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uomo-in-giallodi Lorenzo Baldo e Miriam Cuccu - 19 febbraio 2015
Il teste protetto dai servizi dai tempi del sequestro Moro
Più che di un’udienza si è trattato di un “giallo” in diretta, oggi al processo trattativa Stato-mafia. Neanche il tempo di chiamare le parti e il pm Vittorio Teresi prende la parola: “Presidente, dobbiamo fare una richiesta di estensione del capitolato di prova” annuncia, alludendo al contenuto di una relazione di servizio, trasmessa dal centro operativo Dia di Firenze, dal contenuto definito “curioso” dal procuratore aggiunto di Palermo.

“Ho parlato con Palermo, il processo non si farà”
Ieri la Dia fiorentina fa pervenire una nota con la quale trasmette una mail del monsignor Fabio Fabbri, teste previsto per l’udienza di oggi, nella quale il sacerdote sosteneva di non poter comparire in udienza per impegni pastorali e anche perché su quei temi era già stato sentito in Commissione antimafia e in un altro processo. “Questa giustificazione è stata ritenuta insufficiente – dichiara Teresi – e quindi ieri abbiamo fatto recapitare a Fabbri un provvedimento, tramite la Dia di Firenze, insistendo perché oggi comparisse. Oggi la Dia di Firenze ci rappresenta con un fax che il monsignor Fabbri aveva rilasciato alcune dichiarazioni trascritte in una relazione di servizio”. “Il religioso, reperito nella sua abitazione a Siena – legge il pm dalla relazione – spiegava che la prima citazione, quella notificata l’11 febbraio (per comparire all’udienza odierna, ndr) era stata da lui inviata a un suo conoscente dei servizi di sicurezza attualmente in servizio a Napoli con cui si conosceva da molti anni. Tale persona lo aveva poi richiamato per riferirgli che aveva parlato con Palermo e che il processo non si sarebbe più fatto l’indomani”. Informazione, questa, diametralmente opposta rispetto a quanto indicato dai pm di Palermo. Il monsignore “riferiva ancora che questa persona dei servizi doveva procurargli stamane la mail dove mandare i documenti a Palermo, in quanto egli disponeva solo di quella del centro operativo di Firenze, ragion per cui lo avrebbe richiamato a breve”. Le comunicazioni, tra il religioso e il misterioso agente, si susseguono: “Tale persona quindi lo richiamava e in quel contesto gli comunicava di lasciare stare in quanto il processo non si faceva, e che avrebbe provveduto tale persona a tutto”. Il rapporto con questo soggetto sembra essere del tutto particolare: “Il religioso diceva – prosegue la relazione – che egli era stato sempre protetto da questa persona sin dai tempi di Moro e che i servizi lo avevano messo sotto osservazione sin dall’epoca, ragion per cui nacque questa conoscenza”.
Le dichiarazioni contenute nella relazione aprono ad uno scenario completamente nuovo: qual è l’identità dell’agente che seguiva Fabbri dai tempi del sequestro Moro? Come poteva essere a conoscenza di tali indicazioni (poi rivelatesi errate)? Di quale canale d’informazione godeva alla Procura di Palermo? E perché nello stesso giorno, come raccontato dal pm Di Matteo, presso la segreteria del suo ufficio perviene lo stenografico della deposizione di Fabbri in Commissione antimafia, non da Siena bensì da un esercizio commerciale romano, senza che alcun mittente fosse indicato?

“A volte gli uomini di Chiesa non pagano…”
Monsignor Fabbri, che alla fine al processo ci è dovuto venire, comincia a dare la sua versione dei fatti. Gli impegni ritenuti insufficienti dalla Corte? “Sa, ieri era il primo giorno di Quaresima… avevo la relazione della mia audizione alla Commissione antimafia e pensavo che fosse sufficiente”. Tanto che il monsignore si fa lo scrupolo se sia davvero necessario scomodare una intera Corte, con tanto di pm e avvocati, per essere esaminato su un capitolato di prova già affrontato in un altro processo (quello a carico di Mori e Obinu). Perciò si rivolge al misterioso agente, che Fabbri conosce come “Gino” (nome di copertura): “Mi ha detto di fare una memoria e mandarla a Palermo, al dottor Di Matteo. Io ho detto che non era possibile e mi sono ricordato della mia fabbri-fabio-2audizione alla Camera”. Ma il file del resoconto dell’audizione, sfortunatamente, non si apre per email, per cui “mi disse di mandarlo ad un suo amico, un attendente di Roma”. Poi il religioso si contraddice, escludendo che l’amico dei servizi abbia una fonte alla Procura di Palermo: “Forse io ho equivocato, credo che si fosse informato a Palermo. – ribadisce – Io gli chiedevo consigli su certe situazioni”. Alla fine, Gino dà il suo verdetto: al processo trattativa “è meglio che tu ci vada – racconta il teste di essersi sentito dire – e io ho ritenuto fosse il caso di andare, seppur con grande sacrificio”.
Chi è questo consigliere tanto ben informato? “L’ho conosciuto dopo il caso Moro” racconta Fabbri, quando i servizi “venivano a pedinarmi perché ero l’ombra di monsignor Curioni – ispettore generale dei cappellani delle carceri, nonchè “eminenza grigia” in contatto con ambienti criminali – tant’è che tempo dopo mi disse ‘guarda che dietro di te c’ero pure io’. Non so a cosa appartenga esattamente, mi dicono che ci sono servizi e servizi…”. Perché mai, però, i servizi si interesserebbero ad ostacolare la testimonianza di un dibattimento in corso? Cosa si temeva che dicesse monsignor Fabbri, che insieme a Cesare Curioni determinò la nomina di Adalberto Capriotti a direttore del Dap per scacciare Nicolò Amato dopo quasi 11 anni, considerato dall’ex presidente Scalfaro una “primadonna”? Edoardo Fazzioli, ex vicedirettore del Dap (prima di essere “deposto” insieme ad Amato) ha raccontato ai pm del pool trattativa del ruolo di monsignor Fabbri in questa vicenda: “Mi disse che andarono dal Presidente della Repubblica per sollecitare qualche soluzione perché con Amato le cose non potevano più andare avanti in quel modo. Mi disse che non era una questione amministrativa ma personale di Amato”. “Assolutamente no, mi meraviglio e lo escludo” si difende in aula Fabbri. I conti, però, non tornano. E questa serie di “mosse” fatte sottobanco (lo scambio di telefonate e mail a ridosso dell’udienza) sembrano essere l’ennesimo “colpetto” ad un processo già contestatissimo e immerso in un clima di alta tensione. Certo è che, a cavallo delle stragi del ’93 che determinarono lo “scacco” di Cosa nostra per ammorbidire la linea carceraria e revocare i 41bis ai mafiosi detenuti, Fabbri e Curioni erano tra i primi ad essere contrari al pugno di ferro usato dallo Stato. E il ministro Conso era d’accordo. Così, quando centinaia di 41 bis vennero infine revocati, ricorda il monsignore, “Ci fu un sospiro di sollievo. Era ciò che volevamo raggiungere”. Qualcuno si piegò al ricatto, e la trattativa andò a buon fine.
“La Chiesa è fatta di uomini e a volte questi uomini non pagano…”, ha dichiarato a un certo punto mons. Fabbri rispondendo ad una domanda del pm Francesco Del Bene. Chissà se con questa sua osservazione intendeva riferirsi anche a se stesso e a mons. Curioni.

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