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gargani-governo-41bisNuove rivelazioni e gravi reticenze dell’ex esponente democristiano
di Lorenzo Baldo - 26 giugno 2014
Palermo. “In Parlamento si sapeva delle revoche degli oltre 300 provvedimenti di carcere duro per i mafiosi decisi da Conso (Giovanni Conso, all’epoca Ministro della Giustizia, ndr). Io ne parlai al Guardasigilli e lui commentò dicendo che la sua era stata una decisione autonoma in quanto era un garantista”. E’ una vera e propria rivelazione quella dell’ex esponente democristiano Giuseppe Gargani chiamato a deporre all’udienza odierna del processo sulla trattativa Stato-mafia. Rispondendo all’avvocato di Massimo Ciancimino, Roberto D’Agostino, l’ex europarlamentare apre una breccia nel muro di gomma creato attorno a quella che a tutti gli effetti è stata una merce di scambio nella trattativa tra Stato e mafia: il 41bis. Come è noto il 5 novembre 1993 a 334 detenuti non venne prorogato il regime di carcere duro. Secondo l’accusa quella scelta rientrerebbe di fatto tra le concessioni dello Stato a Cosa Nostra a fronte di una trattativa. Di fronte alla nuova rivelazione dell’ex europarlamentare Di Matteo incalza: “in che modo lei apprese della mancata proroga degli oltre 300 decreti di 41bis prima di andare a parlare con il Ministro Conso?”. “Non ricordo, forse dalle agenzie”, replica l’ex democristiano, il pm sottolinea che non risultano agenzie nell’immediatezza di quelle mancate proroghe. L’on Gargani si arrampica allora sugli specchi adducendo quella sua conoscenza alle “cose che si dicevano all’interno del partito”, per poi aggiungere un’ ulteriore considerazione: “…vuole che all’interno del Parlamento non si sapesse…”. Quindi in soldoni: tutti sapevano di quelle mancate proroghe meno che il Ministro dell’Interno dell’epoca, Nicola Mancino, che fino a questo momento ha sempre negato di esserne stato messo a conoscenza. “Mancino mi disse che l’aveva saputo a cose fatte…”, ammette candidamente Gargani davanti alla Corte di Assise presieduta da Alfredo Montalto. Se non fosse un processo legato a fatti di sangue sembrerebbe il classico coup de théâtre sul quale cala il sipario. E stamattina di teatro se n’è visto molto durante la deposizione di Giuseppe Gargani. Tra tante negazioni e svariati “non ricordo” è andata in scena una recita degna di Carlo Goldoni.

Carta canta
Per comprendere meglio la caratura di Gargani è importante ricordarsi della memoria depositata dalla Procura di Palermo ad avallo della relativa richiesta di rinvio a giudizio per gli imputati al processo sulla trattativa. In merito alle dichiarazioni di Giovanni Conso e Nicola Mancino i pm hanno evidenziato che “si è acquisita prova di una grave e consapevole reticenza”. Di fatto Mancino è imputato per falsa testimonianza; Conso, con l’allora Direttore del DAP Adalberto Capriotti e l’on. Giuseppe Gargani sono indagati per false dichiarazioni al pm “in ossequio alla previsione di legge che impone il congelamento della loro posizione in attesa della definizione del procedimento principale”. Nella loro memoria i magistrati hanno rimarcato che la condotta era stata contestata ad ognuno degli imputati “in funzione della rispettiva posizione nell’ambito della trattativa”.

Su il sipario!
Con voce stentorea e una discreta mimica facciale l’on. Gargani risponde, a tratti faticosamente, alle domande del pm. Le evidenti contraddizioni di chi difende l’indifendibile risaltano agli occhi fin da subito, e si commentano da sole. A suo dire non esiste nessun dialogo tra lui e Claudio Martelli sui motivi della destituzione di Vincenzo Scotti da Ministro dell’Interno, la causa di quella sostituzione andrebbe, secondo lui, ricercata unicamente nelle mancate dimissioni da parlamentare dello stesso Scotti a fronte di una “regola” inspiegabilmente stabilita in quel momento storico per chi ricopriva incarichi di Governo.

