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spatuzza gasparedi Aaron Pettinari
Assieme all'ex boss di Brancaccio sentito Mario Santo Di Matteo. Salta la deposizione di Di Carlo

Nel 1993, dopo le stragi di Roma e Milano e prima dell'attentato allo stadio Olimpico di Roma, anche la città di Napoli doveva essere colpita secondo il disegno stragista di Cosa nostra. Il dettaglio è emerso oggi nel corso del processo sul depistaggio di via d'Amelio che vede imputati i tre poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di calunnia aggravata dall'aver favorito Cosa nostra. Di fronte al collegio del tribunale di Caltanissetta, presieduto da Francesco D'Arrigo, ieri hanno deposto i collaboratori di giustizia Mario Santo Di Matteo e l'ex boss di Brancaccio, Gaspare Spatuzza, ovvero il pentito che ha contribuito a riscrivere parte della storia della strage del 19 luglio 1992. Quest'ultimo, rispondendo alle domande del sostituto procuratore Stefano Luciani, ha parlato di quella lunga serie di attentati avvenuti tra il 1992 ed il 1994: "C'era una questione a Napoli che abbiamo gestito anche noi in parte. Nel primo punto noi abbiamo prelevato l'esplosivo, lo abbiamo macinato e lo abbiamo inviato a Napoli in quanto, come mi disse Giuseppe Graviano, si sarebbero fatti tutto loro, i napoletani. Successivamente venne a dirmi che per quella circostanza ci saremmo dovuti muovere io e Cosimo Lo Nigro perché loro non erano esperti della tipologia del nuovo esplosivo". Questo progetto di attentato, secondo quanto dichiarato dal collaboratore, sarebbe stato messo in piedi dopo le stragi di Milano e Roma e prima dell'incontro con Graviano a Campofelice di Roccella, avvenuto tra ottobre e novembre 1993. "C'era questa famiglia napoletana dei Nuvoletta che si muoveva per quel che riguardava Cosa nostra". Il progetto su Napoli, però, venne accantonato.
Quella sequela di attentati in Continente, secondo Spatuzza, rappresentavano "qualcosa che andava oltre Cosa nostra".
"Gli attentati di Falcone e Borsellino per quello che rappresentavano, anche se erano complessi e con una devastazione, erano passabili. - ha detto l'ex boss di Brancaccio - Rispetto al 1992 quello che viene dopo ha la modalità terroristica. Ci si spostava in qualcosa che andava oltre".

Gli incontri con Giuseppe Graviano e il "colpetto" da dare
Come ha fatto in altre occasioni Spatuzza ha parlato degli incontri avuti con Giuseppe Graviano tra il 1993 ed il 1994. Il primo tra ottobre e novembre, assieme a Cosimo Lo Nigro, a Campofelice di Roccella dove "venne pianificato l'attentato contro i carabinieri". "Io dissi in quell'occasione che ci stavamo portando dietro dei morti che non ci appartenevano, come Firenze, dove erano morti bambini e persone civili, così come Milano. Era qualcosa di esterno da noi. Ed è in quell'occasione che ci disse se capivamo d politica. Lui ci spiegò che 'era in piedi una cosa che se andava a buon fine avremo tutti benefici, a partire dai carcerati'". Tempo dopo la squadra dei killer di Brancaccio si trasferì a Roma, preparando l'attentato all'Olimpico. Una strage che solo per il mancato funzionamento del telecomando non ha avuto luogo e che sarebbe stata, forse, la più devastante di sempre. "Avevamo programmato 80-90 chili di esplosivo ma avevamo ricevuto l'indicazione di rendere tutto ancora più potente e così aggiungemmo diversi chili di tondini di ferro tagliati a pezzettini - ha raccontato ancora il killer di don Pino Puglisi - C'era però una direttiva. Prima di andare avanti dovevamo aspettare l'arrivo a Roma di Giuseppe Graviano". Il boss di Brancaccio arrivò pochi giorni prima del 23 gennaio 1994, la domenica individuata per colpire. "Graviano lo incontrai al bar Doney - ha continuato Spatuzza - Mi dice che 'avevamo chiuso tutto ed avevamo ottenuto quello che cercavamo. Disse che avevamo chiuso grazie a persone serie che avevano portato avanti questa cosa ed ebbe a dire che la personalità era Berlusconi. Chiesi se era quello di canale 5 e lui rispose affermativamente e che 'in mezzo c'era il nostro compaesano Dell'Utri'. Io ero contento e dissi il mio intento di colpire Contorno che sapevamo si trovava a Formello. Ma lui mi disse che si doveva andare avanti con l'attentato ai carabinieri perché con questo dovevamo dare il colpo di grazia. Poi in macchina aggiunse anche che 'i calabresi si erano già mossi' e poi appresi dell'uccisione di due carabinieri".

