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processo-trattativa-211113E sulla politica aggiunge: “Nel '94 scegliemmo Forza Italia”
di Giorgio Bongiovanni ed Aaron Pettinari - 21 novembre 2013
Ad una settimana esatta dalle intimidazioni che il capo dei capi, Salvatore Riina, ha rivolto nei confronti del sostituto procuratore Antonino Di Matteo (oggi non presente in aula), e al resto del pool sull'inchiesta della trattativa (rappresentato dal procuratore aggiunto Vittorio Teresi e dai sostituti Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia), si è tornati oggi innanzi alla Corte d'assise, presso l'aula bunker dell'Ucciardone. A stemperare il clima pesante, ieri rafforzato dalle ulteriori minacce nei confronti del pm di Caltanissetta Domenico Gozzo e del capo procuratore di Trapani Marcello Viola, sono presenti in aula il capo procuratore di Palermo, Francesco Messineo, ed il presidente di Libera Don Luigi Ciotti.

Quest'ultimo è stato accompagnato da un certo numero di ragazzi che si sono seduti, assieme a qualche Agenda Rossa, negli spazi riservati al pubblico.
E' proprio Messineo a prendere la parola per primo in apertura d'udienza “per esprimere la propria gratitudine, da parte di tutti i magistrati, per la partecipazione e la vicinanza dimostrata in merito alle ultime vicende. Questo processo si deve celebrare in un clima di serenità tenendo bene a mente che la spinta che ci muove è semplicemente quello della ricerca della verità”. Ed è proprio in questa  direzione che si svolge l'esame del collaboratore di giustizia Antonino Giuffré. L'ex capomandamento di Caccamo, in passato tra i fedelissimi di Bernardo Provenzano ha ripercorso gli anni delle stragi partendo dal principio, ovvero dalla famosa riunione del dicembre 1991 in cui Riina riunì la Cupola dando il via alla stagione di morte. “Ho partecipato alla riunione in cui Cosa nostra, nel dicembre del 1991, avviò la cosiddetta resa dei conti nei confronti di persone ostili a Cosa nostra: politici inaffidabili come Lima o magistrati. In quell'occasione furono decisi gli omicidi. Tanto è vero che nel 1992 fu ucciso Salvatore Lima e poi i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino”, ha detto Giuffrè rispondendo alle domande del pm Francesco Del Bene. giuffre-antoninoSecondo il pentito, questo non era l'unico politico da punire. “Dopo la riunione iniziò una politica di aggressione a chi veniva considerato un traditore. C'erano altri nella lista come i cugini Salvo, Calogero Mannino, Carlo Vizzini e Salvo Andò. Quando venne ammazzato Lima - racconta Giuffrè - in Cosa nostra si disse: 'ucciderne uno per insegnare a cento' (citando il famoso detto di Mao Tse-tung ndr). Insomma è stato un segnale mandato a tante altre persone politiche, il primo fra tutti era Andreotti, ma anche Martelli e altri. Il motivo? Eravamo stati abbandonati. C'era il discorso dei processi, le operazioni di polizia continue sotto la guida di Falcone e Borsellino, le operazioni in America, il maxiprocesso. Quest'ultimo fu la goccia che fece traboccare il vaso. Per Riina era anche diventata una questione di immagine perché andava sempre rassicurando tutti che le cose si sarebbero sistemate invece quando hanno spostato la sezione giudicante in Cassazione si è capito che le cose sarebbero andate male e così si è dato il via all'aggressione violenta rispetto a certi personaggi”.
Ma se sull'assassinio dei nemici giurati, Falcone e Borsellino, c'è poco da aggiungere, Giuffré si è soffermato sugli anni antecedenti, raccontando che già dal 1987 la mafia cambiò in parte rotta spostando i suoi voti dalla Dc al Psi e ai Radicali. “Il discorso che fece Riina fu quello di cercare punti d'appoggio più solidi perché i referenti precedenti si stavano dimostrando inaffidabili”.

