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giano-bifrontedi Lorenzo Baldo - 29 maggio 2014 - Audio
La deposizione dell’ex ministro dell'Interno riaccende i riflettori sul “tentativo di destabilizzazione delle istituzioni” 

Palermo. E’ l’immagine di uno Stato-mafia quella che si materializza nelle dichiarazioni dell’ex ministro dell’Interno Vincenzo Scotti. All’udienza odierna del processo sulla trattativa l’ex esponente democristiano ricostruisce il contesto politico-istituzionale prima e dopo la strage di Capaci, fino a quella che a tutti gli effetti è la sua destituzione dall’incarico di ministro avvenuta il 28 giugno ‘92. Lo stesso Scotti lo ha già raccontato più volte nelle aule giudiziarie: le ultime sue audizioni risalgono, una, al 2012 durante il processo Mori, e l’altra appena quattro mesi fa, al Borsellino quater.

L’allarme inascoltato
Uno stralcio dell’audizione di Vincenzo Scotti del 20 marzo del ’92 alla Commissione Affari Costituzionali e Interni della Camera dei Deputati, viene citato in aula dal pm Nino Di Matteo. E’ un vero e proprio allarme che non viene – volutamente – ascoltato dai vertici istituzionali. Che si assumono così la responsabilità delle successive stragi del ’92 e del ’93. “Nascondere ai cittadini che siamo di fronte a un tentativo di destabilizzazione delle istituzioni da parte della criminalità organizzata – diceva Scotti prima delle bombe di Capaci, Via D’Amelio e del Continente – è un errore gravissimo. Io ritengo che ai cittadini vada detta la verità e non edulcorata. Io me ne assumo tutta la responsabilità. Se qualcuno ritiene che questo non sia vero sono pronto alle dimissioni, ma per questa ragione, ma non cedo il passo su questo terreno, ho detto che l’allarme sociale è altissimo e la gente deve sapere queste cose. Siamo un Paese di misteri e io non intendo gestire il ministero degli Interni con una condizione di silenzio o di misteri e senza mettere su carta le cose che si fanno”. C’è anche un altro grido dell’ex ministro dell’Interno, riportato dal giornalista Giuseppe D’Avanzo (scomparso prematuramente nel 2011) pubblicato sul quotidiano la Repubblica il 21 giugno 1992, che viene ribadito durante l’udienza. “Sono convinto, e lo vado ripetendo da mesi, che il calvario non è finito – dichiarava Scotti a D’Avanzo –, che la mafia colpirà ancora e colpirà ancora più in alto, tanto più in alto quanto più efficace diventerà l' azione dello Stato. Non tutti vogliono capirlo. C’è chi fa orecchie da mercante, chi ha la tentazione di sottovalutare il mio allarme, chi colpevolmente sussurra che la mia apprensione è soltanto allarmismo che nasconde voglia di potere. Bene, a questi signori ho già detto che io non andrò più a Palermo a raccogliere insulti e monetine per loro e al loro posto. Nessuno può pensare, dinnanzi alla guerra che bisogna scatenare contro la mafia, di lavarsi pilatescamente le mani. Sia ben chiaro, soltanto con un esecutivo forte, legittimato nel tempo e nei consensi, può proseguire il lavoro già iniziato da me e da Martelli. E’ una politica che va confermata e una legittimazione di quella politica passa attraverso la riconferma di entrambi”. Ma quella riconferma non ci sarà: agli Interni, al posto di Scotti, si insedierà Nicola Mancino, mentre alla Giustizia, al posto di Martelli, verrà scelto Giovanni Conso. Due figure indubbiamente nevralgiche nel crocevia di uno Stato che tratta con Cosa Nostra. Mancino e Conso sono “colpevoli di una grave e consapevole reticenza”: Mancino è imputato per falsa testimonianza, mentre Conso, l’ex Direttore del Dap Adalberto Capriotti e l’on. Giuseppe Gargani sono indagati per false dichiarazioni al pm (per loro la legge prevede che l'inchiesta, in questo caso, sia bloccata fino alla definizione in primo grado del processo principale, quello sulla trattativa).

Il 41 bis come merce di scambio
Al di là degli imputati ufficiali di questo processo ci sono anche altri personaggi, nell'ambito della trattativa, che “contribuirono al deprecabile cedimento sul tema del 41 bis”: l'allora Capo della Polizia Vincenzo Parisi e il vice direttore del Dap Francesco Di Maggio, che hanno agito entrambi in stretta collaborazione con l'ex Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro (tutti e tre deceduti). Ma ai morti non si può più chiedere nulla e quindi non resta che appellarsi alla memoria di chi è stato protagonista dell’epopea della nascita del 41 bis. Senza alcun tentennamento Vincenzo Scotti ricostruisce le tappe della conversione in legge di quel famoso decreto - di fatto osteggiato trasversalmente a livello politico - che contemplava il regime di carcere duro per i mafiosi. Sotto i riflettori torna nuovamente il “consiglio” dell’on. Gargani di attendere il nuovo governo per la conversione in legge di quel decreto. Un suggerimento che non nasceva da un’opinione personale, ma che inevitabilmente coinvolgeva pezzi importanti del Parlamento dell’epoca. Nemmeno la strage di Capaci aveva sortito l’effetto di velocizzare l’attuazione di quel provvedimento. Solamente dopo la strage di Via D’Amelio il Parlamento si era visto costretto a rifare i conti con il Decreto che consacrava il 41 bis (per poi approvarlo definitivamente il 7 agosto ’92). Nella notte del 19 luglio ’92 decine di boss mafiosi vengono prelevati dalle celle dell’Ucciardone e di altre carceri siciliane per essere portati nelle supercarceri di Pianosa e l’Asinara. Successivamente proprio quel regime carcerario sarebbe risultato tra le “merci di scambio” di Cosa Nostra per far smettere le bombe. Di fatto la mancata proroga di 334 provvedimenti di 41 bis per altrettanti boss mafiosi, firmata dall’ex Guardasigilli Giovanni Conso nell’autunno del ’93, rientra a pieno titolo in quello che a tutti gli effetti appare come un do-ut-des Stato-mafia.