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Il boss Giuseppe Graviano (© Ansa)


La strage di via d'Amelio
Parlando del ruolo avuto nella strage di via d'Amelio Spatuzza ha detto senza mezze misure: "Sono colpevole. Ho rubato io la 126 usata per l’attentato e mi pento”. Successivamente ha raccontato in maniera sintetica tutte le fasi in cui l'auto venne prelevata fino al trasporto, li 18 luglio 1992, al garage di Villasevallos. Qui la 126 utilizzata per la strage venne imbottita di tritolo alla presenza di uno sconosciuto che il collaboratore di giustizia non ha più rivisto successivamente. Alla domanda del pm Stefano Luciani se sapesse descrivere l’uomo, che sarebbe stato estraneo a Cosa nostra, il pentito ha risposto “ho ricordo di una foto sfocata. Nel momento in cui arrivo c'è Tinnirello che mi sta pilotando all'interno e noto questa persona in fondo al garage ma la mia massima attenzione era nella persona di Tinnirello che lo conoscevo. Ho cercato di dare indicazioni sull'immagine di questo negativo che è memorizzato nella mia memoria".

Il colloquio con Grasso e Vigna
Spatuzza ha anche ricordato che prima della sua collaborazione con la giustizia aveva avuto dei colloqui investigativi con il Procuratore nazionale antimafia Pierluigi Vigna e con Piero Grasso. "Io a loro diedi delle indicazioni. Dissi che in carcere c'erano innocenti e che stavano prendendo degli errori. Era il 1997, 1998. In quel periodo avevo già iniziato a prendere delle distanze da Cosa nostra. Lo dissi anche a Vigna e lui disse che era contento di questo percorso ma che un pentimento profondo avrebbe significato dare un contributo alla giustizia. Ma in quel momento non ero intenzionato a collaborare. Di quel colloquio parlai anche a Tolmezzo con Filippo Graviano. Al tempo si parlava anche di dissociazione e riprendendo il discorso e di quella disponibilità di Vigna, Filippo Graviano venne a dire di far sapere a Giuseppe che 'se non arrivava niente da dove deve arrivare è bene che anche noi iniziamo a parlare con i magistrati'".
Rispondendo alle domande delle parti civili, tornando sul colloquio investigativo con Vigna e Grasso ha aggiunto: "In un primo momento anche credevo che noi avessimo rubato una macchina che altri avevano già rubato. Quella era la mia convinzione all'epoca. Avevo poi avuto modo di vedere entrambe le persone che per conoscenze dirette le ritenevo estranee ai fatti (il riferimento è ad Orofino e Murana che furono ingiustamente condannati, ndr), per conoscenze dirette, e stavo dando indicazioni per far capire che stavano commettendo errori gravissimi in questo punto". Quei colloqui investigativi Spatuzza non li ha mai firmati "perché non avrebbe avuto senso in quanto così sarebbe stata palese la mia collaborazione. Ma avrei negato totalmente".

Mario Santo Di Matteo e quell'intercettazione con la moglie
Dopo Spatuzza a salire sul pretorio è stato il collaboratore di giustizia Mario Santo Di Matteo. Quest'ultimo, così come aveva fatto al Borsellino Quater, non è riuscito a dare una spiegazione chiara su un episodio che rappresenta un buco nero nella ricerca della verità sulla strage di via d'Amelio. I pm hanno infatti contestato al collaboratore di giustizia il contenuto di un colloquio in carcere, intercettato, avuto con la moglie Francesca Castellese il 14 dicembre del 1993. I due si trovavano presso i locali della Dia, a poche settimane dalla scomparsa del figlio. Un dialogo concitato e dai toni accesi in cui la madre appare disperata, in cui ad un certo punto si parla di "infiltrati nella polizia" inseriti nella strage Borsellino.

CASTELLESE: tu a tò figliu accussì l’ha fari nesciri, si fa questo discorso
DI MATTEO: ma che discorso? Ma che fa
CASTELLESE: parlare della mafia
DI MATTEO: Ah, nun ha caputu un cazzu
CASTELLESE: come non ha caputu un cazzu?
Parlano sottovoce
CASTELLESE: Oh, senti a mia, qualcuno è infiltrato (?) per conto della mafia
DI MATTEO: (?)
CASTELLESE: Aspè, fammi parlare (incomprensibile) Tu questo stai facendo, pirchì tu ha pinsari alla strage di BORSELLINO, a BORSELLINO c’è stato qualcuno infiltrato che ha preso (?)
DI MATTEO: (?)
CASTELLESE: Io chistu ti dicu … forse non hai capito
DI MATTEO: tu fa finta, ora parramo cu’…
CASTELLESE: Io haia a fare finta, io quannu cu’ papà ci dissi ca dà vota vinni ni tì capito, parlare cu to figlio
Parlano sottovoce e velocemente: incomprensibile
DI MATTEO: No tu dici se u’ sannu, lu sta dicinnu tu
CASTELLESE: capire se c’è qualcuno della Polizia infiltrato pure nella mafia e ti …
DI MATTEO: Cu?
CASTELLESE: mi dievi aiutare da tutti i punti di vista, picchì iu mi scantu, mi scantu
DI MATTEO: intanto pensa a to (figliu)
(…..)
CASTELLESE: cioè io pensu au picciriddu, caputu? Tu m’ha capiri! Però, Sa, u discursu è chuistu, nuatri hamma a fari (?)
Incomprensibile, parlano a bassa voce
DI MATTEO: Iddu mi dissi, dice, tò muglieri (?) suo marito ava a ritrattari (Inc.) Iddu, BAGARELLA e Totò (?) sanno pure che c’hanno...z

