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damico-carmelo-eff-2di Lorenzo Baldo ed Aaron Pettinari - 17 aprile 2015
Il pentito parla anche di Berlusconi: “Con lui Cosa nostra ha investito un sacco di soldi”
“Tra i politici che hanno fatto accordi con Cosa nostra ci sono anche Angelino Alfano e Renato Schifani, che sono stati eletti con i voti della mafia”. Lo ha detto il pentito messinese Carmelo D'Amico deponendo al processo sulla trattativa Stato-mafia. D'Amico ha detto di avere appreso la circostanza in carcere. "Alfano - ha aggiunto - lo aveva portato la mafia, ma lui poi le ha girato le spalle, l’unica cosa buona che avevano fatto era quella di aver delegittimato i collaboratori di giustizia. Tutte queste cose me le hanno dette Nino Rotolo e Vincenzo Galatolo”. Il collaboratore di giustizia ha anche aggiunto: "Forza Italia è nata perché l'hanno voluta i Servizi segreti, Riina e Provenzano per governare l'Italia. Berlusconi era una pedina di Dell'Utri, Riina, Provenzano e dei Servizi. Ci arrivò un’ambasciata da Palermo e da Catania. In un primo momento, per quanto riguarda Berlusconi, ci dovevamo far saltare i ripetitori della tv. Poi venimmo stoppati perché avevano sistemato questa cosa dell’estorsione con Berlusconi tramite Dell’Utri. Dopo l’estorsione che non è andata più avanti, Cosa nostra ha investito un sacco di soldi con Berlusconi”. D'Amico, infine, ha rivelato che in carcere i boss votarono tutti Forza Italia. Sempre secondo il pentito la campagna di delegittimazione contro i pentiti venne fatta anche da Mannino che “aveva l’accordo con Cosa nostra. Anche altri politici hanno fatto accordi”.
In merito ai rapporti con i servizi segreti, su domanda del presidente Montalto, D’Amico ha riferito di non averne mai avuti direttamente. “Questi rapporti - ha aggiunto - li aveva Cinà, Dell’Utri e quant’altro. Anche con Galatolo ne abbiamo parlato di queste cose e lui le sapeva. Sapeva che i servizi avevano stabilito che insieme a Cosa Nostra si doveva uccidere il dottor Di Matteo”. Infine ha aggiunto: “Vorrei precisare che Rotolo se non era in carcere era il capo di Cosa Nostra, era il dopo Provenzano”. Ultimate queste dichiarazioni le difese, escluso l’avvocato di Mancino, Khrogh, hanno richiesto il rinvio del controesame. L’udienza è stata quindi rinviata al prossimo 7 maggio quando, come da programma, sarà sentito il pentito Vito Galatolo, mentre all’udienza successiva, quella del quindici, si potrebbe procedere con il controesame di D’Amico una volta che saranno completate le trascrizioni dell’udienza odierna.


