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di Aaron Pettinari
Gli ultimi "messaggi" del boss di Brancaccio nel documento consegnato alla Corte d'Assise di Reggio Calabria

Giuseppe Graviano, boss di Brancaccio condannato assieme al fratello Filippo per le stragi del '92-'93 e per l'omicidio di don Pino Puglisi, non è un collaboratore di giustizia. E' questo il primo punto da tenere bene a mente quando si ascoltano le sue dichiarazioni al processo 'Ndrangheta stragista, dove si trova imputato assieme a Rocco Santo Filippone come mandante degli attentati ai carabinieri avvenuti tra il '93 e il '94, o mentre si leggono le dichiarazioni contenute nella memoria di 54 pagine inviata alla Corte d'Assise che in giornata dovrà emettere la sentenza.
Giuseppe Graviano è un capomafia arrabbiato. Arrestato il 27 gennaio 1994 mentre era convinto di avere "il Paese nelle mani", si ritrova da anni al 41 bis.
"E' bene far sapere a mio fratello Giuseppe che se non arriva niente da dove deve arrivare qualche cosa è bene che anche noi cominciamo a parlare coi magistrati" avrebbe detto Filippo Graviano a Gaspare Spatuzza durante la detenzione a Tolmezzo. Quel tempo, almeno in parte, sembra essere arrivato nel momento in cui nel 2020, per svariate udienze, ha deciso di sottoporsi ad esame. Poi, all'improvviso, il 29 maggio è tornato a trincerarsi dietro i propri silenzi fino alla consegna della memoria.

La verità di Graviano
Un lungo j'accuse nei confronti di quel Silvio Berlusconi che già era stato nominato più volte nelle intercettazioni della Dia, registrate tra il 2016 ed il 2017 nel carcere di Ascoli Piceno, nell'ambito dell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. Nel corso del processo reggino Graviano aveva sostenuto che, mentre gli atti del processo contengono diverse falsità, in quelle intercettazioni c'è la verità ("Io non racconto bugie al signor Adinolfi perché io lo rispetto”).
Tanto in aula quanto nella memoria, però, il nome di Marcello Dell'Utri, condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, è "il grande assente". Dice di non conoscerlo. In aula, rispondendo al pm Lombardo, aveva dichiarato che l'ex senatore era stato "tradito" e "danneggiato" dall'ex Premier ("Ha fatto leggi che hanno danneggiato anche lui e tutti i detenuti al 41 bis. Per non fare uscire noi dal carcere, ha iniziato a fare leggi. Dell’Utri è stato condannato”).
Una vittima, a suo dire. Come vittima si sente lo stesso Giuseppe Graviano che allontana da sé ogni responsabilità nelle stragi e fa capire di voler puntare alla revisione di processi.
Nel suo gioco di "messaggi multipli", tra il "dico" e "non dico", diretto verso eventuali interlocutori esterni, nel documento aggiunge ulteriori passaggi sui rapporti avuti con l'imprenditore Silvio Berlusconi fino ad arrivare ad indicare una via da percorrere per raggiungere alla verità su episodi inquietanti come il delitto del poliziotto Agostino o la scomparsa dell'Agenda Rossa.

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Ida Castelluccio e Nino Agostino


Aiello e il caso Agostino
Già nel corso del processo aveva fatto riferimento alla morte di Agostino, ucciso assieme alla moglie Ida il 5 agosto 1989 e alla scomparsa della nota agenda del giudice Paolo Borsellino. Argomenti mai veramente espletati che nelle pagine della memoria trovano approfondimento seguendo un unico comune denominatore: la responsabilità nei delitti dei membri del "gruppo Contorno", di cui farebbero parte Gaetano Grado (riconosciuto come killer del padre di Graviano, Michele) Gaspare Spatuzza, ed anche il fratello, Francesco, che avrebbe il volto segnato da cicatrici.
Un modo chiaro ed evidente per scagionare Giovanni Aiello, a lungo inquisito dalla Procura di Palermo proprio per il delitto Agostino e contro cui hanno parlato svariati collaboratori di giustizia. Inchieste di più procure hanno tessuto l'immagine di un soggetto, come scrissero i pm nella richiesta di archiviazione sul caso Agostino, "certamente in contatto qualificato con l’organizzazione mafiosa Cosa nostra (se non, addirittura, a questa intraneo)”.
Non può sfuggire che il "salvagente" sia gettato da Graviano proprio nei mesi in cui la Procura generale di Palermo ha chiesto il rinvio a giudizio nei confronti di Antonino Madonia e Gaetano Scotto, e per Francesco Paolo Rizzuto, l'amico del poliziotto, accusato di favoreggiamento aggravato. E il torbido resta nel momento in cui, senza fare nomi, sostiene che la morte di Nino Agostino "è stata ideata e voluta dagli stessi colleghi".

