di essere un confidente di questura, poi strangolato e sciolto nell’acido, ma non ricordo il suo nome”.

Con Giuliano, continua il collaboratore, “avevamo un bel rapporto, mi teneva al corrente di quello che poteva succedere all’interno di Cosa nostra”. Il padre, Salvatore, “ci dava il permesso per fare rapine, perchè a Palermo senza l’autorizzazione di Cosa nostra certe cose non si possono fare. Diceva che andava da Francesco Tagliavia, all’epoca capo di via Messina Marine”.
Tornando alle stragi ’93, continua Ciaramitaro, “Giuliano mi ha detto di aver partecipato, c’erano anche Cosimo Lo Nigro, Giuseppe Barranca, Gaspare Spatuzza. Anche Pietro Romeo me lo disse”. Giuliano e Romeo, dichiara ancora, “dissero che ci stava un politico in mezzo, un politico che gli dava (a Giuliano, ndr) gli obiettivi per colpire duramente, gli indirizzi giusti. Ho già fatto altre volte il suo nome, Silvio Berlusconi. Me lo disse Giuliano. Questo politico – aggiunge – cercava una mano di Cosa nostra per prendere voti e diventare Presidente del consiglio, con la promessa che quando lo sarebbe diventato avrebbe abolito tutte queste leggi”. Poi la strategia stragista finì: “Per motivi finanziari – spiega Ciaramitaro, pur stentando nel ricordare gli eventi dell’epoca – dopo l’arresto dei Graviano nessuno finanziava più queste trasferte” nonostante Cosa nostra avesse ancora a disposizione una certa quantità di esplosivo.
Per la preparazione della strage a Firenze, invece, venne chiesta la partecipazione di Giuseppe Ferro, all’epoca capomandamento di Alcamo, oggi collaboratore di giustizia: “Mio figlio mi disse di essere stato contattato da Calabrò (Gioacchino Calabrò, boss di Castellammare del Golfo, ndr) perché voleva essere accompagnato a Firenze e sapeva che mio cognato viveva lì – spiega Ferro in un serratissimo dialetto siciliano – e serviva un appoggio per due persone. Mio cognato accettò, ma quando arrivarono li mandò via”. Successivamente, prosegue “mi incontrai con Gino Calabrò, io dissi che mio cognato era una cosa inutile, faceva un discorso al giorno e se ci fossi stato io avrei trovato loro un appoggio migliore” confermando che le circostanze descritte erano strumentali alla preparazione della strage in via dei Georgofili. A giugno, continua Ferro “andai ad una riunione a Bagheria insieme a Calabrò, c’erano anche Matteo Messina Denaro, Giuseppe Graviano e Leoluca Bagarella, lui mi disse che questi fatti erano ‘discorsi sigillati’, non se ne poteva parlare nemmeno con i più intimi”.
Dopo la bomba a Firenze, dichiara ancora il pentito, “Bagarella mi disse che c’era una possibilità a Bologna, perché sapeva che lì avevo un fratello di mio cognato. Quando mi chiese un appoggio parlai espressamente” sconsigliando la politica di colpire vittime innocenti perché “qui muoiono donne e bambini. Bagarella mi rispose ‘vogliono che facciamo scruscio’ (rumore, ndr). Non chiesi chi fosse a volerlo, per queste domande in Cosa nostra puoi morire. Poi però la cosa si arenò”. Parlando poi dei maltrattamenti dei boss detenuti al supercarcere di Pianosa, “una cosa che ci bruciava a tutti”, Ferro ricorda che in Cosa nostra “emerse la necessità di raccogliere quante più informazioni sulle guardie carcerarie per eliminarne qualcuna. Poi le cose si fermarono, i detenuti stessi mandarono a dire di non essere d’accordo”.

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