Processo trattativa, D’Amico parla di Cattafi: “Era a capo di una loggia massonica e vi apparteneva anche Dell’Utri”
di Lorenzo Baldo ed Aaron Pettinari - 17 aprile 2015 - Ore 13:28
“Mi è stato detto che Rosario Pio Cattafi ed il senatore Nania erano a capo di una loggia massonica cui facevano parte uomini d’onore, politici ed avvocati. A questa apparteneva anche Dell’Utri, me lo disse Rotolo ed altri uomini d’onore”. A riferirlo in aula è il pentito Carmelo D’Amico, interrogato quest’oggi al processo trattativa Stato-mafia. Su Cattafi ha aggiunto: “Ne ho sentito parlare da tanti affiliati, era un buon amico nostro. Cattafi mi è stato presentato come uomo d’onore. Me lo disse Sem Di Salvo, il mio padrino. Quella loggia massonica operava in tutta la Sicilia e Calabria. Di questa cosa ne abbiamo parlato anche con Rotolo il quale mi disse che chi era in Cosa nostra non poteva entrare nella massoneria ma che erano state fatte eccezioni e che tanti uomini d’onore partecipavano alle logge massoniche. Questa era una loggia massonica occulta”. Rispondendo alle domande dei pm D’Amico ha anche parlato della latitanza di Nitto Santapaola: “Si nascondeva a Terme Vigliatore lo avevo saputo prima dell’omicidio Iannello, verso la metà del ’92, io avevo portato delle armi per questo omicidio. Mi chiama Sem Di Salvo e dobbiamo fare questo duplice omicidio. Abbiamo appuntamento vicino a Barcellona, mi viene consegnata una macchina della Siciliana Gas e mi vengono consegnate tre pistole. Io mi metto a bordo di questa Fiat uno bianca e andiamo a casa di Mimmo Orifici a Marchesana, io avevo un’altra pistola, entro in casa c’era Gullotti Giuseppe e due catanesi, io consegno loro le tre armi e poi mi chiedono se ne avevo un’altra, io gli do la mia. Quando ce ne siamo andati Sem Di Salvo mi ha detto che in quella casa c’era Nitto Santapaola ma lui non si era fatto vedere da me”. Secondo il pentito il luogo in cui Santapaola si nascondeva era noto anche da Cattafi: “Quando Gullotti e Di Salvo mi hanno dato l’incarico di uccidere Cattafi era perché aveva fatto arrestare Santapaola e lui sapeva del luogo dove era stato Santapaola. L’ho seguito per due giorni, ma non sono riuscito a ucciderlo, l’ho pedinato, poi arrivò l’ambaciata di revoca dell’incarico di uccidere Cattafi.
Gullotti mi disse che Cattafi non c’entrava nella cattura di Santapaola ma era colpa di Angelo Ferro. Ed io ho ucciso Ferro”.


Processo trattativa Stato-mafia, D’Amico: “Pensavano di incaricare anche me per uccidere Di Matteo”
di Lorenzo Baldo ed Aaron Pettinari - 17 aprile 2015 - Ore 12:37
“Di Matteo ne parlavano spesso e volentieri quando si parlava del processo sulla trattativa con Nino Rotolo e Vincenzo Galatolo. Io dovevo anche uscire dal carcere e si parlava di delegare me per portare avanti questa cosa di uccidere Di Matteo”. A raccontare il particolare per la prima volta è il pentito di Barcellona Pozzo di Gotto, Carmelo D’Amico rispondendo alle domande del pm Roberto Tartaglia sulle notizie ricevute in carcere sull’attentato nei confronti del pm palermitano. “Era stabilito che il dottor Di Matteo doveva morire - ha aggiunto - Rotolo mi ha raccontato che i servizi segreti volevano morto prima il dottor Ingroia, poi non ci sono riusciti. Per questa cosa avevano mandato l’ambasciata a Provenzano, ma Provenzano non voleva più le bombe, quindi Ingroia e Di Matteo dovevamo morire con un agguato e non con le bombe. Questa condanna a morte di Di Matteo la voleva sia Cosa Nostra che i Servizi perché il dottor Di Matteo stava arrivando a svelare i rapporti dei Servizi dai tempi di Falcone. Di questi fatti io ho fatto da tramite con il Vincenzo Galatolo e quando si parlava del dott. Di Matteo mi diceva che se ne doveva andare. Io dovevo uscire da lì a poco dal carcere e si parlava di delegare me per portare avanti questa cosa, andando da Sansone”. Sul motivo per cui solo oggi ha raccontato questo particolare della delega il pentito ha ribadito di aver avuto timore per la sua famiglia e per quello che i servizi possono fare”. Mentre parlavano in codice tra loro, Galatolo e Rotolo definirono Di Matteo come “un cane randagio”. “Inizialmente non l’hanno mai chiamato per nome - ha detto D’Amico - poi io chiesi a Rotolo di chi parlavano e lui mi rispose che si trattata di Di Matteo e che aspettavano da un momento all’altro di sentire la notizia che era stato ucciso”. Alla domanda su quali fossero i canali di informazione di Rotolo e Galatolo il collaboratore di giustizia ha risposto con fermezza. “Tramite gli avvocati, Rotolo era a conoscenza di tutto sull’evolversi di questo progetto”.


