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aula tribunale c imagoeconomica 3di Francesca Mondin
Al processo 'Ndrangheta stragista ascoltato il collaboratore di giustizia pugliese

“La 'Ndrangheta calabrese è la mamma di tutti, abbracciava tutti i gruppi in Italia: Camorra, Cosa nostra e pugliesi. Non c'era gruppo che non avesse contatti con la Calabria”. A dirlo è il collaboratore di giustizia Salvatore Annacondia, killer di Trani con più di 50 omicidi alle spalle e una scalata al potere dalla Puglia alla Lombardia che lo ha portato ad avere il riconoscimento di importanti 'ndranghetisti come Domenico Tegano e Franco “Coco” Trovato. Il pentito è stato sentito oggi al processo 'Ndrangheta stragista che vede imputati il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, calabrese considerato ai vertici del mandamento tirrenico all'epoca degli attentati ai carabinieri a Reggio Calabria tra il '93 e il '94. Annacondia ha raccontato la sua esperienza con le famiglie calabresi di mafia, insistendo sull'enorme potere raggiunto dalla 'Ndrangheta: “Si può dire che la famiglia calabrese è la più potente al mondo”. Le persone che comandavano ad un certo “livello sapevano farsi valere solo dal parlare - ha aggiunto - chi comanda e dirige sa usare la calma”. Fra tutti, il pentito non ha dubbi, a tenere le fila era il boss Domenico Tegano detto 'Mimmo' : “A Milano tutti facevano capo alla famiglia De Stefano di Reggio Calabria facente capo a Tegano, non c’era foglia che si muoveva senza il consenso dei Tegano”.
Ci sarebbe stato un circuito criminale allargato tipo “un consorzio” al quale facevano parte “i siciliani, tra cui i Fidanzati, i pugliesi e i calabresi”, una sigla che “raramente usciva dalla bocca dei grandi capi, la usavano per far capire cos'era la struttura”.
Salvatore Annacondia, tra qualche non ricordo in merito all'omicidio Mormile e alla Falange armata, ha accennato ai rapporti tra Calabria e i catanesi: “C’era la famiglia Santapaola che erano molto legati con le famiglie calabresi, in particolare con i De Stefano”.

Una collaborazione iniziata per il figlio
A convincere Salvatore Annacondia a schierarsi dalla parte della giustizia sarebbe stata la salute del figlio: “Un giorno venne a trovarmi mia moglie in carcere, era molto triste e mi disse: 'Se tu volevi fare la vita che hai fatto era meglio non mettessi al mondo una famiglia, perché, per colpa tua, tuo figlio sta morendo'. Un rimprovero che fu come uccidermi”. Il figlio dopo aver visto alla tv la foto del padre in seguito all'arresto, ricordando la foto dello zio “Michele” trasmessa in seguito al suo omicidio, avrebbe pensato che anche il padre era stato ucciso e di lì iniziò “un deperimento che lo portarono in tutte le cliniche d’Italia per aiutarlo ma era diventato pelle e ossa”. Quel giorno “Dissi subito a mio fratello: 'Vedi quel carabiniere? Chiamalo e digli che gli voglio parlare'”.

Foto © Imagoeconomica

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