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"In carcere, ad ottobre 1992, seppi degli attentati ai monumenti in programma"

"Nel 1988-1989 un maresciallo dei carabinieri mi disse che La Barbera era in rapporto con i servizi segreti. Il suo nome non lo ricordo ma frequentava un bar alla Tuscolana e tempo dopo fu anche arrestato perché faceva le veline sui passaporti. Me lo presentò Renatino De Pedis (leader della Banda della Magliana) e anche questo soggetto lavorava con i servizi procurando questi passaporti. Io stesso me ne sono fatto far uno". E' il giorno della deposizione del "ladro gentiluomo" Vincenzo Pipino, al processo sul depistaggio di via d'Amelio, in corso davanti al Tribunale di Caltanissetta. Una storia, la sua, legata a quella di Vincenzo Scarantino, il falso pentito autoaccusatosi del furto della 126 con cui fu compiuta la strage di via d'Amelio, in quanto per un periodo (circa una settimana, ndr) è stato compagno di cella di quest'ultimo presso il carcere di Venezia.
Una co-detenzione non casuale ma "orchestrata" dall'allora capo della Squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, secondo gli inquirenti tra i principali artefici del depistaggio, affinché raccogliesse le confidenze dal falso pentito.
Parlando di La Barbera il teste ha ricordato che "era un poliziotto singolare e questa singolarità non è che me la sono inventata io. Lo fuggivo come la peste, non mi fidavo di lui". Tuttavia i primi anni Novanta accettò l'incarico di dialogare con Scarantino e, così come aveva fatto al processo Borsellino quater, Pipino ha raccontato come gli venne assegnata quella "missione".
"Quando mi ha parlato di questa cosa io mi trovavo a Roma, a Rebibbia - ha riferito alla Corte rispondendo alle domande del Procuratore aggiunto Gabriele Paci -, ero coinvolto in una faccenda di droga da cui poi sono uscito assolto. Era accaduto che avevo a casa di mia moglie una telefonata da un soggetto palermitano. Ci furono due minuti e mezzo di silenzio e poi il rumore di alcuni spari. Quando trovarono il telefono di questa persona videro il numero sul display. La Barbera sapeva che era quello di mia moglie. Ecco io avevo paura di essere messo nei guai, io con la mafia non avevo mai avuto nulla a che fare, avevo solo conosciuto dei mafiosi in carcere, nulla di più. Lui mi disse che potevo rischiare qualcosa mi disse che quindi potevo dargli una mano con questo Scarantino. Mi disse: 'Non voglio che fai la spia ma che capisci se questo fosse colpevole o innocente della strage di Borsellino'. Io inizialmente non volevo poi accettai. Lui diceva di volermi aiutare con la libertà provvisoria, ma io insistevo, ero innocente e lo avrei dimostrato al mio processo, ma lui voleva che gli facessi questa cortesia". Il "ladro-gentiluomo" ha riferito che, durante il trasferimento da Roma a Venezia, La Barbera gli disse che la cella era microfonata e che con Scarantino avrebbe dovuto parlare in altri luoghi di socialità. "In macchina c'erano anche altre tre persone, erano tutti in borghese, e questo me lo disse in un autogrill, quando ci fermammo - ha aggiunto il teste - Disse che 'i suoi picciotti non dovevano sapere niente e che era tutta una cosa tra me e lui'".

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Arnaldo La Barbera © Imagoeconomica