Processo trattativa, D’Amico: “I Servizi segreti fecero sparire dal covo di Riina un codice di comunicazione”
di Lorenzo Baldo ed Aaron Pettinari - 17 aprile 2015 - Ore 12:30

“Rotolo mi disse che i servizi avevano fatto sparire dal covo di Riina un codice di comunicazione che aveva Riina per far comunicare i suoi uomini con i politici e i servizi segreti”. A raccontarlo in aula al processo trattativa Stato-mafia è Carmelo D’Amico, pentito di Barcellona Pozzo di Gotto, a cui è dedicato quest’oggi l’udienza.
Sulla cattura del Capo dei capi il collaboratore di giustizia ha aggiunto che “Rotolo e Vincenzo Galatolo avevano perso quella grande fiducia in Provenzano per la cattura di Riina, c’erano solo dubbi. Anche per il fatto che si era fatto convincere da Salvatore Lo Piccolo di far tornare gli scappati a Palermo dall’America”. Inoltre l’ex killer barcellonese ha aggiunto anche dichiarazioni sulla latitanza di Provenzano: “Rotolo mi disse anche che Provenzano era protetto dal Ros e dai Servizi e non si è mai spostato da Palermo. Provenzano si è spostato da Palermo solo per il tumore alla prostata per andare a operarsi in Francia”. A questo punto il pm Di Matteo, ricorda che in un verbale d’interrogatorio precedente disse che “era coperto dalle istituzioni e dalle forze armate dello Stato” e che non sapeva se “era Ros, polizia o altro”. Così D’Amico ha spiegato: “Non ho detto specificatamente quel giorno perché avevo paura solo di nominare i servizi segreti. Sono personaggi molto potenti che possono arrivare dappertutto. Il Rotolo mi disse che a coprire la latitanza di Provenzano erano stati il Ros e i servizi segreti. Quelli che gestiscono la politica sono i servizi segreti. Al mio interrogatorio non ho fatto quei nomi perché avevo solo paura. Per quanto riguarda il Ros avevano avuto un ruolo nella trattativa, ma non so il ruolo, mi ha detto Rotolo… e che coprivano la latitanza di Provenzano”. Tornando a parlare della trattativa D’Amico ha specificato quello che era stato il ruolo di Cinà: “Era lui a portare l’ambasciata di Ciancimino a Riina e Provenzano  ed a sua volta la risposta di Riina e Provenzano a Ciancimino. Provenzano non si incontrava quasi con nessuno. Si incontrava con Cinà. Da quello che mi ha detto Rotolo Ciancimino jr aveva detto delle bugie sul fatto che Provenzano era andato a casa di Ciancimino. Ma non era così. I servizi Segreti hanno portato Mancino e Martelli da Ciancimino con l’aiuto dei pezzi da 90 del Ros e della Questura”. 


