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tribunale cavaliere pmdi Aaron Pettinari e Francesca Panfili
Che tra il 1992 ed il 1993 vi furono una serie di riunioni tra figure apicali di Cosa nostra e gli 'ndranghetisti è ormai una certezza. Numerosi sono i collaboratori di giustizia che hanno riferito di questi incontri ed oggi al processo 'Ndrangheta stragista, che vede alla sbarra il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, ritenuto all'epoca capo mandamento della 'Ndrangheta reggina, a parlarne è stato il collaboratore di giustizia Gaetano Albanese.
Rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo il teste ha raccontato di una serie di riunioni che si svolgevano a Melicucco e in altri luoghi della piana di Gioia Tauro in cui erano coinvolti i principali esponenti delle famiglie mafiose della zona ed alcuni importanti personaggi di Cosa Nostra di Palermo vicini a Totò Riina. Secondo Albanese a questi incontri la 'Ndrangheta del territorio di Gioia Tauro era rappresentata dalle famiglie Mulè, Pesce, Piromalli e Mancuso ma c’erano anche alcuni esponenti della mafia di Reggio Calabria e del gruppo ionico. Secondo quanto riportato da Albanese, in questi incontri "i siciliani chiedevano dei favori contro lo Stato. Erano presenti uomini di Totò Riina. So, però, che non c’era la volontà di aderire a quella richiesta. Favori come toccare allo Stato, ai carabinieri, ai magistrati, come avevano fatto in Sicilia".

Quelle parole da falso pentito
Non era questa la prima volta che Albanese ha riferito in merito a questi incontri. Era già avvenuto in passato ma, anche in virtù di una collaborazione con la giustizia a dir poco complicata, fino ad ora le sue parole non erano mai stata approfondite troppo.
Albanese è un ex affiliato alle famiglie Piromalli-Molè, sin dai primi anni ’90, ma aveva rapporti con tutte le famiglie più importanti del Vibonese. A capo della sua famiglia, che riguardava il territorio di Candidoni, Dinami, San Pietro di Caridà, vi era suo fratello Antonio e tutti erano molto vicini alla storica cosca dei Mancuso di Limbadi. Poi, nel 1994 venne arrestato e da lì a poco, nel febbraio 1995, divenne un pentito, o meglio, un falso pentito. Secondo quanto da lui riferito in aula, all’epoca venne contattato in carcere da Rocco Mulé, Carmelo Stillitano e Rocco Cananzi per diventare un falso pentito e rilasciare dichiarazioni specifiche ed anche contraddittorie: "All’epoca si parlava di fare dichiarazioni come falsi collaboratori, con l’obiettivo di dire cose diverse da quelle di Annunziato Raso (uno dei primi killer della famiglia Mulé-Piromalli di Gioia Tauro con alle spalle più di quaranta omicidi, ex affiliato che sapeva molto dell’operato ‘ndranghetista di quella zona) e smontarle nel processo 'Tirreno'. Per qualche mese è stato così. Poi, però, ho iniziato a dire davvero cosa era successo".

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Giuseppe Lombardo © Imagoeconomica


Albanese ha raccontato di aver deciso di saltare veramente il fosso per ragioni familiari, in particolare per dare un futuro diverso ai suoi due figli che erano piccoli. Così tornò a parlare dell'assetto delle famiglie 'ndranghetiste della zona di Gioia Tauro, rivelando anche ciò che sapeva sugli incontri tra Cosa nostra siciliana e la mafia calabrese. Dichiarazioni che, a detta del teste, avrebbe rilasciato più volte all'allora pm di Catanzaro, Luciano D'Agostino ma su cui poi non vi fu alcun approfondimento.
In base al racconto del collaboratore di giustizia lui avrebbe appreso delle riunioni con i siciliani da una confidenza in carcere di Diego Mancuso che parlava con un altro affiliato. Mancuso esprimeva il dissenso dei calabresi ad agire contro lo stato dicendo che “nessuno di loro voleva affiliarsi ai siciliani contro lo Stato”. Non solo. Albanese ha anche dichiarato che quando si trovava nella masseria dei Mulé, luogo di incontro dei boss delle cosche locali e rifugio di alcuni latitanti, avrebbe visto più volte gli esponenti principali della mafia locale partire per andare alle riunioni che Diego Mulé, in carcere, confermò che erano quelle con i siciliani.
“Me ne parò anche Vincenzo Macrì - ha aggiunto ancora - Lui era della ionica e mi disse che anche a loro era stato chiesto un parere”.
Alla domanda del pm se potesse specificare quelli che erano stati i nomi dei partecipanti siciliani alle riunioni, ha risposto: “Tra il ‘95 e ‘96 quando ho iniziato a collaborare ricordavo i nomi in modo più preciso. All’epoca sapevo anche i nomi di sicuro. Loro parlavano dei palermitani vicino a Riina”.

Le minacce subite
Durante la deposizione di oggi, Albanese ha poi raccontato il suo percorso di affiliazione con la ‘Ndrangheta e la storia delle faide tra le varie famiglie della Piana di Gioia Tauro. In questo momento il collaboratore di giustizia si trova in carcere dopo l’arresto per detenzione d’armi trovate nella sua casa un mese prima di testimoniare al processo Genesi. Ed è in questo contesto che avrebbe anche subito delle minacce.
“Dottore sto in carcere da tre anni e mezzo perché ho tenuto armi in casa - ha detto rivolgendosi direttamente al procuratore aggiunto Lombardo - Le ho comprate quando avevo fatto questo processo perché un mese prima di testimoniare mi hanno avvicinato quando ero sotto protezione, sapevano dove mi trovavo, e mi hanno detto che dovevo dire quello che volevano loro e mi sono preso le armi perché avevo paura. Ecco perché ho dovuto dire che le cose affermate in precedenza non erano vere. Io l’ho detto alle autorità ma a nessuno è fregato niente. Ora sto in carcere e lo dico”. Infine il processo è stato aggiornato dalla Presidente della Corte d'Assise Ornella Pastore al prossimo venerdì quando a salire sul pretorio saranno altri collaboratori di giustizia.

Dossier Processo 'Ndrangheta stragista

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