di matteo proc borsellino quater


"Queste intercettazioni a distanza di anni sono inserite in un momento drammatico ma a cosa facevano riferimento?" ha chiesto Paci. E Di Matteo ha risposto: "Dopo 25 anni sempre mi chiedete questa cosa dell'intercettazione ma non esiste. L'unica persona che ho avuto contatti come dei servizi segreti che ho conosciuto è solo questo tal Bellini". "Ma le parole hanno un senso e i riferimenti sono specifici" ha insistito Paci. Ma ancora una volta il teste ha insistito: "Il colloquio l'ho avuto ma per il fatto di Giuseppe e che mia moglie parlava con me perché avevano sequestrato Giuseppe. Ma non che io parlavo dei servizi segreti. Che io non conosco. Ogni volta mi fanno la domanda... Ma è sempre la stessa storia. Non è vero niente. Io non lo so, non conosco nessuno dei servizi".
A quel punto è anche intervenuto Luciani: "Non si può dire che queste cose non esistono qui si sta leggendo il contenuto di un'intercettazione in cui parla lei con sua mogie". E Di Matteo ha replicato: "Io non credo che c'è un'intercettazione perché è come Scarantino che ha dentro tante str... e magari ha messo una parola diversa... e non è vero. Io non avevo problemi a dire se c'era qualcuno dei servizi. Avevo parlato di tutto, di Capaci. Perché dovevo non dire la verità?".
Ugualmente il procuratore aggiunto nisseno ha ricordato al teste il contenuto di un'intervista rilasciata al Tg1 il 23 novembre 2008. Al giornalista, Raul Passaretti, che annunciava che Di Matteo avrebbe presto fatto “i nomi dei killer della strage di Via d’Amelio" il pentito, che era al tempo in diretta, rispose "Anche se li so in questo momento non posso dire nulla".
Alla contestazione Di Matteo ha detto che "i nomi che sapevo sono quelli che ci siamo detti oggi, i Riina, i fratelli Graviano e compagnia". Ma il dubbio che vi fosse dell'altro, resta. Così il pentito ha parlato del confronto con Scarantino nel 1995: "In questa occasione dopo che ha finito di parlare ho detto che questo non sapeva niente di Cosa nostra e più che rubare le ruote di scorta delle macchine non sapeva. Se non volevano credere me ci sono altri pentiti, e dissi di chiedere ad altri pentiti. Per me questo non esisteva a Cosa nostra".
Sempre rispondendo alle domande dei pm sull'attentato di Borsellino, Di Matteo le ha fatte in merito alla consegna, a Gioé, dei telecomandi che poi sarebbero stati utilizzati per far saltare in aria l’autobomba che 57 giorni dopo uccise a Palermo il giudice e la sua scorta. "Mi disse che sarebbero serviti ai Graviano. Mi disse che c'era un lavoro ma che lo dovevano fare loro, i Graviano, come incarico. E nient'altro".

L'ultimo colloquio con Gioè
Altro episodio misterioso che ha visto coinvolto Di Matteo prima che fosse pentito è quello dell'ultimo dialogo con Antonino Gioé, prima che questi morisse in circostanze che ancora oggi sono tutte da chiarire nella notte tra il 28 e il 29 luglio del 1993, la notte dopo le stragi di Roma e Milano. “Mi trovavo presso il carcere di Rebibbia e passeggiavo all'esterno durante l'ora d'aria. Da una finestra si affaccia Gioé. Mi sembrava un barbone per come era messo in viso con la barba lunga. Gli chiesi come stava se faceva colloqui con la famiglia. Mi disse che stava bene che mangiava pesce spada e che tutti i giorni vedeva il fratello. In quel momento capii che stava combinando qualcosa e pensai che stesse collaborando. E all'indomani mattina mi portano all'Asinara. Lì dopo qualche giorno che si diffuse la notizia della morte vennero ad interrogarmi e mi dissero che Gioé aveva parlato di me nella lettera. Se aveva contatti con inquirenti prima di allora? A me non risultano”. Di Matteo ha anche confermato degli incontri tra Antonino Gioé e Paolo Bellini, uomo che “a dire di Gioé era appartenente dei servizi segreti".
Infine ieri era prevista la deposizione di Francesco Di Carlo ma la sua escussione è stata rinviata ad altra data. Oggi si terrà l’ultimo giorno di trasferta e saranno sentiti Giovanni Brusca, Francesco Onorato e Gaspare Mutolo.

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