Processo trattativa, D’Amico: “I servizi segreti hanno portato i politici a fare questa trattativa”
di Lorenzo Baldo ed Aaron Pettinari - 17 aprile 2015 - Ore 11:43
Per la prima volta il pentito fa i nomi di Dell’Utri, Mancino, Ciancimino, Andreotti e Martelli.
“Il ministro Martelli e il ministro Mancino dovevano mettersi in contatto con Vito Ciancimino, contattare cosa Nostra. Questa è la trattativa. I servizi segreti hanno portati questi politici a fare questa trattativa e hanno indirizzato il senatore Dell’Utri che ha fatto il doppio gioco. Con altri politici si sono rivolti a Ciancimino per sistemare per non fare più queste stragi e arrivare a un compromesso”. A fare i nomi dei politici per la prima volta in aula è Carmelo D’Amico che, rispondendo alle domande del pm Antonino Di Matteo, ha aggiunto: “Rotolo mi ha parlato della strage di Capaci, anche noi abbiamo avuto un ruolo nella strage di Capaci. Rotolo mi disse che i mandanti erano Andreotti, altri politici e i servizi segreti che avevano incaricato il Riina a commettere questa strage, anche per l’omicidio di Borsellino. Perché Falcone era vicino a svelare i contatti tra Cosa Nostra, i servizi e questi politici. Questi volevano governare l’Italia”.
Questi nomi di politici non erano mai stati riferiti prima e D’Amico ha spiegato alla Corte il motivo: “Mi spaventavo per quello che stava succedendo dopo i primi giorni della mia collaborazione. I servizi segreti sono capaci di fare qualsiasi cosa. Sono responsabili delle stragi in Sicilia. Riina è stato una pedina dei servizi segreti e della politica. Riina pensava di poter governare l’Italia e invece erano i servizi. Questo mi ha raccontato Rotolo. Siamo tutti in pericolo, lei (riferendosi a Di Matteo), io e tutti i presenti. Io non ho intenzione di suicidarmi se mi succede qualcosa qui in carcere. Se viene qualcuno che vuole parlare con me senza autorizzazione dei magistrati io non voglio parlare con nessuno. Brusca, Giuffrè e tutti i più grandi collaboratori di giustizia sanno che i mandanti sono i servizi segreti e la politica, ma hanno paura. I servizi faranno di tutti per distruggermi perché sto dicendo la verità su quello che hanno fatto in Italia”.
“Mi ero riservato di fare i nomi perché ci dovevo riflettere - ha aggiunto - sono spaventato per quello che può succedermi, i Servizi e la politica hanno fatto una campagna di delegittimazione nei confronti dei pentiti. Centottanta giorni per dire tutto quello che si sa sono pochi, non si possono ricordare 25 anni di malaffare in quel tempo. Io ancora continuo a ricordarmi di nomi, non ho ancora chiuso il verbale illustrativo, io avevo bisogno di altri 180 giorni e questi politici ci sono riusciti a fare questa campagna di delegittimazione insieme a Cosa Nostra, insieme a tanti altri ministri di cui non voglio parlare perché se no mi rovinano”. D’Amico ha quindi spiegato di aver inviato la richiesta di essere sentito con urgenza il 4 aprile scorso per “integrare il verbale con queste dichiarazioni. Ma la mia famiglia è ancora a Barcellona”.
A questo punto è intervenuto anche il presidente della Corte, Alfredo Montalto, che ha invitato il teste a non mantenere altre riserve, ma di dire tutto quello che sa. “Io dirò tutto quello che so, ma chiedo per la mia famiglia - ha risposto D’Amico - Se mi succede qualcosa a me io sono io, ma la mia famiglia no, deve essere super protetta”.
E successivamente ha aggiunto: “Per la trattativa hanno preso parte anche pezzi da novanta del Ros e pezzi da novanta della Polizia. Per la trattativa Ciancimino si è rivolto al dottor Cinà che era l’ambasciatore di Riina e Provenzano. Riina non voleva Ciancimino perché diceva che era sbirro ma Provenzano lo ha convinto a fare questa trattativa. Temi delle richieste erano il 41 bis, la legge sul sequestro dei beni e altro. Abbiamo affrontato questo discorso dalle celle”.


Processo trattativa, D’Amico: “Con Rotolo parlavamo a gesti e sussurandoci all’orecchio, temevamo di essere intercettati”
di Lorenzo Baldo ed Aaron Pettinari - 17 aprile 2015 - Ore 11:28

Un dito verso il basso per parlare di Riina, uno verso l’alto per parlare di Provenzano, pronunciare una parola, ‘u dottore’, per parlare di Cinà. Erano questi alcuni dei mezzi utilizzati da D’Amico e Rotolo in carcere per comunicare. “I momenti erano quello della socialità oppure da cella a cella, parlando dalle finestre. Mi raccontò dei suoi omicidi, come quello di Stefano Bontade, ma Rotolo era uno informatissimo anche di oggi e sapeva tutto quello che succedeva all’esterno. Mi disse che Messina Denaro non è assolutamente il capo di Cosa nostra, non può essere un trapanese, deve essere un palermitano. Rotolo poteva leggere i giornali di Sicilia, La Sicilia, di Palermo”.


