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mori-mario-divisa-2di Giorgio Bongiovanni e Lorenzo Baldo - 7 marzo 2014
Inoltrata in Cassazione l’istanza di rimessione del prefetto Mori per far spostare il processo
Basiti. E’ così che si resta di fronte alla istanza di rimessione inviata alla Cassazione dall’ex generale dei carabinieri Mario Mori. La richiesta – totalmente esplicita – è quella di spostare ad altra sede il processo sulla trattativa Stato-mafia che vede alla sbarra lo stesso ex comandante del Ros, alcuni suoi colleghi dell’Arma, ex ministri, ex esponenti politici, collaboratori di giustizia e boss mafiosi di prima grandezza. La strategia della difesa è alquanto sibillina: strumentalizzare a proprio uso e consumo il reale clima di tensione che ruota attorno al processo e al pm Nino Di Matteo. L’obiettivo è altrettanto subdolo, e del tutto evidente: far sospendere il processo e soprattutto far spostare il dibattimento, facendolo così ripartire da zero.

Ecco allora che uno dopo l’altro vengono elencati articoli di giornali, servizi televisivi, interviste, verbali di riunioni istituzionali, trascrizioni di incontri pubblici ecc. nel tentativo di dimostrare la veridicità dei “rischi per l’incolumità pubblica” legati alla condanna a morte di Totò Riina nei confronti del pm Di Matteo (e di conseguenza i relativi rischi per il processo in sé). “Ogni udienza – si legge nell’istanza – vede, in media, la partecipazione di circa un centinaio di persone che, in considerazione di tali minacce sono esposte al grave rischio di attentati e di azioni violente. In considerazione di ciò - ed a esclusiva tutela dell’ordine e dell’incolumità e sicurezza pubblica - potrebbe essere opportuno disporre la sospensione del processo in attesa della decisione di codesta Ecc.ma Corte Suprema”. In una escalation di strumentalizzazioni l’istanza di Mori focalizza i vari “condizionamenti” al processo che si sarebbero succeduti in questi mesi. A finire sotto la lente d’ingrandimento dei legali dell’ex ufficiale del Ros c’è anche l’intervento del procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, alla manifestazione organizzata dal Fatto Quotidiano in sostegno del pool di Palermo, avvenuta lo scorso 12 gennaio. In quella occasione Scarpinato aveva parlato del “fuori scena” che preoccupava Riina e cioè di quel “gioco grande” di cui la mafia aveva sempre fatto parte. Per i legali di Mori le parole di Scarpinato “suonano come un tentativo, proveniente ab externo, di legittimare l’inchiesta e di condizionare il processo” in quanto la sua valutazione “non può non influire sullo stesso perché indebita” visto che proviene “da chi non è parte processuale”. Anche l’ultimo giudice di uno sperduto ufficio giudiziario capirebbe la vacuità (e la gravità) di simili affermazioni. Che invece proseguono attraverso quella che viene definita “la migliore conferma” alle precedenti asserzioni: un articolo di stampa di Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera. “Le minacce di Riina, sostiene più di un Pm, sono state utilizzate anche mediaticamente per rilegittimare un processo che era stato incrinato dall’assoluzione del generale Mori per la presunta mancata cattura di Provenzano nel 1995”. Nel riportare fedelmente il virgolettato del pezzo pubblicato lo scorso 18 gennaio, gli avvocati di Mori sottolineano che “il giornalista ha citato espressamente fonti provenienti dalla Procura della Repubblica, e quindi, autorevoli, secondo le quali ‘le minacce…sono state utilizzate…per rilegittimare un processo…’”. Tutto questo per dimostrare che “il clima, a Palermo, non è sereno ma condizionato”, in quanto “il giornalista del Corriere della Sera non ha utilizzato la particella verbale al ‘condizionale’ ma ha scritto ‘sono state utilizzate’, quindi ha dato per certo e per avvenuto (o comunque tentato) quanto sopra”. Roba da psicanalisi. Il documento prosegue con diversi copia-e-incolla di trascrizioni di interviste del pm Nino Di Matteo. In una di queste (rilasciata al Tg3 lo scorso 23 gennaio, a margine di una udienza del processo sulla trattativa) lo stesso magistrato