Chi tace acconsente
“Quando Riina – ha aggiunto nuovamente Giuffré sulla riunione di dicembre - comunicò alla commissione questa decisione di voler uccidere politici e magistrati nessuno osò opporsi. C'era silenzio assoluto, non si sentivano volare neanche le mosche”. Una riunione, quella, a cui non avrebbe partecipato Bernardo Provenzano. Quest'ultimo, in base a quanto rivelatogli dallo stesso “tratturi”, avrebbe però contribuito alla decisione di eliminare Lima sposando la linea di Riina. “Fu Riina a dirmi esplicitamente 'Io e Binnu possiamo anche avere vedute diverse, e magari è giusto così. Ma quando ci alziamo dal tavolo puoi stare certo che siamo in perfetta sintonia'”.

Un nuovo Provenzano
Tuttavia la sintonia tra i due, col passare degli anni, si modificò radicalmente. “Nel '93, dopo le stragi di Falcone e Borsellino incontrai Provenzano – ha aggiunto l'ex capomandamento di Caccamo - Era un altro uomo: aveva adottato la strategia del 'calati iunco che passa la piena'. Aveva un atteggiamento da 'vergine' come se le colpe di quanto fosse accaduto fossero solo di Riina. A quel punto Provenzano mi disse che si doveva mettere da parte l'attacco frontale allo Stato perché contro lo Stato si perde. Mi disse di non fare scruscio (rumore, ndr) e tornare ai discorsi antecedenti al cataclisma perché in sei o sette anni di questa strada ne saremmo usciti fuori”. E' dall'arresto di Riina che Cosa nostra inizia un percorso di “divisione” in due correnti. Da una parte l'ala provenzaniana, dall'altra quella di Luca Bagarella, Giovanni Brusca ed altri fedelissimi del “capo dei capi” che proseguirono l'attacco allo Stato con le stragi di Firenze, Roma e Milano per concludersi con il fallito attentato all'Olimpico nel 1994. “Noi vivemmo quel momento quasi con paura - ha ricordato il pentito – perché le stragi avevano addirittura superato il Continente”.

Sbirritudine e trattativa
Ma Giuffré è anche intervenuto in merito ai fatti riguardanti l'arresto di Riina. “Dopo l'arresto di Riina nel nostro gruppo si pensava che qualcuno l'avesse venduto e che non avessero disposto la perquisizione della sua casa per non trovare tracce, documenti”. Secondo il collaboratore di giustizia la cattura di Riina, e quella dei suoi più stretti sodali (dai Graviano a Brusca, passando per Bagarella), sarebbe stata oggetto di una trattativa avviata tra il boss Bernardo Provenzano e una parte dello Stato. “A chi fu venduto Riina? A quella parte di Stato che per alcuni versi aveva avuto una vicinanza con Cosa nostra – ha risposto Giuffré - E dentro lo Stato alcuni operarono in buona fede, altri furono convinti con il ricatto, altri erano invece in assoluta malafede. riina-salvatore-web0Riina sferrò un attacco potente contro una parte di quel potere che aveva avuto un ruolo nell'appoggio di Cosa nostra e le stragi servirono per convincere anche lo Stato ad intervenire per porre fine a questa cosa. Chiamiamola ragione di Stato se vogliamo fatto sta che la consegna, la messa a parte della frangia violenta di Cosa nostra che aveva attaccato lo Stato, è stato il prezzo da pagare”.  
E in questo quadro di “do ut des”, secondo l'ex capomandamento di Caccamo, da una parte c'erano i politici che erano nella lista nera della mafia, i quali hanno guadagnato più serenità, visto che erano finiti in cella i boss stragisti, e dall'altra la mafia che ha ottenuto “benefici e un allentamento delle maglie repressive”.
Ma nel suo racconto Giuffré va addirittura più indietro rispetto al biennio '92-'93: “In Cosa nostra agli inizi degli anni Ottanta c'era il sospetto tra alcuni di noi che Provenzano avesse rapporti con gli 'sbirri', cioè con le forze dell'ordine. Io non avevo notizie ufficiali ma era una voce che correva da tempo. I più vecchi dicevano di stare attenti a lui sia per le 'tragedie' che per la sua 'sbirritudine'. Io misi insieme quelle voci con le voci che poi in seguito, negli anni Novanta venivano da Catania. Si diceva che Provenzano passasse notizie agli 'sbirri' tramite la moglie”.
Poi ha continuato: “Provenzano un giorno mi chiese: ma tu credi che io sia sbirro? Io non potevo contraddirlo e gli dissi: lungi da me”. Mentre secondo Giuffre’ “Toto’ Riina era considerato un purosangue, un malandrino al cento per cento”, che non dava informazioni ma a volte riceveva informazioni.