Processo trattativa, pentito D'Amico: "In carcere la pace tra Lo Piccolo e Rotolo"
di Lorenzo Baldo ed Aaron Pettinari - 17 aprile 2015 - Ore 11:21

E’ all’interno del carcere Opera di Milano, nonostante le restrizioni del carcere duro 41 bis, che si è consumata la pace tra la i Lo Piccolo ed il boss di Pagliarelli, Nino Rotolo. A raccontarlo è il collaboratore di giustizia Carmelo D’Amico che fino al maggio 2014 svolgeva la socialità con lo stesso Rotolo, con il calabrese Giovanni Strangio e con il campano Vincenzo Aprea. “Io ero detenuto alla cella numero tre e a tre metri di fronte a me c’era la cella di Rotolo, poi in altre due celle c’erano Giovanni Letizia e Vincenzo Galatolo. Io colloquiavo con tutti loro”. In merito al suo rapporto con Rotolo l’ex killer barcellonese ha aggiunto: “Lui sapeva dei contatti che avevo con i Lo Piccolo. Dopo sette mesi siamo entrati in confidenza e abbiamo cominciato a dialogare senza avere problemi. Al secondo piano sopra di me c’era Sandro Lo Piccolo con cui io colloquiavo dalla finestra, mi hanno fatto un rapporto disciplinare per questo. Praticamente Rotolo mi raccontò che i carabinieri hanno fatto un’intercettazione dove Rotolo diceva di voler eliminare Salvatore Lo Piccolo e Lo Piccolo sapendo di questa intercettazione era passato al contrattacco, uccidendo una persona anziana a cui Rotolo teneva tantissimo. Rotolo aveva paura che i Lo Piccolo potessero eliminare altri esponenti della sua famiglia, aveva paura che gli uccidessero i figli”. “Successivamente - ha aggiunto - gli ho raccontato che noi eravamo stati a disposizione con i Lo Piccolo per questa guerra con Rotolo. Poi dalla finestra ho detto a Sandro Lo Piccolo che quell’intercettazione dei carabinieri era falsa e che non era vero che aveva detto quelle parole, che era stata manipolata e che non aveva niente contro di loro e che bisognava sistemare la cosa. Sandro Lo Piccolo mi disse che andava bene e di vedere questa cosa”.


Trattativa Stato-mafia, D’Amico: “Per i nomi che farò oggi cercheranno di togliermi di mezzo. Come volevano fare con Di Matteo e Ingroia”
di Lorenzo Baldo ed Aaron Pettinari - 17 aprile 2015 - Ore 10:48
“I nomi che farò oggi sono capaci di arrivare dappertutto, nelle carceri, ad uccidere le persone senza che nessuno ne sappia niente, simulando suicidi, sia in carcere, sia  fuori. Questi soggetti sono molto potenti, sono loro che dirigono la politica in Italia, cercheranno di togliermi di mezzo, come volevano fare con lei (riferito a Di Matteo) e con il dottor Ingroia”. A dirlo è l’ex killer barcellonese Carmelo D’Amico, teste quest’oggi al processo trattativa Stato-mafia. D’Amico, rispondendo alle domande del pm, ha spiegato il motivo per cui ha iniziato la propria collaborazione nel luglio 2014. “Ero al carcere di Opera. Le motivazioni sono state perché volevo cambiare vita sia per me che per la mia famiglia. Poi c’è stato il Papa che ha scomunicato tutti i mafiosi e questo fatto mi ha colpito tantissimo. Ho avuto un po’ paura mi sono riservato su alcune cose, perché dopo 4 giorni che ho iniziato a collaborare uscivano articoli sui giornali e la mia famiglia era ancora a Barcellona. Ero a Catania nel carcere Bicocca dove avevano indagato gli ispettori e tante guardie colluse con la mafia, erano successe cose stranissime, mi dicevano che ero in pericolo di vita”. Quindi ha anche spiegato il motivo per cui ha chiesto istanza per incontrare nuovamente Di Matteo lo scorso 4 aprile: “Mio figlio e la mia convivente sono ancora a Barcellona e se non ho riferito tutto è per questo motivo. E se è ho fatto istanza di incontrarla era per poter parlare”.
In merito ai rapporti con i palermitani D’Amico ha spiegato di aver avuto contatti con Domenico Virga, nipote di Peppino Farinella. Poi con i gruppi catanesi con Santo La Causa. Poi con Sebastiani e Rampulla della zona di Mistretta. Quindi ha aggiunto: “Quando c’era Gullotti aveva rapporti con tutti: con Santapaola, Giuffrè, Farinella e tanti altri del palermitano. Nel 2007 invece divenni insieme a Giovanni Rao responsabile delle famiglie di Messina, entra in contatto con i Lo Piccolo, loro organizzavano diversi incontri e lei mandava un suo delegato. Noi ci siamo messi a disposizione di Salvatore Lo Piccolo in merito alla guerra che stava facendo a Nino Rotolo. Eravamo pronti ad andare a Palermo a commettere omicidi per conto di Lo Piccolo”.