Destituzione di Stato
Nei ricordi di Vincenzo Scotti c’è tutta l’amarezza di chi ha vissuto la propria destituzione da ministro dell’Interno come l’attuazione di un progetto che non ammetteva corpi estranei al suo interno. Ecco allora che riaffiorano il suo isolamento politico e i suoi allarmi bollati come “patacche” da Giulio Andreotti. Dal canto suo l’ex ministro sottolinea che quelle forti preoccupazioni, per altro condivise da alcuni apparati preposti alla sicurezza, si concretizzano prima delle “previsioni” di Elio Ciolini del 4 marzo ’92 (il depistatore noto per i suoi legami con l'estrema destra e servizi segreti, nonché per aver tentato di inquinare le indagini sulla strage alla stazione di Bologna del 1980) sulle “nuova strategia della tensione” che si sarebbe realizzata da lì a poco. Vengono ricordati inoltre i “malumori” dell’Arma per la creazione della DIA. Per Scotti basta “mettere insieme fatti concreti” e “analisi dell’intelligence” per comprendere i “tentativi di destabilizzazione” a livello istituzionale di quegli anni.  E proprio in merito a quei tentativi lo stesso Scotti specifica che alcune segnalazioni dei servizi segreti “facevano riferimento a questo” (al tentativo di destabilizzare l’ordine pubblico, ndr). “Tre giorni prima del 20 marzo (del ’92, ndr) avevo parlato alla Commissione antimafia e avevo chiesto alla stessa Commissione e alle forze politiche presenti di rispondere a un interrogativo: qual era la scelta che si voleva fare, cioè di scontro a 360 gradi con la criminalità organizzata, o volevano avere un atteggiamento di connivenza che avrebbe consentito un clima diverso, meno violento, ma ci portavamo sulle spalle la responsabilità di una situazione di corrodimento della vita sociale, economica e politica”. Emerge quindi il dato che in quel momento storico tutti – nel senso di apparati preposti alla sicurezza (e conseguentemente alti vertici istituzionali) – sapevano del rischio di possibili stragi, che si sarebbero puntualmente avverate, ma, come è noto, nessuno si preoccupa di ascoltare il richiamo di Vincenzo Scotti che cade letteralmente nel vuoto. Il 29 giugno del ’92 lo stesso Scotti, da ministro dell’Interno, viene inspiegabilmente nominato ministro degli Esteri. Un mese dopo si dimette. La spiegazione ufficiale (proveniente da ambienti politico-istituzionali) dell’avvicendamento Mancino-Scotti, che rimanda a questioni legate alla obbligatorietà di un ministro di dimettersi da parlamentare, è completamente falsa. E’ del tutto evidente che non lo si voleva più come Capo del Viminale, in quanto di ostacolo ad accordi e trattative, e quindi doveva essere sostituito.

Strane “intromissioni” e mancate denunce
Nella sua lunga testimonianza Vincenzo Scotti racconta anche delle particolari “intromissioni” a casa sua e nel suo ufficio romano avvenute tra il mese di gennaio e il mese di marzo del ‘92. Strani ladri avevano rovistato tra le sue carte senza toccare alcun oggetto di valore. L’ex capo della polizia Parisi gli aveva inspiegabilmente consigliato di non sporgere regolare denuncia. Lo stesso Scotti si era quindi attenuto a quei suggerimenti.

Le parole di Borsellino
“Supposte riflessioni, cui si accompagnano affettuose insistenze di molti dei componenti del mio ufficio, mi inducono a continuare a Palermo la mia opera appena iniziata in una Procura della Repubblica che sicuramente è quella più direttamente ed aspramente impegnata nelle indagini sulla criminalità organizzata”. E’ uno stralcio della lettera che Paolo Borsellino aveva indirizzato all’ex ministro Scotti . L’appunto viene letto in aula dall’ex ministro per illustrare la risposta del magistrato in merito alla proposta dello stesso Scotti di candidare Borsellino alla Superprocura. La proposta era stata fatta a Roma il 28 maggio ’92, alla presentazione del libro “Gli uomini del disonore”. Quell’esortazione pubblica di Scotti aveva turbato lo stesso Borsellino ed alcuni suoi colleghi che temevano una sua sovraesposizione. Ma la sua lettera di risposta al Ministro si sarebbe conosciuta solamente molto tempo dopo la strage di via D’Amelio.   
Il controesame di Vincenzo Scotti è stato quindi rimandato al 13 giugno. Prossima udienza giovedì 5 giugno.

AUDIO by Radio Radicale
Processo Bagarella ed altri (presunta trattativa Stato - mafia)
Palermo 29 maggio 2014 - 4h 44' 46"

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