aveva risposto alla domanda del cronista in merito alla correlazione della condanna a morte di Riina e lo svolgimento del processo sulla trattativa. Di Matteo aveva ribadito l’escalation delle minacce che riguardavano lui, i suoi colleghi Vittorio Teresi, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene, evidenziando che le intercettazioni di Riina rappresentavano solamente “la punta dell’iceberg”. Il giornalista del Tg3 aveva quindi concluso il servizio ricordando che lo stesso Di Matteo aveva poco prima annunciato in aula il deposito di un’altra intercettazione tra Totò Riina e il boss pugliese Alberto Lorusso il cui contenuto, a detta del cronista, sarebbe stato “estremamente delicato” in quanto “Riina parlerebbe di Provenzano e del suo ruolo”. Per i legali dell’ex direttore del Sisde “non si può negare che oggettivamente ciò costituisce un ulteriore condizionamento dei giudici (togati e popolari) i quali, come ogni cittadino italiano, leggono i giornali, ascoltano i telegiornali e consapevolmente o anche inconsciamente (ma obbligatoriamente) mettono in relazione l’annunciato deposito di quella intercettazione ed il suo contenuto ‘estremamente delicato’”. Nel documento gli avvocati di Mori insistono nell’affermare che il riferimento al “ruolo di Provenzano” a tutti gli effetti “aumenta ed aggrava il condizionamento” in quanto, secondo l’impianto accusatorio, il generale Mori ed altri soggetti avrebbero “siglato un accordo” proprio con Bernardo Provenzano “su mandato di altri e con l’ausilio di altri soggetti ancora per ottenere la cessazione della strategia stragista”. Nell’incartamento viene inoltre rimarcato che questo “ulteriore condizionamento” è tale “proprio in virtù del fatto che si aggiunge ad una situazione ambientale non serena”; le stesse parole di Nino Di Matteo, secondo i legali, certificherebbero quindi “un attuale, immanente, concreto ed inevitabile pericolo per l’ordine pubblico”. Per la difesa di Mori, insomma, siamo di fronte ad “un clima ambientale mefitico” e quindi “per nulla consono alla celebrazione del presente processo”. Un delirio. In un frenetico susseguirsi di virgolettati di dichiarazioni del pm Di Matteo (così come del procuratore di Palermo, Francesco Messineo, del senatore Giuseppe Lumia, di Salvatore Borsellino ecc.) si arriva persino a strumentalizzare le recenti manifestazioni antimafia a sostegno del pool di Palermo, così da avallare la tesi difensiva, per poi completare l’opera con il colpo finale. “La prognosi sul fatto che il pericolo verrebbe meno spostando il processo – si legge nel documento – va fatta indubbiamente ex ante, ma solo ex post si potrà avere la relativa certezza”. In parole povere: solo dopo aver spostato in un’altra sede il processo si potrà sapere se, così facendo, sono venuti meno i rischi per l’incolumità pubblica e per quella di Nino Di Matteo. Nel frattempo, però, il processo deve ripartire da zero. Dal canto loro i legali di Mori ci tengono a specificare che  gli  “ordini di morte” rivolti ai magistrati che si occupano del processo sulla trattativa “sono già usciti dal carcere ed hanno raggiunto i possibili destinatari di tali messaggi stragisti”; a fronte di ciò la rimessione “costituisce l’unico sicuro mezzo per eliminare il pericolo in atto e salvaguardare sia l’incolumità dei P.M. sia quella pubblica”. Il culmine di questa strumentalizzazione si materializza quindi con una plateale esternazione di preoccupazione finalizzata a “salvaguardare” l’incolumità del pm e quella pubblica. Ma davvero i legali di Mori credono di poter travisare fino a questo punto la realtà dei fatti? Al di là delle recenti condanne a morte di Riina la salvaguardia di Nino Di Matteo continua ad essere messa a repentaglio anche da una sistematica campagna mediatica (arricchita dalle ingerenze di alte personalità istituzionali, esponenti politici, magistrati, storici, sociologi, giuristi e intellettuali vari), iniziata alcuni anni fa, che indubbiamente si è basata anche sugli atteggiamenti processuali della difesa di Mori &c.. Siamo di fronte ad un collegio difensivo che non si era mai preoccupato dei