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di Davide de Bari
La donna al processo 'Ndrangheta stragista: “Tornato dall’interrogatorio di Roma mi disse di comprare una stampante e girammo un video”

Nino Lo Giudice quando tornò da Roma era nervoso più del normale. Ci furono più episodi in cui diceva di aver visto due persone. Quando andavo a fare spesa mi diceva di stare attenta. In quel periodo mi disse che il pericolo era anche siciliano e non solo calabrese. Non so da chi provenisse questo pericolo, ma era turbato”. A raccontare i timori del “Nano” è l’ex compagna del collaboratore di giustizia, Laila Taoui, sentita ieri come teste al processo ‘Ndrangheta stragista che vede come imputati Giuseppe Graviano, boss del mandamento palermitano di Brancaccio e Rocco Filippone, di 77 anni, di Melicucco, indicato dagli inquirenti come esponente di spicco della potente cosca Piromalli di Gioia Tauro. I due sono accusati di essere i mandanti degli agguati contro i carabinieri tra il 1993 ed il 1994, in cui morirono i carabinieri Antonio Fava e Giuseppe Garofalo.
La donna, mai coinvolta nelle attività criminali di Lo Giudice, ha convissuto con l’ex boss durante il periodo in cui si trovava in località protetta nelle Marche, a Macerata. Rispondendo alle domande del procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo ha ripercorso gli anni della loro relazione. “Quando abbiamo iniziato a frequentarci io non sapevo chi fosse, sapevo solo che aveva un negozio di frutta e verdura. - ha raccontato la donna di origini marocchine - Ho saputo chi era solo quando l’hanno arrestato. Lui mi diceva che non era vero niente, ma poi mi ha detto la verità quando ha deciso di collaborare”.
Ciò avvenne a partire dal 2012. Un periodo non semplice in cui Lo Giudice ebbe anche dei colloqui investigativi con il sostituto procuratore nazionale antimafia, Gianfranco Donadio. “All’inizio era tranquillo, ma quando tornò da Roma era molto agitato e non aveva nemmeno dormito. - ha spiegato la testimone - Poi mi disse di fare un filmato per sicurezza. Prese anche due buste e mise dentro due fogli bianchi”.
Durante l’esame, per la prima volta, la teste ha riferito anche alcuni particolari inediti, ad esempio che, una volta tornato da Roma, l’allora compagno le diede dei soldi per andare ad acquistare una stampante: "Nino mi disse di andare a comprare una stampante perché doveva fare delle stampe. E allora presi un bus e da Macerata andai a Civitanova Marche a prenderla - ha detto - La stampante che comprai la mise nella stanza accanto a dove dormivamo. Lì aveva le sue cose, come un computer o una borsa. Ma non ho mai avuto modo di vedere niente. Avevano una password ed un codice di sicurezza”.

Il filmato e le buste con i fogli bianchi
La donna ha poi raccontato che Lo Giudice le chiese di girare un filmato. “Diceva che era per la nostra sicurezza. Ed io lo feci”. Nel video il "Nano" denunciava di “essere stato oggetto di pressioni psicologiche” e di “essere stato obbligato dal magistrato Donadio della Dna ad accusare persone che io non conosco”. Inoltre, nel video, Lo Giudice rivelava anche di essere stato costretto a “consegnargli delle fotografie di Giovanni Aiello e di una certa Antonella di Catanzaro e di inserire queste foto dentro a delle buste, ma è tutta una bufala”. La consegna delle buste, ha ancora riferito la donna, “doveva avvenire nelle mani del Nop o della questura e dovevano essere consegnati a chi stava aspettando sotto casa”. Laila Taoui ha quindi aggiunto di aver visto il compagno “uscire da casa per consegnare la busta ai due carabinieri” ma ha negato di aver visto il momento della consegna che sarebbe comunque avvenuta.