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Paolo Borsellino e l'agenda rossa alla sua destra in un frame del Tg1-Speciale


La sparizione dell'Agenda Rossa
Nella sua memoria difensiva Graviano accusa i collaboratori di giustizia di aver intorbidito le acque perché "qualcuno o più di qualcuno aveva interesse a toglierci di mezzo”. E a suo parere il solito "gruppo Contorno" avrebbe anche un ruolo nella sparizione dell'agenda rossa scomparsa il 19 luglio 1992 in via d'Amelio. Il boss di Brancaccio, sul punto, parte da lontano descrivendo una serie di affari che sarebbero ruotati attorno al Teatro Massimo "sempre gestito dalla famiglia di Brancaccio, anche se non ricade in quel territorio, ed in particolare dal Commendatore Gioacchino Pennino".
Graviano racconta di bische clandestine, a cui avrebbero partecipato soggetti della Palermo bene ("professionisti, imprenditori, magistrati") anche in presenza di Stefano Bontade, di debiti di gioco e per l'acquisto di droga. E ad un certo momento, senza fare il nome, riferisce di un "personaggio della Palermo bene, che ricopriva anche il ruolo di Magistrato della Procura di Palermo, è soprannominato 'Borotalco'" che avrebbe "barattato l'esoso debito, consegnando un'agenda, quella rossa, che era di proprietà del dr. Borsellino". Quindi aggiunge che l'agenda che "era stata recuperata direttamente da Borotalco sul luogo della strage. L'agenda era stata da lui trattenuta mentre la borsa era stata consegnata al dr. La Barbera, scomparso prematuramente".
Il boss di Brancaccio asserisce persino di conoscere alcuni contenuti di quel preziosissimo documento dove vi sarebbero stati "vari riferimenti all'omicidio di mio padre e ad altri omicidi e fatti a questo collegati, come il riferimento ad alcuni poliziotti di Palermo". Ovviamente Graviano non spiega in alcun modo come sia venuto a conoscenza di questi fatti ma si dice certo che ora l'agenda sia "nelle stesse mani degli autori dell'omicidio di mio padre nonché dell'omicidio del poliziotto Agostino e per finire di quei soggetti che erano presenti in via d'Amelio".
Volontà di vendetta nei confronti degli assassini del proprio genitore o più probabilmente l'ennesimo messaggio trasversale da indirizzare verso l'esterno, ancora una volta confondendo le acque?
Il sospetto è più che legittimo perché se c'è un dato che è evidente è che non furono uomini di Cosa nostra a sottrarre l'agenda di Borsellino e che in quel giorno in via d'Amelio furono in diversi a tenere in mano la borsa del magistrato.

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Roma, 11 maggio 1994. Giuramento primo governo Berlusconi © Imagoeconomica