rischi che il magistrato stava correndo, né tantomeno di quelli che correva il processo o la collettività. Come si spiega allora questa improvvisa “apprensione”? Anche gli osservatori più ingenui capirebbero che dietro questa strumentalizzazione si nasconde il bieco obiettivo di azzerare anni di indagini, stoppando un dibattimento in corso. Ma se il processo dovesse ricominciare a Caltanissetta, o a Bolzano, davvero verrebbero a cadere i rischi per i relativi pm, per la Corte e per la cosiddetta “incolumità pubblica”? Seguendo il buon senso e la logica la risposta è: no. Ma in questa istanza di rimessione non c’è né l’uno, né l’altra. Come è noto Cosa Nostra non dimentica. Né tanto meno i protagonisti del “gioco grande” che, se ritengono pericoloso un processo (e se ritengono che possa essere utile destabilizzare l’ordine pubblico), hanno tutti i mezzi per fermarlo: dalla delegittimazione di coloro che l’hanno istruito, fino all’eliminazione fisica degli stessi. E’ evidente che bloccare un procedimento così delicato come quello che si sta celebrando davanti alla Corte di Assise di Palermo rientra negli interessi di tutti coloro che non vogliono che la verità sul biennio stragista ‘92/’93 venga alla luce. Che poi tutto questo venga mascherato con una “preoccupazione” di facciata è del tutto squallido e rispecchia il decadimento morale e culturale di questo Paese. O forse si dovrebbe parlare di complicità? La scelta di strumentalizzare la reale preoccupazione della parte sana di questo Paese nei confronti dei rischi che corre il pm Di Matteo (e conseguentemente il processo sulla Trattativa) rientra in una strategia già utilizzata in passato: eliminare il nemico con le sue stesse armi. Non sarà certo lo spostamento di questo processo a costituire “l’unico sicuro mezzo per eliminare il pericolo in atto e salvaguardare sia l’incolumità dei P.M. sia quella pubblica”. Tutt’altro: se così avvenisse Di Matteo e i suoi colleghi sarebbero ulteriormente sovraesposti e maggiormente vulnerabili. Per eliminare questo pericolo basterebbero le seguenti “utopie”: un presidente della Repubblica che fosse un vero garante della Costituzione, intenzionato a sconfiggere la mafia e animato dalla ricerca della verità sulle stragi in Italia; un’intera classe politica associata a questa ricerca; una magistratura compatta nel sostenere i propri colleghi impegnati su questo fronte; un’avvocatura leale; un effettivo funzionamento del 41-bis; così come un sistema mediatico incorruttibile. Fantapolitica. Nel frattempo la Cassazione è chiamata a esaminare la richiesta dei legali di Mori. La speranza è che ci sia un giudice, a Roma, che rispedisca al mittente quella che a tutti gli effetti è un’aberrazione del diritto. L’auspicio – di tutta la parte sana di questo Paese – è che ci sia un giudice capace di cogliere l’importanza storica di questo processo, un giudice che sappia riconoscere la strisciante ambiguità di questa istanza di rimessione. Che sia soprattutto capace di proteggere l’incolumità di Nino Di Matteo applicando unicamente la legge. Che non è quella di distruggere con una firma un’inchiesta che mira a fare luce sul ricatto politico-mafioso che da decenni attanaglia la nostra democrazia. Quello stesso giudice, a Roma, dovrà tenere conto della richiesta di giustizia e verità di tutti i familiari di vittime di mafia che si unisce a quella della società civile. Una pretesa di verità che non ammetterebbe, sulla pelle di uomini giusti, questo “gioco sporco”. Che è esattamente quello che sta facendo lo stesso Mori, fedele servitore (nonché ex comandante) di quei Servizi Segreti che da sempre si sono resi strumenti del potere. Pur trattandosi di una richiesta “legittima”, la sua istanza di remissione (unita a quella degli altri due imputati, ex ufficiali del Ros, Giuseppe De Donno ed Antonio Subranni) rappresenta di fatto il tentativo di condizionare i supremi giudici attraverso menzogne e mistificazioni. Un gioco “sordido” che la Corte di Cassazione dovrà immediatamente annullare. Prima che scateni inevitabili conseguenze.

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