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di Davide de Bari
L’ex killer catanese sentito al processo assieme a Pasquale Nucera

“Ho partecipato alla strategia stragista fin dall’inizio dall’omicidio del giudice Antonino Scopelliti, che doveva prendere in mano il maxi processo a Cosa nostra”. Sono queste le parole del collaboratore di giustizia, Maurizio Avola, ex killer di Cosa nostra catanese, con cui riscrive la storia delle stragi messe in atto dalla mafia nei primi anni ’90. Il pentito ha testimoniato in videoconferenza questa mattina davanti alla Corte d’Assise di Reggio Calabria, presieduta da Ornella Pastore, in cui si celebra il processo ‘Ndrangheta stragista che vede alla sbarra il capo mafia di Brancaccio Giuseppe Graviano, e il boss Rocco Santo Filippone, entrambi accusati per gli attentati ai Carabinieri avvenuti tra il 1993 e il 1994 in cui morirono anche i due appuntati Garofalo e Fava. Grazie alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia è stato possibile riaprire le indagini sull’omicidio Scopellitti e si potrebbe avere una nuova chiave di lettura per la ricostruzione delle stragi agli inizi degli anni ’90. Il pm Giuseppe Lombardo prima che il teste rispondesse alle sue domande si è rassicurato che il collaboratore non violasse il segreto istruttorio sulle indagini in corso sul delitto del magistrato calabrese ucciso il 9 agosto 1991 a Villa San Giovanni. “Mi hanno informato dell’omicidio cinque giorni prima - ha rivelato Avola - ed a farlo sono stati Aldo Ercolano e Marcello D’Agata. Mi risulta che, a discutere di questo delitto, c’erano Eugenio Galea ed Ercolano, nel corso di un incontro tenutosi a Trapani. Era la primavera del 1991. A quella riunione parteciparono pure Matteo Messina Denaro e suo padre, quest’ultimo era contrario all’omicidio”.
Secondo il pentito per la rivendicazione delle stragi si doveva utilizzare una sigla ben precisa: “Dovevamo rivendicare gli attentati con la sigla Falange Armata, anche se non eravamo stati noi a compierli. Ce lo disse Galea negli anni ’90. Lui lo apprese in una riunione in cui si stabilì che occorreva iniziare con le bombe e rivendicarle con quella sigla”. Fu anche utilizzata per “la strage del pilastro contro i carabinieri a Bologna (compiuta dalla banda della Uno Bianca il 4 gennaio 1991, ndr) anche se non era coinvolta Cosa nostra e non ci furono solo in quel caso ma anche per altre”.
Avola ha anche parlato di un altro attentato messo in piedi dai catanesi, quello in Piazza Verga a Catania agli inizi degli anni ’90 che doveva colpire i carabinieri: “Parlando con Marcello D’Agata ci dicemmo che questa cosa era riconducibile ad Aldo Ercolano sempre per quanto riguarda la strategia messa in piedi dai corleonesi”.

La contrarietà di Santapaola alla strategia stragista
Durante l’esame, il teste ha rivelato che il boss Nitto Santapaola era contrario alle stragi che dovevano essere messe in atto. “Per lui la strategia stragista era sbagliata, - ha spiegato Avola - già nell’89 i palermitani dissero che bisognava uccidere Giovanni Falcone a Catania, ma Santapaola disse di no”. “Perché si oppose?” ha chiesto Lombardo al testimone che poi ha risposto: “Aveva altre amicizie che gli dissero che questa strada era sbagliata, infatti ci furono poi degli scontri con Riina. Lui su Catania si opponeva sempre tranne per il commissario Giovanni Lizio”. Secondo Avola, vista la contrarietà alle stragi di Santapaola, Aldo Ercolano e Marcello D’Agata, che però seguivano la strategia stragista, vollero fare “un colpo di mano” al grande boss catanese. “D’Agata ed Ercolano hanno intrapreso un’altra via con altri contatti e quindi volevano mettere a riposo Santapaola - ha spiegato - Per proteggerlo l’unica soluzione era quella di farlo arrestare. Infatti, D’Agata si mise in contatto con il dottor Antonio Manganelli (il dirigente della Polizia, divenuto capo e scomparso anni fa, ndr) e dopo un paio di mesi fu catturato. Io posso dire che già in precedenza Santapaola era sfuggito alla cattura perché avvisato prima, e in quella circostanza D’Agata ebbe a dirmi che era meglio lasciarlo stare dov’era e non informarlo del blitz”.