Nuove accuse contro Berlusconi
Nel suo flusso di coscienza Graviano sceglie con accuratezza i nomi da "fare", o "non fare". E lo fa mescolando ad arte il verosimile con l'improbabile. Così ancora una volta torna sull'arresto avvenuto nel gennaio 1994 ("L’arresto di Milano è stato veramente singolare e inaspettato. Sono certo che un ruolo, oltre chiaramente alle forze dell’ordine, sia da attribuire a Contorno e a Berlusconi”) e mostra tutta la propria rabbia contro colui che avrebbe una diretta responsabilità. Perché accanto al "gruppo Contorno" ("che avrebbe fatto scattare l'attività investigativa conducendo gli inquirenti a Milano") vi è un'altra persona "che ha avuto un ruolo strategico in tutto ciò - scrive - il riferimento è a Berlusconi, che ha avuto sempre un rapporto stretto e privilegiato con il gruppo Contorno, Bontate e soci. Tutti hanno quindi dato un contributo, non solo per il mio arresto, ma anche per costruire un castello di accuse per mettermi fuori dai giochi, inserirmi nei contesti stragisti e poi condurmi fino a Reggio Calabria".
Nel gioco assurdo delle parti ci sono collaboratori di giustizia come Spatuzza e Tranchina su cui viene puntato il dito ed altri che, diversamente, non vengono scalfiti. "Non capisco perché non dovrei ammettere di aver visto Berlusconi in Sardegna nell'agosto del 1993 o di aver visto l'orologio che descrive Brusca". Nel corso del processo calabrese proprio sulle vacanze in Sardegna, così come gli spostamenti su Roma, sono stati compiuti alcuni accertamenti.
Graviano, dunque, torna a chiarire che "la vera natura del rapporto con Berlusconi”, non era altro che di tipo economico.
Investimenti negli anni Sessanta e Settanta da parte del nonno ed altri imprenditori di Palermo che, aveva dichiarato in aula, erano pari a venti miliardi di lire e che sarebbero finiti a "Milano 3, e nelle televisioni Mediaset". Ovviamente, senza i riscontri, la storia di Graviano non solo va presa con le pinze, ma va ritenuta per quello che è: le parole di un imputato mafioso, che quindi può anche mentire nella maniera più spudorata. Così facevano i grandi boss. Così faceva Totò Riina quando asseriva di essere vittima di un "complotto comunista", pur di salvare se stesso. Già l'avvocato dell'ex Presidente del Consiglio, alle prime rivelazioni di Graviano, aveva allontanato ogni accusa ("sono platealmente destituite di ogni fondamento, sconnesse dalla realtà nonché palesemente diffamatorie”).
Graviano nella memoria torna sul punto ricordando come, dopo la morte del nonno, i rapporti sarebbero stati gestiti da lui stesso e dal cugino, Salvatore. “Mi rendo solo ora conto però che a fine ’93 qualcosa cambia intorno al sottoscritto, e questo momento corrisponde, a mio avviso e a mente lucida, con l’ultimo incontro che ho avuto con Berlusconi a Milano (in precedenza lo avevo incontrato altre due volte). In quell’incontro si parlò di mettere, dopo tanti anni (più di 20), nero su bianco quello che era stato pattuito con mio nonno, Quartararo e gli altri investitori palermitani. Negli anni i rapporti con Berlusconi, come ho già riferito, erano stati curati da mio cugino Salvo anche perché io ero sempre latitante. Dopo più di venti anni però, gli investitori, che non avevano ricevuto alcuna somma rispetto all’investimento iniziale, intendevano ottenere i propri utili e formalizzare l’accordo davanti ad un notaio”.
Quando si sarebbe dovuto tenere l'appuntamento dal notaio? A detta di Graviano nella prima settimana di febbraio 1994. Poi, però, vi furono gli arresti.
Per Graviano “queste manovre messe in atto da “qualcuno” o più di “qualcuno”, hanno fatto guadagnare al signor Berlusconi, alla fine degli anni 60, la cifra di ben 20 miliardi di lire, che si dovevano tradurre nel 20 per cento degli investimenti fatti negli anni dallo stesso. Quello che è accaduto in tutti questi anni, compresa la volontà di tenermi ristretto al 41 bis e in area riservata, è la dimostrazione di quello che ho appena descritto”. Eccolo il tarlo del boss stragista. Quel carcere duro a cui è condannato mentre altri si trovano liberi o impuniti.
"In questa breve memoria - conclude Graviano - ho provato a mettere insieme alcuni passaggi salienti di quelle che sono state le mie vicende personali e processuali, ma ci sarebbe ancora tanto da scrivere". Perché di una cosa si può essere certi: Graviano non ha detto tutto quello che sa.

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