Processo Trattativa: “D’Amico aveva chiesto di essere sentito lo scorso 4 aprile”
di Lorenzo Baldo ed Aaron Pettinari - 17 aprile 2015 - Ore 10:35
In apertura di dibattimento il pm Antonino Di Matteo (presente assieme a Roberto Tartaglia) ha riferito di aver ricevuto un’istanza, chiedendone l’acquisizione alla Corte, da parte del collaboratore di giustizia barcellonese, Carmelo D’Amico. “Chiedeva di concedere un colloqui visivo con urgenza per motivi giudiziari - ha detto Di Matteo - Non abbiamo ritenuto di andare a interrogare il D’Amico visto che era previsto il suo esame. Ci sembra giusto comunque informare le parti di questa richiesta pervenuta. Non sappiamo di cosa volesse riferire se si tratta di particolari inerenti questo dibattimento od altro”. Una volta acquisito il documento è iniziato l’esame del pentito, che ha avviato la sua collaborazione nel luglio 2014. “Dall’1989 facevo parte del gruppo di Giuseppe Gullotti - ha detto - ho compiuto diversi omicidi per suo conto ma anche per Santapaola ed altri. Nel 1996 divenni ambasciatore di Cosa nostra per parlare con i catanesi ed i palermitani. Nel 2007 invece è Salvatore Lo Piccolo a farmi responsabile di Cosa nostra nel messinese. Spesso chiedeva di incontrarmi ma io non ci sono mai andato perché sapevo che l’avrebbero arrestato. In quel periodo era anche previsto un suo arrivo a Barcellona Pozzo di Gotto per gestire la sua latitanza. Poi l’hanno preso e non se ne è fatto nulla”.


Trattativa Stato-mafia: depone il pentito D'Amico
di Lorenzo Baldo ed Aaron Pettinari - 17 aprile 2015
Riprende questa stamattina il processo sulla trattativa Stato-mafia con la deposizione di Carmelo D’Amico, ex killer della mafia di Barcellona Pozzo di Gotto (Me), divenuto collaboratore di giustizia lo scorso luglio. Ai pm di Messina, Vito Di Giorgio e Angelo Cavallo, D’Amico aveva raccontato che nell'aprile dello scorso anno alcuni boss siciliani rinchiusi nel carcere milanese di Opera si aspettavano "da un momento all'altro" la notizia di un attentato nei confronti del pm Nino Di Matteo. "Me lo disse il capomafia Nino Rotolo (ex capomandamento di Pagliarelli, ndr) - aveva detto ai pm -. Era con lui che facevo socialità". Non solo. D'Amico aveva anche aggiunto un altro particolare: "Avevo sentito Rotolo che parlava di qualcosa di grave con Vincenzo Galatolo (ex boss dell’Acquasanta, ndr) facevano riferimento a una persona che citavano con un nomignolo. Un giorno gli chiesi di saperne di più. E mi disse che Di Matteo doveva morire a tutti i costi".

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