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Il boss catanese Nitto Santapaola


I capi mafia sono anche massoni
Nel corso della sua deposizione, Avola ha parlato dei rapporti tra i capi mafia e il mondo della massoneria: “I capi mafia dovevano far parte della massoneria, perché erano il braccio armato della massoneria come Totò Riina, Bernardo Provenzano, Madonia, Matteo e Francesco Messina Denaro. Questo il collaboratore lo venne a sapere da Marcello D’Agata “nell’ambito del progetto di attentato al dottor Di Pietro che stavamo organizzando per fare questo favore ai socialisti, visto che stava arrestando anche imprenditori che interessavano a Cosa nostra, ci dissero che dovevamo ucciderlo nel bresciano. - ha continuato - Dopo un settimana, Santapaola ci disse di fermare tutto perché questi non meritavano il favore. D’Agata mi disse che questo significava che qualcuno della massoneria gli aveva sconsigliato di assassinare il magistrato”.

I legami tra catanesi e calabresi
Sui rapporti tra Cosa nostra catanese, capeggiata da Nitto Santapaola, e la ‘Ndrangheta, Avola ha parlato del legame con Paolo De Stefano della piana di Gioia Tauro con cui avevano rapporti già dagli anni ’80: “Io mi sono incontrato insieme a Salvatore Ercolano con Paolo De Stefano a Reggio Calabria. Le prime volte ci dovevamo andare perché doveva arrivare una nave carica di hashish in Sicilia e poi anche per aggiustare un processo che era stato trasferito da Catania a Reggio”. Riguardo Paolo De Stefano, il collaboratore ha detto che Aldo Ercolano mi disse che era un uomo d’onore di Cosa nostra, come anche era accaduto nel napoletano con i Nuvoletta e anche con Carmine Alfieri”. A intrattenere i rapporti, dopo la morte di Paolo De Stefano, secondo l’ex mafioso catanese “i referenti di Cosa nostra con la ‘Ndrangheta divennero i De Stefano e i Piromalli. Sentivo che c’erano amicizie con i siciliani ma non veri e propri appoggi”.

I rapporti tra andreottiani e ‘ndranghetisti

Prima della deposizione del pentito Avola, è continuato l’esame del teste, ascoltato lo scorso marzo, Pasquale Nucera, affiliato di rango, fra i primi e più importanti pentiti di ‘Ndrangheta. L’ex ‘ndranghetista ha raccontato i rapporti tra le cosche calabresi e ambienti della Democrazia Cristiana tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90. “A Polsi si era discusso anche di questo e che servivano per definire e spartirsi affari e lavori. Non so quando siano iniziati, ma so che erano risalenti. - ha spiegato - Più o meno, da quando Licio Gelli aveva responsabili dei locali nella massoneria deviata. I contatti erano con Andreotti e la Dc. C’era anche qualche socialista". Di questo, il testimone ne è certo: "Io stesso sono stato incaricato di portare dei soldi ad un politico cosentino, tale Mancini, che era stato incaricato di aggiustare un processo. Anche Ligato era uno dei nostri politici inserito nel sistema. - ha raccontato Nucera - Poco prima che venisse ammazzato, c’era stata una riunione nella sua villa sugli appalti del doppio binario e delle grandi officine. Io avevo accompagnato sia politici, sia uomini di ‘Ndrangheta. Li ho portati a casa di Ligato (ex presidente delle Ferrovie assassinato nell’estate del 1989, ndr), era una villetta vicino alla spiaggia. C’era anche Filippo Barreca, perché quello era il suo territorio. Barreca aveva molti contatti, io ero della zona e lo conoscevo bene". Ma poi nel settembre '91 gli equilibri sembrano essere cambiati. "La vecchia Dc non era più in grado di dare alcune garanzie - aveva spiegato nel corso della sua precedente deposizione - ma cambiava solo la pelle ed il nome, il progetto era lo stesso". E oggi ha confermato: "La proposta arriva da parte degli andreottiani, perché c’era necessità di cambiare il sistema e la ‘ndrangheta doveva entrare nella partita perché altrimenti chi glieli dava i voti?". In precedenza, il collaboratore aveva spiegato che la proposta era molto precisa: "C’era l’idea di fare un partito politico dove mandare la gente al Governo. Venne fatta una riunione a Polsi e si accennò questo discorso. Come si chiamava? Il partito degli uomini".


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Il sette volte presidente del Consiglio dei ministri Giulio Andreotti © Imagoeconomica


L'ex affiliato della 'Ndrangheta ha poi parlato dell'esplosivo che era conservato all'interno della nave affondata "Laura C"."A Riace era stata scoperta la nave con all'interno esplosivo, da qui veniva preso e poi veniva distribuio o venduto - ha spiegato - C'era un cementificio che apparteneva alla famiglia Iamonte dove portavano l'esplosivo in quanto bisogna prima lavorarlo per poi cederlo a terzi. Ogni balletta era da 70kg".
L'udienza è aggiornata al prossimo 24 maggio in cui la Corte sarà in trasferta a Bologna.

Dossier Processo ‘Ndrangheta stragista

Foto © ammazzatecitutti.it

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