Le paure di Mannino
Tra svarioni e strafalcioni Gargani risponde a Di Matteo in merito alla questione spinosa del suo dialogo con Calogero Mannino “intercettato” casualmente dalla giornalista del Fatto Quotidiano, Sandra Amurri, il 21 dicembre del 2011. “Hai capito, questa volta ci fottono – aveva detto Mannino a Gargani nella ricostruzione della Amurri –, dobbiamo dare tutti la stessa versione. Spiegalo a De Mita, se lo sentono a Palermo è perché hanno capito. E, quando va, deve dire anche lui la stessa cosa, perché questa volta ci fottono. Quel cretino di Ciancimino figlio ha detto tante cazzate, ma su di noi ha detto la verità. Hai capito? Quello… il padre… di noi sapeva tutto, lo sai no? Questa volta, se non siamo uniti, ci incastrano. Hanno capito tutto. Dobbiamo stare uniti e dare tutti la stessa versione”. Messo alle strette l’on. Gargani fornisce una versione riveduta e corretta del suo stesso interrogatorio reso lo scorso anno alla Procura di Palermo. Nel suo racconto in aula spariscono quindi i riferimenti espliciti alle “verità” di Ciancimino jr il quale, invece, nell’odierno racconto di Gargani, diventa unicamente “un menzognero”. Scompare altresì ogni riferimento ambiguo verso Ciriaco De Mita: la ragione per la quale Mannino gli avrebbe chiesto di incontrarlo sarebbe stata unicamente legata al fatto della “memoria storica” di De Mita. Nessuna pressione e nessun tentativo quindi di far combaciare le dichiarazioni di tutti i protagonisti. Il livello di assurdità raggiunge il suo picco massimo quando lo stesso Gargani riferisce di non aver comunicato a Mannino l’esito dell’incontro con De Mita, quasi fosse un’ovvietà. Anche in questo caso nel suo precedente interrogatorio Gargani non era stato così tranchant, l’ex esponente democristiano risponde alle contestazioni del pm: “non mi riconosco in quella frase…”, per poi aggiungere di aver usato “una formula impropria”. Subito dopo ridimensiona notevolmente il suo ruolo politico. Pur ricoprendo incarichi politici e istituzionali Gargani asserisce che all’epoca non sapeva nulla di quanto avveniva all’interno della Dc (nemmeno in merito al documento di solidarietà verso Vincenzo Scotti firmato da decine di democristiani in solidarietà dopo la sua destituzione), allo stesso modo l’ex europarlamentare afferma che non sapeva nemmeno che Giulio Andreotti avesse definito una “patacca” l’allarme di attentati ad esponenti delle istituzioni e di un rischio di “destabilizzazioni delle istituzioni” lanciato a marzo del ’92 da Vincenzo Scotti. Insomma, Gargani non sapeva nulla. Chissà perché allora gli ex ministri Martelli e Scotti riferiscono delle sue “pressioni” relative al decreto sul 41bis finalizzate a farlo convertire in legge successivamente, con il nuovo governo, nonostante fosse avvenuta da poco la strage di Capaci. E’ notorio che quel D.L. avrebbe visto la sua piena attuazione solamente dopo la strage di via D’Amelio. Secondo Martelli e Scotti lo stesso Gargani si sarebbe quindi fatto portavoce di una sorta di “malcontento” della Dc (e non solo) a fronte della rigidità di quel provvedimento. Ma anche su questo punto Gargani non ricorda, anzi, ha proprio rimosso.
Prossima udienza venerdì 27 giugno con l’audizione in videoconferenza del collaboratore di giustizia Filippo Malvagna.

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