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L'ex agente Giovanni Aiello detto "Faccia da mostro"


Ma perché il boss era così “nervoso” e “preoccupato”? Secondo la teste attorno al 2012 qualcuno avrebbe indotto Lo Giudice a dire il falso. “Gli avevano detto che doveva dire che conosceva questo o che riconosceva quell’altro in delle foto senza essere vero. Volevano fare una specie di gioco. Non erano soggetti calabresi, ma siciliani e lui non li conosceva”. A convincere il pentito a mentire sarebbe stato “un avvocato di Roma, il primo che aveva” il quale gli aveva consigliato “che doveva dire queste cose false per il bene nostro”. Secondo la donna ci sarebbe stato anche un terzo soggetto di cui, però non conosce l’identità, che avrebbe istigato Lo Giudice a mentire su alcune persone “ma non era vero. Si trattava di siciliani, palermitani, solo che lui non li conosceva”.

La fuga
Dopo quegli interrogatori nella Capitale, Lo Giudice aveva visto delle strane persone che si aggiravano attorno alla loro abitazione a Macerata. Secondo quanto le disse il compagno di allora “non si trattava di poliziotti”.
La donna ha detto di non conoscere i reali motivi del continuo stato di agitazione del pentito ("Lo Giudice non mi diceva mai niente, mi ha sempre tenuta da parte, al massimo ne parlava con i familiari, con cui non ha mai interrotto i contatti”).
Con lo stato di inquietudine, sempre più crescente, e poco tempo dopo aver girato il video, Lo Giudice decise di fuggire dalla località protetta. La donna, che all’epoca prendeva anche dei farmaci per dormire, si sarebbe accorta dell’assenza del compagno solo il mattino seguente: “Non aveva mai dato segnali di voler fuggire. Non mi sono accorta subito perché non mancava nulla, i suoi vestiti erano ancora tutti presenti. Poi quando ho visto che non rientrava ho chiamato la polizia. E quando sono arrivati per perquisire l’abitazione mi sono accorta che mancava il suo computer, una piccola valigia e i suoi medicinali”.

La violenza
Ma la relazione con l’ex boss ’ndranghetista non sarebbe stata sempre tranquilla. “Mi ha picchiato, mi alzava le mani e mi ha pure detto una volta che voleva uccidermi - ha detto in lacrime - Ho provato anche a scappare ma me l’ha impedito”. La donna ha poi raccontato di una volta in cui era uscita con delle amiche e in cui avrebbe ricevuto una telefonata da parte del Lo Giudice il quale, infastidito, le avrebbe intimato di far rientro a casa: “Era geloso, mi ha dato degli schiaffi, era nervoso e agitato. Ho riportato dei lividi e ho avuto la faccia gonfia”.
Questi episodi sarebbero avvenuti prima degli interrogatori a Roma. Ma anche dopo le cose non sarebbero migliorate. “Voleva uccidermi - ha raccontato - sono scappata. Quella sera ho dormito a casa da una mia amica e lui è uscito ‘pazzo’ per questo e ha chiamato anche mia sorella per farmi tornare”.



L'ex boss Nino Lo Giudice nel momento del suo arresto


Le bombe contro i magistrati
La teste, nel corso della deposizione, ha anche parlato di quel che le disse l'ex compagno sugli attentati rivolti contro la procura generale il 3 gennaio 2010 e contro l’abitazione del procuratore Salvatore Di Landro il 26 agosto dello stesso anno. “All’inizio mi disse che non sapeva nulla. Anzi commentò l’episodio senza dire nulla in riferimento a sé - ha raccontato - Mi disse che era stato lui perché l’avevano fatto arrabbiare per il fratello (Luciano Lo Giudice, ndr). Ma non so altro, non mi voleva mai dire niente perché meno sapevo meglio era”. Infatti, dietro questi episodi c’era proprio la regia di Luciano e Nino Lo Giudice in quanto i magistrati reggini si sarebbero “macchiati” della colpa di non aver aiutato Luciano, finito in carcere con l’accusa di usura. Fatti per cui oltre ad Antonio Cortese entrambi i fratelli Lo Giudice sono stati condannati.
L’udienza è stata rinviata al prossimo 19 settembre in cui sarà ascoltato il collaboratore di giustizia Giuseppe Calabrò.

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