La missione di Ciancimino
Rispondendo alle domande dei pm Giuffré ha poi parlato del ruolo di Ciancimino in seno al dialogo che lui aveva saputo essere “con i carabinieri”. “Quando uscirono le notizie che Ciancimino parlava con gli inquirenti fu Provenzano a dirmi di stare tranquillo, che era in missione per conto degli interessi di Cosa nostra – ha riferito – interessi di cui molto guadagna Provenzano non solo in termini di potere. Durante la latitanza di Provenzano a Belmonte Mezzagno, nella zona di Mezzojuso ci fu un certo allarme perché qualcuno aveva detto che Provenzano si trovava in quelle zone. Era grossomodo il 1995. Provenzano mi diede il compito di trovare un luogo nascosto dove ci saremmo dovuti incontrare con questo “confidente” per ucciderlo, poi però lo stesso 'Binnu' mi disse che era stato già ucciso. Si chiamava Luigi Ilardo ed era parente di Giuseppe Madonia. Tempo dopo ancora, nel 2001 quando arrestarono Benedetto Spera, nel villino affianco c'era Provenzano e nessuno andò a perquisire quell'abitazione”. 

I nuovi referenti politici
provenzano-bernardo-web1Nell'ultima parte dell'udienza Giuffré ha poi toccato il tema dei nuovi referenti politici che Cosa nostra ha ricercato negli anni immediatamente dopo le stragi. “In Cosa nostra ci adoperammo tutti per dare una mano a Forza Italia, la forza politica che allora stava nascendo“. Il collaboratore di giustizia ha indicato nell’ex senatore Marcello Dell’Utri il tramite tra la mafia e Silvio Berlusconi. “Dell’Utri – ha aggiunto – era in contatto con Brancaccio e coi fratelli Graviano. Tra il '93 ed il '94 c'è l'inizio di un nuovo capitolo: si apre un nuovo corso tra Cosa nostra e la Politica. Provenzano all'inizio era un pò freddo poi, parlando di Dell'Utri e di Forza Italia, mi disse 'Siamo in buone mani'”.

La lettera di Napolitano
Prima della testimonianza di Giuffré la Corte di Assise di Palermo ha annunciato che depositerà, a disposizione delle parti, la lettera inviata ai giudici dal Capo dello Stato Giorgio Napolitano.
“Con la lettera pervenuta in cancelleria il 7 novembre 2013 - ha detto in aula il giudice Alfredo Montalto - il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel manifestare la propria disponibilità a testimoniare, chiede che si valuti ulteriormente, anche in applicazione della previsione di cui all'articolo 495 comma 4 del codice di procedura penale, l'utilità del reale contributo che tale testimonianza potrebbe dare, tenuto conto delle limitate conoscenze sui fatti di cui al capitolato di prova, che nella medesima lettera vengono dettagliatamente riferite”.
Una volta acquisita le parti “potranno pronunciarsi sulla sua acquisizione ed utilizzabilità – ha detto ancora il presidente Montalto - riservato all'esito ogni provvedimento di competenza della corte”. Ciò significa che dopo la lettura del messaggio di Napolitano ai giudici di Palermo, si potrebbe riaprire la discussione sulla citazione o meno del Capo dello Stato al processo sulla trattativa.
L'udienza è stata quindi rinviata a domani quando il pentito dovrà rispondere alle domande delle parti civili e delle difese.
Il “pentito della montagna”, così come fu definito il collaboratore di giustizia Antonino Giuffré dal giornalista Saverio Lodato, ha colpito ancora. Preciso, puntuale, coerente e inquietante, soprattutto per i potenti e i politici alleati con la mafia.
Udienza dopo udienza comprendiamo sempre di più quali spaventosi scenari possa aprire questo dibattimento e comprendiamo sempre di più le minacce del “parafulmine d'Italia”, Totò Riina, rivolte ai  giudici di questo processo.

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