L'incontro con Scarantino
Una volta in cella con il "picciotto della Guadagna" Pipino avrebbe agito così come gli era stato suggerito: "Entrai e vidi questo ragazzetto che piangeva. Non parlai lì con lui, gli mimai anche che lì c'erano dei microfoni e che saremmo andati nelle docce. Parlando con lui capii che non c'entrava nulla. Non sapeva parlare, non sapeva scrivere. Al quinto giorno mi sono tolto il microfono e ho detto a Scarantino che la cella era piena di microspie. Si stava martoriando un innocente. A La Barbera dissi di voltarsi da un'altra parte perché questo era innocente". Al Procuratore aggiunto Paci, che ha evidenziato come le registrazioni dei colloqui tra lui e Scarantino fossero stati registrati fino all'ultimo giorno in cui tornerà a Roma il teste ha replicato: "Si vede che c'era più di un microfono".
In quei giorni di detenzione a Venezia Pipino si accorse anche che in cella, oltre ai microfoni, c’era un telefono nero. "Io questo telefonino l'ho avuto in mano per venti minuti e stava già in cella - ha detto in aula - Scarantino non l'aveva visto ero convinto fosse una furbata, una trappola, quindi l’ho fatto a pezzi mentre lui era in doccia e l’ho buttato fuori dalla finestra, poi è stato recuperato dagli agenti di penitenziaria. Non ne parlai con nessuno, non volevo rischiare magari di mettere nei guai quello che era stato in cella prima di me". A parlare del lancio del telefono ad una scorsa udienza era stato anche il giornalista Dianese il quale aveva però riferito che Pipino gli disse che quel telefono "era in cella nelle disponibilità di Pipino e Scarantino". Diversamente oggi in aula Pipino ha ribadito che "quel telefono era spento. E non lo so come mai fosse lì a me nessuno aveva detto niente. Io distrussi tutto e lo gettai. Scarantino non sapeva nulla. Io aiutai anche a lui a scrivere le lettere alla famiglia".
Rispondendo ad una domanda dell'avvocato di Salvatore Borsellino, Fabio Repici, parlando di Scarantino ha aggiunto: "Era cattolico fino all’inverosimile, piangeva, era un po’ disorientato, si capiva che lui soffriva molto per questa storia, non capiva nemmeno bene di che cosa era imputato. Debole di carattere sicuramente, influenzabile al 99 per cento, mi è dispiaciuto di tutto quello che gli è successo, lui di me si fidava e io lo tranquillizzavo. Ci sono due tipi di detenuto: uno che ha commesso il reato e capisci subito che è colpevole, cioè capisci se piange perché ha rimorso di quello che ha fatto; e poi quelli come lui... uno che fa una strage e si comporta in quella maniera si capiva solo guardandolo che non c’entrava niente".

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Vincenzo Scarantino in uno scatto d'archivio


Gli attentati del 1993
Quando Pipino è tornato al carcere di Regina Coeli ha incontrato nuovamente La Barbera: "Lì mi disse nuovamente di sentire se avessi saputo qualche cosa sugli attentati. Ancora dovevano avvenire quelli del 1993. E lì ascoltai che c'erano in programma queste cose qua di attentati a monumenti. C'era un che lo chiamavano 'coniglio', Carnevale, che poi diventerà un collaboratore. Poi c'era un altro della Banda della Magliana sempre. Ma non mi ricordo chi mi dice questa cosa. Ricordo che si parlava per il carcere duro e mi dissero che c'erano in programma di fare gli attentati ai monumenti, alle cose artistiche. Ed era proprio per i carceri duri. E questo è nell'ottobre 1992. Queste cose le dissi a La Barbera dicendo che c'erano queste voci e non certezze su questo".
Pipino ha poi riferito che durante la sua detenzione a San Gimignano ricevette la visita di tre soggetti (di cui almeno uno sarebbe stato anche nel gruppo che partecipò alla trasferta a Venezia qualche anno prima, ndr), dopo gli attentati del 1993, che gli portarono i saluti di La Barbera. Una visita che da lui fu intesa come un avvertimento.

Scaratino in tv
Un altro episodio riferito durante la deposizione ha riguardato il periodo di detenzione a Prato, nel 1998: "Mi trovavo in cella con i fratelli Gionta e un siciliano di Brancaccio. C'era questo Scarantino in tv su Italia Uno. E dissi: 'ma guarda questo che ha fatto arrestare 6-7 persone tra cui il suo cognato Profeta che è innocente' e aggiunsi che era un pentito manovrato dai servizi segreti e questa fu la mia rovina. Quel siciliano scrisse a Vigna, ci fu un processo. Io fui prosciolto ma l'altro condannato".
Il teste ha anche confermato che anni dopo la detenzione con Scarantino ha parlato di quei fatti con l’amico giornalista Maurizio Danese: "Gli ho detto che tutta questa storia era manovrata da La Barbera, che quello era un finto pentito manovrato dai Servizi segreti... una mia deduzione, all’epoca - ha aggiunto Pipino -. Credo di avergli detto tutto questo sette-otto anni prima che parlasse Spatuzza". Pipino ha anche dichiarato che La Barbera gli avrebbe anche offerto dei soldi, 150milioni, "mi disse anche che mi avrebbe fatto rivedere mia moglie ma io non volevo vederlo più, pur di mandarlo via ho detto di no e gli dissi chiaramente di non immischiarsi nelle mie faccende penali".
Il processo è stato rinviato al 1° febbraio.

In foto di copertina: Vincenzo Pipino © Beatrice Mancini

Dossier Processo Depistaggio via d'Amelio

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