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mannino-gargani-tribunale-padi Lorenzo Baldo - 9 gennaio 2014
Palermo. “Colloquio con Calogero Mannino avvenuto nel suo ufficio di via Borgognona 48 alle 17,00 di mercoledì 8 luglio (1992, ndr). Rapporto dell’Arma dei carabinieri che indica Mannino, Andò, Borsellino e due ufficiali dei CC siciliani bersagli della mafia. Si dice anche che la mafia sta preparando nuovi clamorosi colpi per disarticolare lo Stato. Non vado da un mese in Sicilia perché secondo i CC c’è un commando pronto ad accopparmi. Ma io questa settimana andrò lo stesso. Forse i CC possono individuare uno degli attentatori”. Cominciano così gli appunti del giornalista Antonio Padellaro, relativi alle confidenze ricevute dall’ex ministro democristiano, depositati al processo sulla trattativa Stato-mafia. Il primo teste a deporre all’udienza odierna è stato proprio il direttore del Fatto Quotidiano, autore materiale di quegli scritti. Al pm Nino Di Matteo lo stesso Padellaro ha raccontato la genesi di quelle parole trascritte di suo pugno. Parole che inizialmente avrebbero dovuto rientrare all’interno di una vera e propria intervista all’ex ministro democristiano Calogero Mannino, prima che quest’ultimo la negasse nonostante fosse stata inizialmente concordata. Rileggendo i suoi stessi appunti Padellaro ha quindi ripercorso la paura strisciante provata dallo stesso Mannino. Una paura che gli fa dire di provare “orrore a restare in questa condizione di condannato a morte”. “Maledico il giorno in cui ho cominciato a fare politica”, dice ancora Mannino a Padellaro, per poi definire la Sicilia “una terra maledetta”.

Ed è verso la fine di quelle annotazioni che l’ex esponente DC si lascia andare ad una considerazione del tutto subdola. “I carabinieri vogliono che non mi espongo. Sono troppo nel mirino. Ma io ho una gran voglia di raccontare molte cose. E penso che lo farò”. Peccato che, successivamente, di quelle “molte cose” a cui faceva riferimento Mannino non sia giunto alcunché all’autorità giudiziaria. Per quale ragione l’allora onorevole Mannino non aveva denunciato quanto di sua conoscenza in merito alle minacce di morte che lo riguardavano? E quali carabinieri gli avrebbero consigliato di non esporsi mentre lui aveva tanta voglia di parlare? All’epoca il servizio scorta dello stesso Mannino era gestito dalla Polizia di Stato. Ecco allora che la “preoccupazione” dei carabinieri per l’incolumità dello stesso esponente politico stride decisamente. Come è noto nel mese di febbraio ’92 (dopo la sentenza della Cassazione sul maxi processo) Calogero Mannino aveva ricevuto a casa una corona di crisantemi. Nonostante avesse capito perfettamente il messaggio di morte che questa rappresentasse, si era guardato bene dal denunciarlo. Qualche giorno dopo, però, aveva confidato al maresciallo Giuliano Guazzelli: “Ora uccidono me o Lima”. E così era accaduto. Il 12 marzo 1992 Salvo Lima veniva assassinato a Mondello. Tre settimane dopo, il 4 aprile, anche Guazzelli veniva barbaramente ucciso. Di fatto per gli inquirenti l’eliminazione del maresciallo Guazzelli sarebbe stata decisa, dopo l’omicidio Lima, per lanciare un ulteriore messaggio di minaccia proprio a Mannino. Ma anche in questo caso riserbo assoluto da parte dell’onorevole. “Mannino fece un’analisi molto accurata del contesto in cui si erano svolte le stragi – ha spiegato successivamente Padellaro a Di Matteo – e divise le vicende di Cosa Nostra in due fasi. Mi raccontò che fino all’epoca di Bernardo Mattarella e di Giovanni Gioia (la vecchia DC siciliana), la mafia era stata un potere in connessione con altri poteri e quindi si era creata una specie di equilibrio, di compromesso, tra la politica e Cosa Nostra che si era mantenuto nel corso del tempo. Poi improvvisamente era successo qualcosa di nuovo e cioè che i crescenti proventi della mafia ne avevano rafforzato il peso. Il peso era diventato crescente e, sotto la guida di Riina, l’avevano  trasformata in un’organizzazione feroce che non voleva più mediare né spartire con nessuno il proprio potere. E quindi neanche con la politica. Mannino mi disse quindi che il maxi processo era stato in qualche modo il punto di ‘equilibrio’ di un nuovo accordo con il potere politico”. “Cosa Nostra – secondo quanto riferitomi da Mannino – offriva allo Stato la possibilità di ingabbiare la mafia perdente e alcuni settori della mafia vincente (che evidentemente erano in contrasto con il vertice di Cosa Nostra) e in cambio la Cassazione doveva rimettere in libertà gli esponenti di primo piano della mafia vincente”. Di fatto Mannino lo avrebbe detto a Padellaro “parlando in termini di richiesta di accordo” in quanto “questa era la richiesta della mafia ai rappresentanti dello Stato”. “E invece, mi disse Mannino, i patti – così come la mafia li aveva intesi – non furono rispettati perché il governo Andreotti aveva fatto approvare una serie di leggi repressive e quindi non  solo nessuna delle richieste della mafia vincente era stata accolta, ma anzi, dopo la strage di Capaci c’era stato un inasprimento delle leggi. Il patto era stato violato ancora prima tant’è vero che l’assassinio di Lima – ambasciatore della politica presso Cosa Nostra – era il segnale che la mafia era scesa sul piede di guerra. Lima non aveva potuto mantenere gli impegni presi e quindi era stato ucciso”. Il ruolo di Calogero Mannino all’interno della trattativa Stato-mafia viene discusso in un processo a parte che si sta svolgendo a Palermo con rito abbreviato. Ciò non toglie che nel processo madre il suo nome si intrecci prepotentemente con fatti e circostanze di cui si stanno occupando i magistrati del processo sulla trattativa. Tra questi anche l’intercettazione “casuale” dello stesso Mannino da parte di Sandra Amurri il 21 dicembre del 2011. Così come aveva fatto nel 2012 al processo per la mancata cattura di Provenzano, la giornalista del Fatto Quotidiano ha ricostruito in aula gli istanti nei quali casualmente ha captato la conversazione tra l’ex ministro democristiano e l’on. Giuseppe Gargani. “Hai capito, questa volta ci fottono – diceva Mannino a Gargani nella ricostruzione della Amurri –, dobbiamo dare tutti la stessa versione. Spiegalo a De Mita, se lo sentono a Palermo è perché hanno capito. E, quando va, deve dire anche lui la stessa cosa, perché questa volta ci fottono. Quel cretino di Ciancimino figlio ha detto tante cazzate, ma su di noi ha detto la verità. Hai capito? Quello… il padre… di noi sapeva tutto, lo sai no? Questa volta, se non siamo uniti, ci incastrano. Hanno capito tutto. Dobbiamo stare uniti e dare tutti la stessa versione”. La forte preoccupazione di Mannino per “dare tutti la stessa versione” è stata riportata all’attenzione della Corte presieduta da Alfredo Montalto. A suffragio delle dichiarazioni di Sandra Amurri si è svolta successivamente la testimonianza del senatore Aldo Di Biagio. L’esponente di “Scelta civica” ha confermato di aver incontrato la Amurri dopo che quest’ultima aveva ascoltato il dialogo tra Mannino e Gargani. Nella prossima udienza del 16 gennaio verrà ascoltato in videoconferenza il collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo.

In foto: Giuseppe Gargani e Calogero Mannino

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