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Al termine della requisitoria chiesta la condanna dei cinque imputati
"Il tritolo chiave di volta indagini"
di Aaron Pettinari

"Fermo restando che la responsabilità di Cosa Nostra è scontata, si pensi a titolo meramente esemplificativo alle risultanze dei colloqui in carcere del 2013 fra Salvatore Riina e Alberto Lorusso, ove il capo dei capi Riina rivendica con malsano orgoglio di avere realizzato la strage di Capaci e quella di Via d'Amelio, le indagini per individuare eventuali concorrenti esterni continuano e non si fermano". Lo ha ribadito il Procuratore generale Lia Sava nel corso della sua lunga requisitoria, protrattasi per oltre tre ore, nell'ambito del processo d'Appello "Capaci bis", che si celebra nell'aula bunker del carcere di Caltanissetta. Anche lo scorso settembre, nel processo d'appello Borsellino quater, la Sava aveva evidenziato come "lo sviluppo delle indagini sta via via delineando altre strade che, se doverosamente riscontrate, possono far individuare altri soggetti che hanno potuto contribuire alle stragi".
Perché è evidente che zone d'ombra siano presenti in entrambi gli eccidi che hanno portato alla morte Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Al Capaci bis imputati sono il boss Salvo Madonia, Giorgio Pizzo, Cosimo Lo Nigro, Lorenzo Tinnirello e Vittorio Tutino. I primi quattro, in primo grado, vennero condannati all'ergastolo mentre Tutino venne assolto per non aver commesso il fatto. Il Pg Sava, nel chiedere la condanna di tutti e cinque gli imputati, ha sottolineato che "le indagini proseguono per individuare eventuali concorrenti esterni".
"Il 26 luglio 2017 - ha ricordato - c'è stata la sentenza del Capaci bis di primo grado, ed era il 27 maggio del 2016 quando dissi che le indagini per individuare altre responsabilità anche esterne a Cosa Nostra sarebbero continuate; la prova è che in questo giudizio di appello abbiamo ascoltato altri collaboratori di giustizia e abbiamo messo a disposizione delle difese acquisizioni sul cosiddetto doppio cantiere ancora in corso di approfondimento. Per fare i processi ci vogliono elementi di prova certi e il nostro impegno è quello di non fermarsi mai". Infatti, "assodata la responsabilità di Cosa nostra, la Procura di Caltanissetta e diverse altre procure, con il coordinamento della Direzione Nazionale Antimafia continuano ad indagare alla ricerca di elementi certi che possano provare la presenza di soggetti esterni a Cosa nostra nella realizzazione della strage".
"Per dare atto dell'attività di indagine che non si ferma per l'individuazione di tutti i punti oscuri della strage di Capaci - ha aggiunto - abbiamo ascoltato e depositato diversi verbali di vari collaboratori di giustizia. La genetista Nicoletta Resta ha ipotizzato la presenza di una donna sul cantiere di Capaci".
L'esperta giunse a questa conclusione dopo l'analisi di alcuni reperti che vennero ritrovati in una busta a 63 metri dal cratere provocato dall'esplosione. Vennero rinvenuti, all'interno di una busta del mastice, un paio di guanti in lattice e una torcia. "Tuttavia - ha sottolineato Lia Sava - nessuna di questa piste allo stato attuale consente di individuare la presenza di soggetti esterni a Cosa nostra ma le indagini continuano. Il nostro impegno è quello di non fermarci mai".

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Lia Sava © Imagoeconomica



Il tritolo come "chiave di volta"
"La chiave di volta di tutte le stragi del '92 e de '93 è il tritolo. - ha aggiunto - In questo processo d'appello siamo riusciti a comprendere dove è stato preso il tritolo e chi lo ha macinato. E questo grazie alla collaborazione di Cosimo D'Amato, la cui decisione di collaborare faceva paura a Cosa nostra. Quando D'Amato iniziò la sua collaborazione, i suoi familiari gli dissero non farti tentare dal diavolo". "Per quanto riguarda Capaci - ha proseguito - e a seguito delle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, Cosimo D'Amato e Fabio Tranchina abbiamo individuato con chiarezza il ruolo del mandamento di Brancaccio anche in questa strage". Il procuratore generale ha sottolineato l'importanza dei grandi collaboratori che hanno parlato in questo processo. "Brusca, Siino e Antonino Giuffré. Quest'ultimo - ha detto Lia Sava - ci ha permesso di ricostruire la responsabilità di Salvatore Madonia. Lui con il suo livello culturale non poteva non rendersi conto che Cosa Nostra stava avviando la stagione stragista".

La stagione stragista

Un altro argomento affrontato è stata l'avvio della stagione delle stragi, individuato con l'omicidio del politico Dc, Salvo Lima. "Con l'omicidio Lima - ha proseguito la Sava - inizia la strategia di eliminare quei politici che non erano più referenti efficienti e i nemici storici di Cosa nostra, Falcone e Borsellino". Il procuratore generale si è anche soffermata sull'importanza della missione romana "nella quale sono stati coinvolti Matteo Messina Denaro e i suoi uomini ed esponenti di Bancaccio". Proprio contro il boss di Castelvetrano, ancora oggi latitante, è in corso, sempre a Caltanissetta, un processo per essere stato il mandante delle stragi del 1992. Inoltre è stato ricordato come nella riunione di Cosa nostra per lo scambio degli auguri di Natale, nel 91, "quando si respirava un clima gelido, di tensione e durante la quale il Riina disse che ognuno doveva assumersi le proprie responsabilità. Nel momento in cui il maxi processo sarebbe stato perso, sarebbe partito l'attacco allo Stato. La stagione delle bombe. Dopo la sentenza della Cassazione, iniziò la stagione stragista".
Di Matteo Messina Denaro e del progetto di attentato contro Falcone, nei primi mesi del 1992, ha parlato anche il sostituto procuratore generale nisseno, Antonino Patti che ha ricordato come un commando partì dalla Sicilia alla volta di Roma: "In tutto erano sei persone, tre del trapanese capitanati da Matteo Messina Denaro e altre tre della cosca di Brancaccio. Ma poi non se ne fece nulla e il commando rientrando in Sicilia venne fermato da Toto' Riina perché in Sicilia c'erano altre cose da fare". "Anche se sulla missione romana non c'è mai stata una sentenza - ha aggiunto Patti - il fatto come tale è stato accertato in vari processi. Ne parla di questa missione anzitutto Vincenzo Sinacori, mafioso di Mazara del Vallo, nel '96, quando iniziò la sua collaborazione con la giustizia". Lo snodo è la sentenza della Cassazione sul maxi processo. "All'indomani - ha aggiunto Patti - il 31 gennaio '92 ci fu una riunione. Si svolse nella casa di Salvatore Biondino, all'epoca autista e fedelissimo di Riina. Oltre allo stesso Sinacori, erano presenti Totò Riina, Matteo Messina Denaro e altri tre boss del mandamento di Brancaccio, Lorenzo Tinnirello, Giuseppe Graviano e Cristofaro Cannella. Si parlò dell'esito del maxi processo e di andare a Roma per assassinare Falcone che all'epoca lavorava al ministero della Giustizia. Nel corso della stessa riunione - ha sottolineato il Pg - vennero forniti anche altri obiettivi da eliminare, come Maurizio Costanzo e il ministro della giustizia, Claudio Martelli. Si parlo' anche di Pippo Baudo. Il commando parti' alla volta della capitale portando con se' armi ed esplosivo. L'obiettivo più facile da raggiungere era Costanzo perché la sua trasmissione si svolgeva al teatro Parioli. Sulla missione romana ci sono anche le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, perché viene incaricato di andare a recuperare le armi che erano rimaste a Roma ma non l'esplosivo. Anche se la missione romana non andò a buon fine, Cosa nostra non rinunciò ad assassinare Falcone. Le condanne a morte decretate da Cosa nostra sono inappellabili e vanno eseguite anche a distanza di anni".  Sempre il Pg ha ricordato le parole in carcere di Totò Riina, che della strage di Capaci parlò con il compagno d'ora d'aria, Alberto Lorusso. "Mi sarei aspettato - ha proseguito Patti - che Riina a 21 anni dalla strage di Capaci, potesse avere un raffreddamento di quell'odio che lo aveva portato ad assassinare Falcone. E invece, facendo delle confidenze al suo compagno di cella, Alberto Lorusso, ne continua a parlare con disprezzo. Dice che 'Anche se fosse uscito vivo da quell'attentato sarei andato persino sulla luna per assassinarlo. Doveva andare a vedere la mattanza dei tonni e invece il tonno era lui'. Poi aggiunge: 'Il signore c'è', e si riferiva al fatto che Falcone, il giorno dell'attentato, fece cambio con il suo autista".

"Falcone denigrato da colleghi e politici"
Nel corso della requisitoria il Procuratore generale ha infine ricordato come Giovanni Falcone fosse stato a lungo denigrato da colleghi e politici: "Era considerato un nemico storico di Cosa nostra. Aveva indagato sul sistema degli appalti, sulla loro spartizione scoprendo intrecci tra mafia e politica. Cosa nostra aveva capito che Falcone, pur essendo a Roma, era diventato particolarmente pericoloso perché avrebbe potuto scardinare l'esito del maxi processo". "Tuttavia - ha aggiunto - dalle dichiarazioni rese da Antonino Giuffré, abbiamo anche scoperto che Riina prima di deliberare le stragi del '92, aveva fatto dei sondaggi per vedere se alcuni settori malsani delle istituzioni potevano avere interesse ad eliminare Falcone. E in effetti, dopo l'attentato all'Addaura, con il quale la mafia decretò la condanna a morte del magistrato, iniziò una campagna denigratoria nei confronti del giudice anche da parte di alcuni suoi colleghi e di diversi esponenti politici".

Foto © Shobha

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